Massimario di Giurisprudenza del LavoroISSN 0025-4959
G. Giappichelli Editore

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Donne (in)visibili e disparità retributiva (di Anna Maria Battisti)


L’Autore analizza le cause del divario retributivo di genere e le sue conseguenze. Quindi, illustra le principali misure da intraprendere da ogni punto di vista: migliorare l’applicazio­ne del principio della parità retributiva, attraverso il sistema della job evaluation; combattere la segregazione occupazionale e settoriale; rompere il soffitto di cristallo; ridurre l’effetto pe­nalizzante del lavoro di cura; valorizzare maggiormente le competenze, l’impegno e le respon­sabilità delle donne; portare alla luce disuguaglianze e stereotipi; rendere trasparente il divario retributivo di genere. L’Autore sottolinea, infine, che l’inclusione delle donne reca be­nefici economici alle famiglie, alle aziende e alla società intera.

Invisible women and gender pay gap

The Author analyzes the causes of gender pay gap and its consequences. Thus, highlights the main measures to be taken from all possible angles such as improving the application of the equal pay principle through the job evaluation system; combating segregation in occupations and sectors as well as vertical segregation; tackling the care penalty; better valorizing women’s skills, efforts and responsibilities; unveiling inequalities and stereotypes; alerting and informing about the gender pay gap. Finally, the Author underlines that gender inclusiveness produces powerful results that benefit families, companies and entire societies.

Keywords: Gender pay gap – causes – women inclusiveness – economic growth.

SOMMARIO:

1. Premessa: analisi di un fenomeno ancora sfuggente - 2. Scollatura tra normativa e realtà - 3. Cause di fondo del divario retributivo di genere - 4. La divisione sessuale del lavoro - 5. Il divario pensionistico di genere - 6. La job evaluation per l’equità nella gestione retributiva - 7. La trasparenza della parità retributiva - 8. Effetti in tema di onere probatorio - 9. Vantaggi economici dell’uguaglianza di genere - 10. Conclusioni: il paradigma dell’investimento sociale come svol­ta per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva - NOTE


1. Premessa: analisi di un fenomeno ancora sfuggente

Il tema della parità retributiva tra uomo e donna (c.d. Gender pay gap) è dotato di tale carica attrattiva da essere stato più volte al centro dell’attenzione generale, si­tuato com’è nel crocevia tra così tante discipline: statistica, sociologia, diritto, welfare, organizzazione del lavoro. A distanza di 25 anni dalle note Giornate di studio Aidlass, svoltesi a Gubbio, sul tema “Lavoro e discriminazione”, la parità di genere sembra restare ancora una chimera. Risale proprio ad allora un’autorevole dottrina [1] che parlava di “utopia della parità”. Questo, ad evidenziare il lungo e tortuoso cammino che le donne avrebbero dovuto percorrere al fine di guadagnare visibilità nel mondo del lavoro. Una visibilità che, però, ancora, oggi, non trova pieno riconoscimento ma che resta un obiettivo da realizzare, entro il 2030 [2]. Le donne appaiono (in)visibili, nell’accesso e nella permanenza nel mercato del lavoro, così come nella rappresentanza istituzionale. Peraltro, nel nostro Paese, a parità di mansioni, le donne percepiscono stipendi significativamente inferiori a quelli degli uomini, guadagnando in media il 23% in meno [3]. È questo l’aspetto su cui ci si soffermerà, nella consapevolezza che si tratta di un tema ancora sfuggente, di non facile trattazione e, dunque molto complesso [4], in ragione del diverso atteggiarsi dei dati e/o indicatori di natura statistica. Da un lato, infatti, il recente Rapporto OCSE [5] dell’Eurostat evidenzia che il Gen­der pay gap in Italia si aggira intorno al 5,5%, così mostrando il nostro Paese “virtuoso” rispetto agli altri, ma trascurando il fatto che tale dato riguarda la retribuzione lorda oraria media anziché il reddito annuo lordo [6]. In altri termini, il Gender pay gap appare la differenza tra i salari orari lordi medi di uomini e donne, espressi in per­centuale del salario maschile. Si tratta, invero, di un indicatore, per così dire “grezzo”, “non aggiustato”, essendo composto, come si illustrerà nel prosieguo, da una parte “spiegabile” (attribuibile a caratteristiche produttive come titolo di studio, per esempio) e una parte “non [continua ..]


