Massimario di Giurisprudenza del LavoroISSN 0025-4959
G. Giappichelli Editore

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Il regime delle tutele e i licenziamenti disciplinari... (di Giampiero Proia, Professore ordinario di Diritto del lavoro – Università “Roma Tre”.)


L’articolo intende fare il punto sullo stato della giurisprudenza relativa all’individuazione delle tutele applicabili in relazione ai diversi vizi che possono colpire il licenziamento disciplinare, evidenziando in particolare i problemi ancora aperti e le possibili soluzioni.

The essay makes an overview on the case law status concerning the applicable protections related to the different defects of the disciplinary dismissal, highlighting the outstanding problems and the possible solutions.

SOMMARIO:

1. Premessa - 2. I fraintendimenti legati alla inutile contrapposizione tra fatto materiale e fatto giuridico - 3. Quando il fatto è insussistente? - 4. Segue: il fatto parzialmente insussistente - 5. Il fatto di minima gravità - 6. Fatto contestato e previsioni dei contratti collettivi - 7. Il fatto contestato nella disciplina del contratto a tutele crescenti - 8. Segue: la “diretta dimostrazione in giudizio” - 9. La violazione del principio di tempestività - NOTE


1. Premessa

Un tempo la trattazione del tema del licenziamento disciplinare ruotava intorno all’esame dei presupposti e dei requisiti dell’esercizio del potere disciplinare da parte del datore di lavoro [1]. Oggi, a seguito delle recenti riforme del lavoro (art. 18, legge n. 300/1970, come modificato dalla legge n. 92/2012, e d.lgs. n. 23/2015) che hanno introdotto una gra­duazione del regime sanzionatorio in materia di licenziamenti, il punto di vista privilegiato, per la novità e la complessità delle questioni che pone, è quello dell’indi­viduazione delle tutele applicabili in relazione ai diversi vizi che possono colpire il licenziamento disciplinare. In particolare, l’accertamento della mancanza di giusta causa e di giustificato mo­tivo non determina più automaticamente la conseguenza della reintegrazione, la cui applicazione presuppone, invece, un’ulteriore indagine da parte del Giudicante in ordine alla sussistenza degli specifici presupposti individuati, rispettivamente, dal com­ma 4, art. 18, legge n. 300/1970 (per quanto riguarda i rapporti di lavoro instaurati sino al 7 marzo 2015) e dal comma 2, art. 3, d.lgs. n. 23/2015 (per quanto riguarda i rapporti di lavoro instaurati dopo tale data). Ove non ricorrano tali ulteriori presupposti la tutela applicabile è quella di natura indennitaria (prevista, rispettivamente, dal comma 5, art. 18, legge n. 300/1970 e dall’art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23/2015), tutela alla quale oramai è attribuita dal legislatore «una rilevanza di carattere generale» [2]. Pertanto, come è stato correttamente evidenziato, «il giudice deve oggi procedere ad un giudizio più completo ed articolato rispetto al passato, dovendo accertare non solo se sussistano o meno la giusta causa ed il giustificato motivo di recesso, ma, nel caso in cui lo escluda, anche il grado di divergenza della condotta datoriale dal modello legale e contrattuale legittimante» (così Cass. n. 13178/2017).


