Massimario di Giurisprudenza del LavoroISSN 0025-4959
G. Giappichelli Editore

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Il licenziamento nelle organizzazioni di tendenza: disciplina europea e compatibilità con il jobs act (di Marco Mocella)


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Corte di Giustizia 11 settembre 2018, causa C 68/17 – Pres. K. Le­naerts-Est. A.F. Biltgen – M. Wathelet Avv. Gen. – IR c. JQ

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L’art. 4, par. 2, direttiva 2000/78, consente a che una struttura ospedaliera costituita in forma di società di capitali di diritto privato da parte di una chiesa o un’al­tra organizzazione la cui etica sia fondata sulla religione o sulle convinzioni perso­nali, non può decidere di sottoporre i suoi dipendenti operanti a livello direttivo a obblighi di atteggiamento di buona fede e di lealtà nei confronti di tale etica diversi in funzione della confessione o agnosticismo di tali dipendenti. Eventuali differen­ze di trattamento, in termini di obblighi di atteggiamento di buona fede e di lealtà nei confronti di detta etica, possono essere ritenuti conformi alla suddetta direttiva solo se, tenuto conto della natura delle attività professionali interessate o del contesto in cui sono esercitate, la religione o le convinzioni personali costituiscono un requisito professionale essenziale, legittimo e giustificato rispetto all’etica della chiesa o dell’organizzazione in questione e conforme al principio di proporzionalità, il che spetta al giudice nazionale verificare.

Un giudice nazionale investito di una controversia tra due privati è tenuto, qualora non gli sia possibile interpretare il diritto nazionale vigente in modo conforme all’art. 4, par. 2, direttiva 2000/78, ad assicurare, nell’ambito delle sue competenze, la tutela giuridica spettante ai soggetti dell’ordinamento derivante dai principi generali del diritto dell’Unione, come il principio di non discriminazione sulla base della religione o delle convinzioni personali, ora sancito dall’art. 21 della Carta, e a garantire la piena efficacia dei diritti che ne derivano, disapplicando all’occorrenza qualsiasi disposizione nazionale contraria.

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SOMMARIO:

1. La sentenza in epigrafe - 2. La normativa e la giurisprudenza europea in tema di discriminazioni nelle organizzazioni di tendenza - 3. La tutela delle organizzazioni di tendenza in Italia prima e dopo il Jobs Act - 4. Potere di disapplicazione del giudice interno ed effettività della normativa europea - NOTE


1. La sentenza in epigrafe

La Corte di Giustizia, a distanza di pochi mesi dalla sentenza Egenberger, torna ad occuparsi dell’art. 4, comma 2, direttiva 2000/78/CE, che stabilisce, nell’ambito del quadro generale della parità di trattamento, specifiche eccezioni per le c.d. organizzazioni di tendenza [1]. Nel caso esaminato, un primario di confessione cattolica dipendente di uno degli ospedali della Caritas in territorio tedesco veniva licenziato per aver prima divorziato e quindi contratto nuovo matrimonio civile, senza che il primo fosse stato annullato, in contrasto con i principi della religione cattolica. La legge tedesca del 14 agosto 2006 sulla parità di trattamento (Allgemeines Gleichbehandlungsgesetz) dispone, all’art. 9, comma 2 [2], che le organizzazioni di ten­denza possano chiedere ai loro dipendenti un atteggiamento di buona fede e di lealtà nei confronti dell’ideologia del datore [3]. I giudici interni chiedono quindi alla CGUE se tale norma sia compatibile coi principi dell’Unione o se debba essere disapplicata; inoltre, poiché l’organizzazione gestiva l’attività ospedaliera tramite una società di capitali, si domanda se anche in tale ipotesi la direttiva trovi applicazione [4]. Con articolata motivazione, richiamando ampiamente la sentenza Egenberger so­pra ricordata, la Corte conferma l’interpretazione dell’art. 4, par. 2, comma 2, direttiva 2000/78/CE secondo cui anche l’organizzazione di tendenza, pur essendo soggetta ad un regime di favore a tutela delle ideologie di cui è portatrice, non può imporre ai propri dipendenti obblighi di buona fede e di lealtà nei confronti di tale etica, anche quando gestita con modalità imprenditoriali. Nel caso di specie, è evidente che l’adesione alla concezione cattolica del matrimonio, tenuto conto delle attività professionali svolte dal lavoratore, non risultava una condizione essenziale per lo svolgimento della prestazione. Inoltre, eventuali dipendenti non cattolici che avessero contratto nuovi matrimoni non sarebbero stati licenziati a differenza del primario che professava detta religione. La sentenza ribadisce un ulteriore profilo ormai consolidato nella giurisprudenza della Corte, vale a dire che il fondamento dei principi in tema di parità di trattamento non [continua ..]