2. Scollatura tra normativa e realtà

Del resto, che le donne rappresentano una categoria di persone sottoprotette, dal periodo romano in poi (come i minori), è noto da tempo, anche se non è possibile qui stabilire, per quali ragioni storiche, si sia verificato un evento di così “notevole gravità”, della sottoprotezione della donna [9]. Ciò che interessa rilevare è piuttosto il fatto che il problema del lavoro femminile è stato affrontato nel suo complesso, in Italia, con notevole ritardo e marginalità, restando ferma la convinzione che “in definitiva, non vi è specificità nella condizione di inferiorità della donna in questa società” [10], che ha fatto del “maschile” il valore dominante ed ha considerato il “femminile” come un valore immancabilmente subordinato [11]. La verità è che la nostra Costituzione è “sincera” [12]: la prova più evidente della sua sincerità è data dal fatto che, subito dopo aver proclamato che tutti i cittadini sono liberi e uguali di fronte alla legge (art. 3, comma 1), non esita ad esibire di se stessa un’immagine apertamente dissociata, ammettendo che la società è fondata sulla diseguaglianza di fatto (art. 3, comma 2). D’altro canto, l’introduzione della legislazione protettiva appare diretta a scoraggiare il lavoro femminile (e dei giovani) e a mantenere questo tipo di manodopera in condizioni di marginalità retributiva e normativa [13]; così è stato anche durante il periodo fascista, considerata la prevalenza della politica demografica del regime rispetto alla tutela della donna. Il cambio di rotta, ovvero il riconoscimento della regola generale della parità tra i due sessi si è realizzato, come noto, con l’introduzione dell’art. 37 della nostra Costituzione [14], avvertita come «riflesso vivo delle gravi ingiustizie che ancora si registrano nella vita italiana a carico delle donne lavoratrici» [15], al di là del precetto degli artt. 3 e 36, comma 1 della nostra Costituzione [16]. Non si può inoltre sottacere sul fatto che, nell’art. 37, si prevede una protezione “rafforzata” per la lavoratrice madre, che «trascende quella che deriva dalla semplice attuazione delle norme generali di [continua ..]


3. Cause di fondo del divario retributivo di genere

I divari di genere a livello di occupazione e di retribuzione derivano da diverse diseguaglianze che colpiscono le donne nel corso della vita. Si pensi anzitutto alla segregazione di genere nell’istruzione e nel mercato del lavoro: le donne, infatti, tendono ad essere sovrarappresentate in termini di titoli di studio, programmi di formazione e impieghi che offrono retribuzioni inferiori rispetto alle occupazioni svolte prevalentemente dagli uomini. In altri termini, le donne laureate non riescono a cogliere per intero i frutti del loro investimento in capitale umano e i dati sulla transizione dal sistema formativo a quello produttivo mostrano che queste difficoltà emergono fin dall’inizio della carriera, a tre soli anni dalla laurea, malgrado siano più scolarizzate della componente maschile e sistematicamente più brave negli studi. Ma non solo. La realtà è che uomini e donne con lo stesso livello di istruzione sono collocati in posti di lavoro diversi, a causa della c.d. segregazione occupazionale, per tale intendendo l’ineguale distribuzione per genere degli individui tra le diverse occupazioni [40]. Essa è generalmente misurata da un indice di segregazione che rappresenta la percentuale di donne (o di uomini) che dovrebbe essere ridistribuita tra le occupazioni al fine di ottenere una completa eguaglianza nella distribuzione occupazionale per genere (su cui v. il paragrafo che segue). La presenza di segregazione orizzontale evidenzia l’esistenza di stereotipi sociali legati al genere che ostacola la flessibilità del mercato del lavoro (cioè il rapido adattamento ai cambiamenti esogeni); la presenza di segregazione verticale evidenzia invece l’esistenza di un “soffitto di cristallo” (c.d. glass ceiling) che ostacola il percorso di carriera delle donne e le esclude dalle posizioni apicali [41]. Un rapido sguardo al contesto europeo rileva che l’Italia risulta caratterizzata da un livello di segregazione più basso di quello degli altri Paesi dell’Unione ma questo vantaggio è più apparente che reale, essendo determinato dalla scarsa partecipazione femminile al mercato del lavoro anziché dalla maggiore integrazione professionale. Il che evidenzia quanto sia rilevante la segregazione verticale nel nostro Paese, diversamente da altri Paesi come Danimarca, Svezia e Finlandia, [continua ..]