2. I fraintendimenti legati alla inutile contrapposizione tra fatto materiale e fatto giuridico

Ai sensi del comma 4 dell’art. 18 novellato, la prima ipotesi nella quale il licenziamento privo di giusta causa e di giustificato motivo può dare luogo alla reintegra­zione è quella in cui venga accertata l’insussistenza del “fatto contestato”. In dottrina, il dibattito si è da subito polarizzato soprattutto intorno all’alterna­tiva se il “fatto” debba intendersi in senso “materiale” o in senso “giuridico” [3]. E l’eco di questo dibattito ha influenzato anche gli orientamenti della Suprema Corte [4]. A mio avviso, tuttavia, la questione terminologica non è in realtà decisiva, ed anzi può essere causa di fraintendimenti [5], anche perché diversi sono i significati che possono essere attribuiti ai due aggettivi [6]. Basti rilevare che, a volte, l’apparente adesione alla tesi del fatto materiale è effettuata solo allo scopo di esplicitare che, ai fini dell’applicazione della reintegrazio­ne, non rileva la qualificazione giuridica del fatto in termini di giusta causa o giustificato motivo (cfr. Cass. n. 23669/2014), conclusione, questa, identica a quella cui pervengono le sentenze che, dal punto di vista terminologico, aderiscono alle tesi del fatto giuridico. È, altresì, significativo che, a prescindere dal punto di vista adottato, la giurispru­denza della Suprema Corte, disattendendo l’opinione espressa da una parte della dot­trina [7] e della giurisprudenza di merito [8], è univoca nel ritenere che ai fini dell’ac­certamento dell’insussistenza del fatto non rileva la eventuale mancanza di proporzionalità tra il fatto contestato e il licenziamento (cfr., da ultimo, Cass. n. 3655/2019) [9]. Del resto, a mio avviso, l’equivocità e la non decisività della contrapposizione fra fatto materiale e fatto giuridico possono essere colte anche riflettendo sulla motivazione di quelle sentenze che hanno assecondato la prospettiva di giudizio basata su tale contrapposizione per pervenire alla conclusione che «il fatto deve intendersi in senso giuridico e non meramente materiale» (cfr. Cass. n. 13383/2017). Si osserva, in quelle sentenze, che il mero fatto «non ha mai un proprio autonomo rilievo nel mondo giuridico al di fuori della qualificazione che, in maniera [continua ..]


3. Quando il fatto è insussistente?

Sarebbe, quindi, preferibile mettere da parte le questioni terminologiche, e concentrare l’attenzione direttamente ed esclusivamente sulla ricerca degli elementi costitutivi del “fatto” la cui insussistenza produce gli effetti della tutela reale attenuata. Da questo punto di vista, nella sostanza, l’orientamento della Suprema Corte sembra essersi assestato nel senso che il “fatto contestato” è sussistente non solo quando esso non sia accaduto, ma anche ove non abbia il carattere dell’antigiuridi­cità o non sia imputabile al lavoratore (Cass. n. 10019/2016; Cass. n. 13383/2017; Cass. n. 17736/2017; Cass. n. 30430/2018; Cass. n. 3655/2019). Tale conclusione è stata fondata sia su elementi tratti dalla formulazione testuale della norma, sia sulla base di un’interpretazione logico-sistematica che sottragga que­st’ultima a possibili dubbi di ragionevolezza e di compatibilità costituzionale. E così, per un verso, si è fatto leva sull’uso della locuzione “fatto contestato”, che «lega la materialità del fatto alla sua rilevanza disciplinare» e, sotto il profilo logico, determina la «assoluta sovrapponibilità, sotto il profilo disciplinare, dei casi di condotta materialmente inesistente a quelli di condotta che non costituisca inadempimento degli obblighi del lavoratore ovvero non sia imputabile al lavoratore stesso» (Cass. n. 10019/2016). Per l’altro verso, è stato rilevato che «se per insussistenza del fatto contestato si intendesse quella a livello meramente materiale si otterrebbe l’illogico effetto di ri­conoscere maggior tutela (quella reintegratoria c.d. attenuata di cui all’art. 18, com­ma 4) a chi abbia comunque commesso un illecito disciplinare (seppur suscettibile di mera sanzione conservativa alla stregua dei contratti collettivi o dei codici disciplinari applicabili) rispetto a chi, invece, non ne abbia commesso alcuno, avendo tenuto una condotta lecita» (Cass. n. 11322/2018) [11]. Tuttavia, diversamente da quanto sostenuto da una parte della dottrina [12], non ritengo che la sussistenza del fatto presupponga anche l’accertamento dell’elemento psicologico, e in particolare del dolo e della colpa [13]. La valutazione dell’elemento psicologico, e della sua intensità, [continua ..]