2. La normativa e la giurisprudenza europea in tema di discriminazioni nelle organizzazioni di tendenza

L’apparato europeo antidiscriminatorio è basato, principalmente, sulla direttiva 2000/78 che, al 4° considerando, prevede il diritto generale all’uguaglianza dinanzi alla legge e alla protezione contro le discriminazioni, limitando al 23° considerando le eventuali eccezioni a casi strettamente identificati [7]. Ancora, il 24° considerando ri­chiama la dichiarazione n. 11 sullo status delle chiese e delle organizzazioni non confessionali allegata all’atto finale del Trattato di Amsterdam, ripresa anche dall’art. 17 del TFUE, che consente agli Stati membri di mantenere o prevedere disposizioni specifiche sui requisiti professionali essenziali, legittimi e giustificati che possono es­sere imposti per svolgervi un’attività lavorativa. L’art. 4, comma 1, dispone in via generale che il divieto di discriminazione contenuto nella direttiva e nelle altre normative richiamate possa essere superato e che quindi eventuali disparità di trattamento possano considerarsi ammissibili solo quando, per la natura dell’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, costituiscano requisito essenziale e determinante, purché la finalità sia legittima e il requisito proporzionato.[8]. Tali ipotesi, che possono evidentemente applicarsi anche alle organizzazioni di tendenza, sono espressamente riferite alla natura e al contenuto dell’attività lavorativa [9]. Il comma 2 consente di mantenere in vigore normative o prassi nazionali esistenti alla data della direttiva che prevedano, per l’attività professionale di chiese o di altre organizzazioni la cui etica sia fondata sulla religione o sulle convinzioni per­sonali, una differenza di trattamento basata su queste ultime quando, per la natura di tali attività o per il contesto in cui vengono espletate, esse rappresentino un requisito essenziale, legittimo e giustificato per lo svolgimento dell’attività lavorativa e vi sia un concreto rischio di lesione per l’autonomia dell’ente o per la sua etica, per cui tale requisito risulti indispensabile [10]. Rispetto al comma 1, si tratta di una condizione meno favorevole per il prestatore in quanto non viene più richiesta la verifica del principio di proporzionalità, vale a dire che il requisito sia appropriato e non [continua ..]


3. La tutela delle organizzazioni di tendenza in Italia prima e dopo il Jobs Act

L’enucleazione del concetto di organizzazione di tendenza è, come noto, di origine tedesca, derivando dalla necessità di limitare il controllo dei lavoratori nella cogestione delle imprese: nel momento in cui, con la legge 4 febbraio 1920, si concedeva tale diritto ai lavoratori, si volle evitare che esso si estendesse anche alle imprese portatrici di una specifica tendenza, al fine di garantirne libertà e indipendenza [18]. In mancanza di un equivalente dei diritti di cogestione dell’impresa, dottrina e giurisprudenza italiana mutuarono un concetto di organizzazione di tendenza relativamente ampio, basato sulla connessione tra l’ideologia dell’organizzazione [19] e l’ob­bligazione di collaborazione del lavoratore, ponendosi quindi in particolare rilievo l’elemento fiduciario della prestazione di lavoro [20]. Lo Statuto dei lavoratori aveva escluso l’applicabilità del Titolo III, ivi compreso quindi l’art. 18, ai datori di lavoro non imprenditori, avallando quindi, probabilmente involontariamente, il sillogismo tra questi ultimi e le organizzazioni di tenden­za, recepito poi dalla giurisprudenza prevalente [21]. L’art. 4, legge n. 108/1990 identificò i soggetti esclusi dalla reintegrazione con le organizzazioni non imprenditoriali che, senza fine di lucro, svolgessero attività di natura sindacale, politica, culturale, di istruzione, di religione o di culto. L’elencazione della natura dell’attività venne considerata prevalentemente tassativa, tanto che la mancata inclusione nell’elenco non poteva in alcun modo essere surrogata [22]. L’assenza di scopo di lucro, che per alcuni costituisce una endiadi con la mancanza di imprenditorialità, era ricondotta non già al datore ma all’attività da questi esercitata [23], sebbene la dottrina commercialistica più recente escluda la sovrapponibilità tra imprenditorialità e scopo di lucro [24], ritenendo che l’impresa sarebbe oggettivamente organizzata con determinati caratteri laddove lo scopo di lucro avrebbe una natura soggettiva, corrispondendo sostanzialmente al fine interno e soggettivo dell’imprenditore [25]. In questo contesto si inserisce l’intervento del d.lgs. n. 23/2015 il quale prevede all’art. 9, comma 2, che il nuovo regime [continua ..]


4. Potere di disapplicazione del giudice interno ed effettività della normativa europea

Altra questione posta dal giudice del rinvio alla CGUE è relativa al potere – dovere del giudice nazionale di disapplicare una disposizione interna quando questa non possa essere interpretata in modo conforme ad una norma europea, anche modificando un’interpretazione consolidata incompatibile con gli scopi di una direttiva. Soltanto quando tale interpretazione risultasse assolutamente impossibile, il giudice ha l’obbligo di disapplicare la norma interna incompatibile con quella europea, senza necessità di interpellare la Corte di Giustizia, sebbene possa valutare opportuno farlo [32]. L’obbligo di disapplicazione può tuttavia essere in concreto declinato in vario modo e costituirà presumibilmente la nuova frontiera del dialogo tra i giudici interni e la Corte di Giustizia UE. In primo luogo, perché la norma interna possa essere disapplicata, occorre che la disposizione comunitaria soddisfi i requisiti dell’immediata applicabilità, cioè si caratterizzi per competenza, precisione e “incondizionatezza” [33]. Inoltre, devono essere rispettati i principi fondamentali del nostro ordinamento giuridico, i c.d. “controlimiti”, individuati dalla Corte Costituzionale nel rispetto dei «principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale e (de)i diritti inaliena­bili della persona», come ad esempio i principi della certezza dei diritto e dell’affi­damento [34]. Invero la Corte, pur con tali eccezioni, ha confermato che nelle materie di sua competenza il diritto comunitario ha il primato su quello interno sulla base del­l’art. 11 Cost. e dell’art. 117 Cost., o più esattamente i due ordinamenti sarebbero di pari livello quanto alla gerarchia, ma quello europeo sarebbe sovraordinato per com­petenza [35]. In ogni caso, l’interpretazione conforme, anche a costo di una rivisitazione degli orientamenti giurisprudenziali consolidati, resta la via principale, mentre la disappli­cazione costituisce una extrema ratio, da utilizzare solo nel caso in cui il tentativo di interpretazione conforme non risulti praticabile.


NOTE
Fascicolo 3 - 2019