4. La divisione sessuale del lavoro

D’altro canto, dobbiamo far riferimento ad un presupposto di ordine non giuridico, ma sociologico: il fatto che la vita associata è, come tale, generativa di insicurezza, e che questo carattere tende ad aumentare via via che il principio della divisione del lavoro ha assunto una rilevanza qualitativa [47]. Le donne che scelgono di lavorare avrebbero facoltà di accedere a qualunque professione, almeno in linea teorica [48], ma in pratica ciò non accade, e le loro scelte ri­sultano confinate in un ambito molto più limitato [49]. Le donne si concentrano, infatti, in particolari professioni e mansioni, a discapito delle altre opportunità, in ragione delle loro stesse preferenze, siano esse biologicamente determinate o condizionate da stereotipi sociali (lato dell’offerta di lavoro), ma anche delle preferenze altrui (dei datori di lavoro, dei colleghi, dei clienti, ecc.), o delle barriere erette dalla discriminazione attuale o passata (lato della domanda di lavoro). Anche se non è facile capire quanta parte delle differenze osservate nelle scelte professionali di uomini e donne sia da attribuire a differenze nelle loro preferenze e quanta parte sia dovuta invece ad una diversa struttura degli incentivi, resta il fatto che le donne compiranno scelte diverse rispetto a quelle degli uomini: scelte libere, razionali, informate e motivate dal proprio tornaconto esattamente come sono quelle degli uomini, ma diverse, perché rispondono ad una diversa struttura dei costi e dei benefici. In altri termini, la differenza biologica, o la presenza di una discriminazione sessuale anche piccolissima sul mercato del lavoro, rendono più conveniente per le donne svolgere l’attività domestica e per gli uomini offrirsi sul mercato; ciascuno dei due coniugi si specializza nell’attività che svolge (domestica per le donne, di mercato per gli uomini); i rendimenti crescenti che derivano dall’investimento in capitale umano specifico rafforzano le differenze di produttività tra donne e uomini rispettivamente nell’attività domestica e di mercato, e, come risultato, i salari delle donne sono mediamente inferiori a quelli degli uomini (c.d. teoria della divisione ottimale del lavoro) [50]. In buona sostanza, ciò che determina la divisione sessuale del lavoro è il vantaggio comparato di cui godono le [continua ..]


5. Il divario pensionistico di genere

In questo scenario, non si può certo sottovalutare che l’esistente divario retributivo di genere reca con sé degli effetti negativi, nel lungo termine, sul piano pensionistico, vuoi perché le donne lavoratrici in media accumulano meno anni di contribuzione, vuoi perché sovente il lavoro che svolgono è precario, vuoi infine perché, come già detto, per esigenze familiari svolgono un lavoro di cura e non sempre a tempo pieno, che sono spesso insufficienti per conseguire il trattamento pensionistico. Al contempo, a parte il lavoro familiare non retribuito che le donne continuano a svolgere in modo sproporzionato, viene in evidenza l’elevata incidenza del part time, spesso non volontario, che incide sul reddito delle donne, andando a pregiudicare l’in­dipendenza economica delle stesse ed aumentare il rischio di povertà e di esclusione sociale [63]. Rischio che, se per certi versi, è stato ridimensionato [64], per altri, viceversa, continua a rilevare anche perché le recenti novità legislative, introdotte dal Governo Conte, sul piano pensionistico, non sembrano tenere conto del genere. Si pensi anzitutto a Quota 100, contenuta nel c.d. decretone [65], che consente il pensionamento anticipato con 62 anni di età anagrafica ed almeno 38 anni, che difficilmente sarà accessibile per le donne, visto che non hanno una carriera contributiva continuativa. Peraltro, l’as­segno erogato sarà calcolato con il contributivo, per gli anni dal 1° gennaio 1996, con la conseguenza che è destinato a subire una decurtazione di circa il 25%. Si pensi anche alla c.d. opzione donna (di cui è stata disposta la proroga al 31 dicembre 2019), riconosciuta alle lavoratrici (escluse quelle iscritte alla gestione se­parata) che al 31 dicembre 2018, risultino in possesso di 58 anni (se lavoratrici dipendenti) o 59 se autonome, con 35 anni di contributi: si tratta insomma di una facoltà attraverso la quale poter ottenere la propria pensione con requisiti anagrafici più favorevoli, ma non senza costi [66]. Sarebbe pertanto opportuno che, insieme al calcolo sulle penalizzazioni legate all’anticipo, si facessero i calcoli relativi alla premialità – dicasi anche contributi figurativi – connesse anche allo svolgimento del lavoro di [continua ..]