4. Segue: il fatto parzialmente insussistente

Tra i numerosi problemi interpretativi ancora aperti vi è quello dell’individua­zione della disciplina applicabile nel caso in cui il fatto o i fatti contestati risultino solo in parte sussistenti. Al riguardo, non pare essere di aiuto la sentenza della Suprema Corte n. 20545/ 2015, richiamata da alcuni Autori [15], che ha ad oggetto un licenziamento intimato sulla base della previsione del c.c.n.l. che comminava tale sanzione per fatti arrecanti all’azienda grave “nocumento morale o materiale”. In tale occasione, la Cassazione ha ritenuto che l’accertamento della mancanza di tale “nocumento”, che «è parte in­tegrante della fattispecie di illecito disciplinare in questione», determina la «insussistenza del fatto addebitato al lavoratore» che è «elemento costitutivo del diritto al ripristino del rapporto di lavoro» ai sensi dell’art. 18, comma 4. Senonché, così decidendo, la Corte è incorsa in un equivoco, poiché, come risulta dalla motivazione della sentenza stessa, nel caso di specie l’elemento del “grave no­cumento morale o materiale”, costituiva un elemento della infrazione tipizzata dal c.c.n.l. (e da esso considerata punibile con il licenziamento), e non un elemento del “fatto contestato” al lavoratore. Ed allora, poiché questo tipo di equivoco ricorre spesso tra gli “addetti ai lavori”, non è superfluo richiamare l’attenzione sulla diversità dei piani su cui operano il “fatto contestato” e le tipizzazioni dei contratti collettivi. Ed infatti, l’ipotesi in cui si accerti che la condotta contestata al lavoratore non corrisponda pienamente all’in­frazione che il contratto collettivo tipizza e punisce con il licenziamento rientra nel campo di applicazione del comma 5 dell’art. 18 [16]. Ed invece, come detto, l’operati­vità del comma 4 presuppone che dall’accertamento giudiziale risulti insussistente un elemento della condotta contestata. Ciò precisato, si può osservare che, in base ad un’interpretazione secundum ratio, l’applicazione dell’art. 18, comma 4, dovrebbe essere esclusa quando l’insussisten­za riguardi elementi marginali del “fatto contestato”, che risulti accertato nel [continua ..]


5. Il fatto di minima gravità

Non ancora risolto è, altresì, il problema del licenziamento adottato per addebiti di minima gravità, tale da indurre il sospetto che tali addebiti siano stati strumentalmente utilizzati dal datore di lavoro, pur consapevole della insussistenza della giusta causa e del giustificato motivo, al solo fine di “liberarsi” di un lavoratore non gradito per altre non dichiarate ragioni. Con l’obiettivo di impedire situazioni di questo genere, la dottrina ha elaborato diverse proposte, tutte orientate all’applicazione estensiva di figure ed istituti previsti o desumibili dal diritto posto, quali la frode alla legge [18] o il motivo illecito [19]. Per il momento, la giurisprudenza di legittimità sembra invece aver adottato una diversa soluzione, certamente di natura più pragmatica. Ed invero, la Suprema Corte, nel confermare le decisioni di merito di applicazio­ne dell’art. 18, comma 4, ha elaborato il principio di diritto secondo il quale «non può ritenersi relegato nell’ambito del giudizio di proporzionalità qualunque fatto (accertato) teoricamente censurabile ma in concreto privo del requisito di antigiuridicità», di talché sono giuridicamente inesistenti non solo i fatti di rilievo disciplinare “nullo”, ma anche quelli di rilievo «sostanzialmente inapprezzabile» (cfr. Cass. n. 13799/2017; si veda anche Cass. n. 18418/2016 relativo ad un addebito, tra gli altri, di «modi maleducati nei rapporti con il personale») [20]. Ora, a ben vedere, non è affatto agevole comprendere come e quando il fatto, pur essendo «teoricamente censurabile», sia «in concreto privo del requisito di antigiuridicità», né cosa si intenda per fatto «sostanzialmente inapprezzabile». Anzi, l’uso dell’avverbio “sostanzialmente” lascerebbe pensare che si faccia riferimento ad un fatto il cui rilievo disciplinare sul piano formale sarebbe invece apprezzabile. Si ha, quindi, l’impressione che il principio elaborato della Suprema Corte presenti volutamente dei margini di indeterminatezza, se non di ambiguità, proprio per dare una ampia “copertura” motivazionale a quelle fattispecie concrete nelle quali i giudici del merito decidono di applicare la tutela reale attenuata per licenziamenti intimati a fronte [continua ..]


