Massimario di Giurisprudenza del LavoroISSN 0025-4959
G. Giappichelli Editore

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Politiche di remunerazione e severance payment nel settore bancario... (di Giuseppe Sigillò Massara, Professore associato di Diritto del lavoro – Università Link Campus University)


Il presente saggio analizza la disciplina limitativa ai compensi dei dirigenti ed amministratori del settore bancario, prendendo in considerazione le interazioni con il diritto sindacale e la coerenza con l’attuale quadro costituzionale.

Remuneration and severance payment policies in the banking sector...

This essay analyzes the regulations limiting the remuneration of managers and administrators of the banking sector, taking into consideration the interactions with trade union law and the consistency with the current constitutional framework.

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SOMMARIO:

1. Una premessa metodologica - 2. La risoluzione del rapporto di lavoro dirigenziale ed estinzione del rapporto di amministrazione: il ruolo dell’autonomia collettiva e di quella individuale - 2.1. Segue: ingiustificatezza del licenziamento ed indennità supplementare - 2.2. Segue: il ruolo dell’autonomia individuale - 2.3. L’estinzione del rapporto di amministrazione - 2.4. Segue: estinzione del rapporto di amministrazione ed autonomia individuale - 3. I limiti contenuti nelle discipline di settore - 3.1. La disciplina relativa alle società quotate - 3.2. La disciplina nel settore bancario - 4. Disciplina del settore bancario e coerenza con i principi costituzionali - NOTE


1. Una premessa metodologica

La trattazione oggetto del presente contributo deve ovviamente prendere le mosse una premessa “ideologica” in ordine alla ratio dei limiti ai compensi ai manager, introdotti prima nel settore pubblico, poi anche di quello privato. Se la scelta di introdurre tali limiti, con riferimento primo dei settori indicati, risponde all’esigenza di rimodulare la spesa pubblica per rispondere ai vincoli di deficit spending che provengono dalle sedi comunitarie (nonché dalla pressione esercitata dal mercato), l’introduzione dei vincoli alle società private (più spesso nella forma di atti di indirizzo) testimonia come sul tema si innesti, forse in modo addirittura preminente, una istanza di “moralizzazione” della spesa per il personale dirigente e per gli amministratori, di “riequilibrio” di quelli che son percepiti agli occhi della pubblica opinione come “privilegi intollerabili” nel momento in cui tutti sono chiamati a sacrifici in nome del perseguimento del pareggio di bilancio. Non solo. Specie nel settore finanziario, la questione delle remunerazioni degli executive manager, del loro livello e delle modalità di liquidazione e corresponsione è annoverata tra i fattori che hanno contribuito a causare o, quanto meno, ad aggravare la crisi finanziaria scoppiata nel 2008; ed ancora prima, gli scandali che hanno coinvolto importanti società statunitensi ed europee avevano attirato l’attenzione dei media e dell’opinione pubblica su un tema che è da sempre oggetto di analisi della teoria economica e giuridica [1]. Già le finalità degli interventi operati, dunque, appaiono estremamente eterogenee. Vi si aggiunga, poi, un atteggiamento ondivago (per non dire schizofrenico) del regolatore, che, sul tema, è intervenuto, in particolare nel settore pubblico, con nor­me “omnia”, con le quali cioè si proponeva di rispondere e disciplinare una serie di fenomeni alquanto eterogenei e vari tra loro; salvo però, nel giro di pochi mesi, depotenziare quelle discipline appena poste, ora rinviando l’applicazione concreta dei limiti introdotti a nuove regolamentazioni di dettaglio (mai emanate), ora interpretando in senso restrittivo l’ambito soggettivo di applicazione dei tetti ai compensi per mezzo di norme di interpretazione autentica. Ne è [continua ..]