6. La job evaluation per l’equità nella gestione retributiva

Evidenziato così il divario pensionistico, diretta conseguenza di quello retributivo, diventa, a questo punto, importante individuare uno strumento in grado di valutare la prestazione di lavoro ai fini retributivi e precisamente valutare la prestazione in concreto, quale risulta dalla considerazione delle specifiche mansioni svolte da un certo soggetto, riguardato nelle caratteristiche tipiche che lo distinguono in un determinato ambiente. È questo, d’altro canto, il sistema della “job evaluation”, che attribuisce un valore a ciascun elemento o “fattore”, che contribuisce a definire la prestazione in concreto. Non è certo un tema nuovo: infatti, già Ubaldo Prosperetti, nel 1960 [71], affermava la possibilità di introdurlo, sia pure entro certi limiti, mediante contratti collettivi [72], avuto riguardo al valore rappresentativo delle associazioni sindacali dei lavoratori, alle quali spetta di interpretare e di tutelare gli interessi dei lavoratori. La job evaluation risponde, del resto, alla duplice esigenza della valutazione analitica del costo del lavoro e del massimo adeguamento alla mobilità professionale del lavoratore, sempre più intensa e favorita dalla rivoluzione tecnologica, che impone di considerare prevalentemente la prestazione in concreto. Un sistema convergente con la normativa di cui all’art. 2103 c.c., essendo, in quest’ultimo, prevista la possibilità del mutamento delle mansioni, che è alla base del sistema della job evalutation, ma diverso da quella perché nel sistema della job evaluation si prevede sempre la corrispondenza al “valore” della “posizione” del lavoratore [73]. Peraltro, questo sistema di valutazione nasce proprio con lo scopo specifico di supportare valori di equità interna attraverso i quali vengono apprezzati gli apporti differenziali dei prestatori di lavoro. Tuttavia, alle finalità che ne hanno spinto l’in­troduzione, si affiancano ora nuove esigenze, tenuto conto dei cambiamenti dell’or­ganizzazione post-taylorista, quali la necessità di avere uno strumento flessibile e integrato in grado di facilitare la gestione delle persone in azienda. D’altro canto, per l’azienda è importante conoscere in maniera strutturata e consapevole la propria struttura sociale e [continua ..]