6. Fatto contestato e previsioni dei contratti collettivi

Profonda divergenza di opinioni si è registrata in dottrina anche in relazione al­l’interpretazione della seconda ipotesi di operatività della tutela reale attenuata, ossia la riconducibilità del fatto contestato «tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi, ovvero dei codici disciplinari applicabili». Volendo schematizzare: da un lato, si ritiene che tale ipotesi ricorra soltanto ove il fatto contestato sia specificamente contemplato tra le condotte punite dal contratto collettivo con una sanzione conservativa; dall’altro, si ritiene invece che il controllo giudiziale debba essere molto più esteso poiché si propone sia di valutare la riconducibilità del fatto contestato nell’ambito di quelle ampie definizioni delle infrazioni disciplinari solitamente previste dalla contrattazione collettiva, sia di valutare in termini comparativi la gravità del fatto contestato rispetto alla gravità delle singole condotte che la stessa contrattazione considera punibili con sanzione conservativa [21]. Ora, se è vero che entrambe le tesi sono compatibili con la formulazione testuale della norma, la seconda presta il fianco alla fondata critica della sua contrarietà alla ratio ed al sistema della legge, poiché essa determina l’effetto di marginalizzare di fatto il campo di applicazione di quella tutela indennitaria alla quale, invece, è stata riconosciuta «rilevanza di carattere generale» [22]. Al riguardo, è interessante richiamare il caso deciso da Cass. n. 26013/2018. In quel caso, i giudizi di merito avevano accertato che il fatto contestato fosse ricondu­cibile ad una condotta tipizzata (e punita con la sospensione) delle parti collettive (ossia le condotte consistenti nel «rivolgere a colleghi o terzi frasi offensive»), senza però tenere conto che la clausola del c.c.n.l. conteneva l’ulteriore precisazione «salvo che per natura, modalità e circostanze, non costituisca più grave mancanza» punibile con il licenziamento. In tale occasione, la Suprema Corte, ha rilevato che l’e­same della gravità del fatto (diretto ad accertare, in quel caso, la riconducibilità al­l’ipotesi della sospensione o a quella del licenziamento) implica «un [continua ..]


7. Il fatto contestato nella disciplina del contratto a tutele crescenti

Il regime sanzionatorio introdotto dal d.lgs. n. 23/2015, oltre a non fare riferimento all’ipotesi della riconducibilità del fatto contestato ad una infrazione prevista dalla contrattazione collettiva, utilizza una diversa formulazione testuale per descrivere l’ipotesi dell’insussistenza del fatto. Anche se alla nuova formulazione non può essere riconosciuta natura interpretativa di quella, analoga, del testo novellato dall’art. 18 [27], è più che verosimile che essa costituisca consapevole reazione alle letture riduttive che, come detto, parte della dottrina e della giurisprudenza di merito avevano proposto con riguardo agli effetti delle riforme del 2012 [28]. In particolare, l’aggiunta dell’aggettivo “materiale” ha dato nuova linfa all’inte­resse degli studiosi sui possibili significati della locuzione e, nel contempo, ha reso più arditi i tentativi di proporre una applicazione estensiva della tutela reale attenuata in caso di licenziamento disciplinare privo di giusta causa o giustificato motivo [29]. In effetti, con il riferimento al fatto materiale, il legislatore ha reso incontestabile ciò che in via interpretativa è già a mio avviso desumibile dal testo novellato dell’art. 18, e cioè che ai fini dell’applicazione della tutela reale attenuata non rileva l’ele­mento psicologico del dolo e della colpa. E in questa prospettiva si comprende e si spiega anche l’ulteriore, esplicita, precisazione della estraneità alla sfera dell’accer­tamento giudiziale di «ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento». Ciò perché l’intensità del dolo e della colpa è, come detto, un essenziale elemento di valutazione che rileva solo ai fini del giudizio sulla proporzionalità della sanzione espulsiva. Non è, invece, escluso che l’interpretazione giurisprudenziale porti a ritenere an­cora necessario, come elementi costitutivi della condotta contestata, la sua antigiuri­dicità e la sua imputabilità al lavoratore, posto che almeno uno degli argomenti elaborati dalla Suprema Corte con riguardo all’art. 18, comma 4, ossia l’elemento testuale del riferimento al fatto “contestato” [30] (da cui si desume la necessità che si tratti di un fatto [continua ..]