7. La trasparenza della parità retributiva

Al tempo stesso, affinché una strategia di compensation sia efficace è indispensabile che si fondi, oltre che sul principio dell’equità, anche su quello della trasparenza delle regole applicabili e delle retribuzioni effettivamente corrisposte. In proposito, nonostante la Raccomandazione del 7 marzo 2014 della Commissione eu­ropea sul potenziamento del principio della parità retributiva tra donne e uomini tramite la trasparenza, deve rilevarsi che in un terzo degli Stati membri dell’Unione europea non esistono ancora misure volte a incrementare la trasparenza della parità retributiva. Ben si comprende, allora, perché il 20 novembre 2017 la Commissione Ue abbia adottato un Piano d’Azione per la riduzione del divario retributivo di genere [81]. Il documento, che fa esplicito riferimento al raggiungimento dell’Obiettivo di sviluppo sostenibile sulla parità di genere, si applica al biennio 2017-2019 e identifica otto aree di azione per assicurare la parità di trattamento sul posto di lavoro tra uomini e donne nei Paesi UE. Innanzitutto, secondo la Commissione, la nebbia su disuguaglianze e stereotipi va allontanata attraverso la raccolta e la disseminazione di informazioni circa gli esistenti divari retributivi di genere [82]. Così, il Bundestag tedesco ha approvato il 30 marzo 2017 una normativa che dovrebbe favorire la riduzione dello scarto di remunerazione [83]. In Islanda il governo (nel quale metà dei ministri sono donna) ha deciso di fare un passo in più. La legge prevede che i datori di lavoro dovranno fornire documentazione sufficiente per ottenere la certificazione ufficiale di azienda o istituzione che davvero rispetti la parità retributiva tra gender [84]. In realtà, in Italia esiste una legge che obbliga le società private e pubbliche con oltre 100 dipendenti a comunicare i dati delle remunerazioni aziendali con spaccato di genere (art. 46 del Codice delle pari opportunità, d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198, citato) ma non si ha contezza dei dati forniti. Si tratta, infatti, di una legge che non riesce a realizzare ciò che vorrebbe perché non sanziona e soprattutto perché non riguarda strettamente la parità salariale, ma la trasparenza sui trattamenti del personale maschile e [continua ..]


8. Effetti in tema di onere probatorio

D’altro canto, la trasparenza retributiva appare centrale ai fini dell’effettiva attuazione e azionabilità in giudizio del diritto alla parità. Da un lato, perché consente al sindacato di monitorare il problema della parità di trattamento, dall’altro, perché consente alla lavoratrice di fornire elementi di prova per fondare la propria domanda, specie laddove la discriminazione appare più rilevante ovvero nei casi di segregazione orizzontale e nell’attribuzione dei superminimi e dei premi [92]. Relativamente a quest’ultimo aspetto, come noto, il nostro legislatore ha avvertito l’esigenza di rafforzare sul piano individuale la tutela della donna lavoratrice; con la coscienza, per un verso, che un sistema come il nostro, centrato sulla contrattazione collettiva come fonte primaria della regolazione del mercato del lavoro, non potesse assorbire riforme in chiave di parità che non provenissero da modelli di autopromozione; per l’altro, che il problema primario di ogni soggetto discriminato che intende ricercare sul piano giudiziario il momento della sua tutela resta comunque quello della prova della discriminazione e che quindi soltanto un intervento su questo e per questo può alzare la soglia di effettività della tutela stessa, avviando il circuito virtuoso del superamento delle differenze [93]. L’onere della prova della discriminazione grava sul lavoratore interessato, ma si tratta di una prova assai difficile, il che spiega l’introduzione di alcune agevolazioni. Per le discriminazioni in ragione del sesso è prevista, pertanto, la parziale inversione dell’onere della prova, che si pone in linea con i principi più volte affermati in sede internazionale e comunitaria [94] e già recepiti in altri ordinamenti europei (quello francese, limitatamente alla materia retributiva, e quello tedesco) [95]. In particolare, l’art. 40, d.lgs. n. 198/2006, che riproduce la regola introdotta dalla legge n. 125/1991, art. 4, comma 6, nel testo modificato dal d.lgs. n. 196/2000, art. 8, prevede che, qualora il ricorrente fornisca elementi presuntivi della discrimina­zione, spetta al convenuto l’onere della prova sulla insussistenza della discriminazione [96], dando così ingresso a un’inversione condizionata. Se questi elementi dovessero integrare gli [continua ..]