8. Segue: la “diretta dimostrazione in giudizio”

Molti dubbi ha sollevato, inoltre, l’interpretazione dell’inciso con il quale l’ap­plicazione della tutela reale attenuata è condizionata alla “diretta dimostrazione in giudizio” dell’insussistenza del fatto contestato. Nella giurisprudenza di merito, è stato affermato: a) che tale espressione «non determina il superamento del principio generale che pone in capo al datore di lavoro l’onere di provare la giustificatezza del licenziamento (art. 5 della legge n. 604 del 1966)»; b) che, di conseguenza, la mancata «prova positiva della sussistenza del fatto contestato», da parte del datore di lavoro, comporterebbe l’applicazione della tutela reale attenuata (App. Aquila 14 dicembre 2017). La premessa sub a) è certamente esatta, ma non lo è la conseguenza che se ne desume sub b), che è il frutto di una confusione di disciplina tra il profilo sostanziale e quelle delle tutele. Non v’è dubbio che l’onere di provare la sussistenza della giusta causa e del giustificato motivo incombe sul datore di lavoro, ma il mancato adempimento di tale onere, pur comportando l’illegittimità del licenziamento, non consente di selezionare la tutela applicabile. Come si è detto, già nella riforma del 2012, ed ancora di più nel sistema delineato dal d.lgs. n. 23/2015, la tutela ordinaria applicabile nel caso di accertamento della mancanza di giusta causa o giustificato motivo è quella indennitaria “forte”, mentre la tutela reale attenuata è prevista, in via di eccezione, ove ricorrano gli ulteriori elementi differenziali introdotti dal legislatore, e quindi ove ricorra anche la diretta dimostrazione in giudizio dell’insussistenza del fatto contestato. Il che non comporta, come è stato sostenuto in dottrina, una inversione dell’one­re della prova (in contrasto con il principio sancito dall’art. 5, legge n. 604/1966), poiché, da un lato, l’onere di dimostrare la giusta causa ed il giustificato motivo resta a carico del datore di lavoro e, d’altro lato, il mancato assolvimento di tale onere determina l’applicazione della forma ordinaria di tutela prevista dalla legge per l’i­potesi di licenziamento privo di giusta causa e di giustificato motivo, ossia la tutela indennitaria di cui all’artt. [continua ..]


9. La violazione del principio di tempestività

Dirimendo un acceso e variegato contrasto di orientamenti [37], le Sezioni Unite, con la sentenza n. 30985/2017, hanno affermato che il vizio di tardività non comporta nullità del licenziamento e non rende il fatto contestato “insussistente”. Quel vizio, quindi, può dare luogo esclusivamente, a seconda dei casi, alla tutela indennitaria “forte” o a quella “attenuata”. Precisamente, quando il ritardo nella contestazione sia “notevole e non giustificato”, il comportamento del datore di lavoro costituisce «accertata contrarietà ai canoni di correttezza e buona fede» e rientra nelle “altre ipotesi” del comma 5 dell’art. 18 in cui il giudice accerta che non ricorrano gli estremi della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo. Quando, invece, la violazione riguardi i termini procedurali previsti da norme del contratto collettivo o dalla legge, trattandosi di «contrarietà a norma di natura procedimentale», trova applicazione l’art. 18, comma 6, legge n. 300/1970. Com’era prevedibile, la sentenza delle Sezioni Unite, essendo stata chiamata a sciogliere un complesso “groviglio” di nodi interpretativi sui quali si era già registrata un’ampia gamma di posizioni anche in dottrina, ha suscitato sia adesioni che critiche [38]. E, in effetti, non si può sottacere che essa lasci aperto quantomeno un delicato problema applicativo, che è quello di stabilire quando il ritardo nella contestazione non costituisca mera violazione dei termini procedimentali previsti dalla fonte legale o contrattuale, ed assuma invece i caratteri della “notevolezza” e della “ingiustificatezza”. Tuttavia, è anche da dire, che, a mio avviso, la soluzione tracciata dalla sentenza n. 30985/2017 appare la più coerente con il complessivo assetto del nuovo regime sanzionatorio, mentre, di contro, l’accoglimento di una delle altre diverse tesi prospettate in dottrina e in giurisprudenza avrebbe certamente forzato la ratio della differenziazione delle tutele che quel regime ha introdotto. In particolare, non sembra possa più avere credito la tesi interpretativa secondo cui la tempestività sia un elemento costitutivo del potere disciplinare, così che la man­canza di quell’elemento [continua ..]


NOTE