9. Vantaggi economici dell’uguaglianza di genere

La notazione che precede apre lo spazio ad una riflessione finale sui danni sociali ed economici causati dalla segregazione occupazionale. La segregazione occupazionale è innanzitutto dannosa per l’economia, perché riduce l’efficien­za del sistema e le sue prospettive di sviluppo. Quest’ultima affermazione è avvalorata da almeno tre considerazioni. In primo luogo, è evidente che l’esclusione della maggior parte delle persone (le donne) dalla maggior parte delle occupazioni è uno spreco di talento e di risorse umane. Gli stereotipi che inducono le donne a concentrarsi in pochi settori sovraffollati [102], e che sottovalutano le attività svolte in prevalenza da donne, sottoutilizzano la forza lavoro femminile rispetto alle sue potenzialità. In secondo luogo, la segregazione è causa di rigidità del mercato del lavoro, per­ché ne limita la capacità di adattamento ai cambiamenti tecnologici. Infine, la segre­gazione verticale impedisce agli individui di maggior talento di raggiungere le posizioni apicali delle strutture gerarchiche, con beneficio di tutta la società [103]. In buona sostanza, la società sopporta un costo, come conseguenza del sottoutilizzo della componente femminile nelle posizioni apicali della gerarchia: il costo do­vuto al mancato utilizzo di metà della potenziale intelligenza di cui la società dispone, che non produce i suoi benefici effetti decisionali [104]. D’altro canto, come si è già visto, gli stereotipi di genere sono dannosi per le donne perché hanno effetti negativi sulle loro aspettative e su quelle dei datori di lavoro, distorcono l’investimento in capitale umano e le scelte di carriera e producono effetti di retroazione che perpetuano gli stereotipi nel tempo [105]. Le politiche di desegregazione sono dunque necessarie perché cercano di realizzare un interesse generale della società. In particolare, tassi retributivi più elevati incoraggerebbero inizialmente un maggior numero di donne a entrare nel mercato del lavoro, favorendo un aumento della produttività e dei tassi di occupazione. Un aumento delle retribuzioni delle donne contribuisce, infatti, alla riduzione del divario del tasso di attività e, di conseguenza, quando quest’ultimo diminuisce, gli [continua ..]


10. Conclusioni: il paradigma dell’investimento sociale come svol­ta per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva

In realtà, perché ciò sia possibile è necessario un cambiamento di prospettiva, riguardante gli interventi di welfare da attuare. In particolare, perché si realizzi una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva, occorre far leva sul paradigma del­l’investimento sociale: piuttosto che intervenire in un’ottica di compensazione in caso di bisogno, le politiche sociali devono esercitare un’azione preventiva mirando primariamente alla valorizzazione del capitale umano e alla partecipazione al mercato del lavoro [110]. Ciò che richiede il sostegno a interventi di policy mirati all’uguaglianza di opportunità e alla promozione di politiche attive e di conciliazione tra tempo di vita e tempo di lavoro. Da questo punto di vista, infatti, le politiche sociali non rappresentano un costo, ma piuttosto un investimento nello sviluppo e valorizzazione del capitale umano e, quin­di, una precondizione per la crescita economica [111]. Tale approccio assume dunque che l’aumento della partecipazione al mercato del lavoro e della produttività dei lavoratori conduca a benefici sul piano individuale e collettivo: un aumento dell’occupazione e dei redditi connessi dovrebbe accrescere la competitività dell’economia e, grazie alle crescenti entrate fiscali, aumentare anche le risorse a disposizione del Welfare State per azioni di promozione e per la protezione dei grup­pi più svantaggiati. In buona sostanza, le politiche di investimento sociale rispondono a tre funzioni complementari: flow, stock e buffer [112] laddove sono mirate in primo luogo a facilitare il flusso, o flow, delle transizioni del ciclo di vita e nel mercato del lavoro contemporaneo: il riferimento è in proposito ad interventi per la riconciliazione tra vita e lavoro e la promozione dell’occupazione femminile attraverso la defamilizzazione dei compiti di cura, congedi in caso di nascita dei figli o per la cura di membri familiari non autosufficienti. Al tempo stesso, le politiche di investimento sociale mirano a mantenere o potenziare il capitale umano (lo stock) garantendo la futura produttività degli individui, potenziando o mantenendo il capitale umano. Infine, le stesse svolgono una funzione di buffer, mitigando le disuguaglianze [continua ..]


NOTE
Fascicolo 3 - 2019