2. La risoluzione del rapporto di lavoro dirigenziale ed estinzione del rapporto di amministrazione: il ruolo dell’autonomia collettiva e di quella individuale

L’analisi della disciplina oggetto del presente contributo (e dei relativi controlimiti costituzionali), presuppone una sintetica analisi inerente il tema specifico della risoluzione dei rapporti di lavoro dirigenziale e di amministrazione, nonché delle relative pattuizioni collettive e individuali (specie per il rapporto di amministrazione, privo, ovviamente, di alcuna copertura contrattual collettiva). In particolare, sebbene alla risoluzione del rapporto di lavoro del dirigente a latere datoris non trovino applicazione le norme limitative dei licenziamenti [2] – fatta eccezione per l’obbligo di comunicazione in forma scritta del licenziamento e per il diritto a ricevere, in qualunque caso di risoluzione del rapporto, il trattamento di fine rapporto (secondo il combinato disposto degli artt. 2, 9 e 10, legge n. 604/1966) – ma “solo” gli artt. 2118 e 2119 c.c. [3]; da tempo, l’autonomia collettiva ha elaborato una poderosa disciplina pattizia che subordina la legittimità del recesso alla “giustificatezza” dello stesso, ed alla possibilità di ricorso ad un collegio di conciliazione ed arbitrato (oltreché al giudice), cui spetta il compito di verificare la non arbitrarietà delle ragioni addotte e, nel caso, condannare il datore di lavoro alla corresponsione di una indennità supplementare (una sorta di penale) a ristoro dell’illegittimità del licenziamento [4]. Resta, invece, esclusa ogni possibilità di ricostituzione del pregresso rapporto di lavoro, fatta eccezione per i licenziamenti intimati per ragioni discriminatorie o per motivo illecito che, in quanto tali, sono sanzionati con la tutela reintegratoria di cui al (nuovo) art. 18, commi 1-3, legge n. 300/1970 [5].


2.1. Segue: ingiustificatezza del licenziamento ed indennità supplementare

L’assenza di giustificatezza [6] del licenziamento del dirigente, dunque, determina l’attivazione della tutela convenzionale collettiva di natura obbligatoria, sempreché, beninteso, il collegio arbitrale appositamente costituito, ovvero il giudice [7], verifichino (e graduino) l’insussistenza o la pretestuosità delle motivazioni poste a base del recesso. Alla contrattazione collettiva sono rimesse tanto le regole “processuali” dell’ar­bitrato (termini di decadenza, eventuale tentativo di conciliazione, ecc.), quanto la determinazione dei parametri per la quantificazione della (cospicua) indennità supplementare, che si aggiunge (nel caso) all’indennità di mancato preavviso. Solitamente, il contratto collettivo identifica una misura minima (pari all’indennità sostitutiva del preavviso) ed una massima (intorno alle 20 mensilità), entrambe espresse in numero di mensilità di retribuzione. La maggior parte dei contratti, poi, aumentano l’importo dell’indennità in considerazione dell’età del dirigente, sul presupposto che un lavoratore anziano, ma ancora troppo giovane per il pensionamento, possa trovare più difficoltà a rinvenire una nuova occupazione. L’importo dell’indennità così determinata, si aggiunge all’indennità sostitutiva del preavviso non lavorato, al trattamento di fine rapporto ed alle altre spettanze di fine rapporto. Prevale, in giurisprudenza come in dottrina, la convinzione che l’indennità in pa­rola abbia natura di penale per modo che il pagamento della stessa lascia fermo l’effetto estintivo del licenziamento pur ingiustificato, senza che sia riconoscibile alcuna funzione di ristoro o di compensazione delle retribuzioni perdute [8]. Da tale qualificazione, peraltro, deriva – differentemente che per gli altri lavoratori – la possibilità per il datore di lavoro di addurre fatti idonei a dimostrare che il danno subito dal dirigente sia inferiore a quanto stabilito dal collegio, non essendo ammessa la detraibilità dell’aliunde perceptum o percipiendum. Tale natura di penale si riflette anche sul trattamento fiscale e previdenziale del­l’indennità supplementare. Secondo parte della giurisprudenza, infatti, la [continua ..]


2.2. Segue: il ruolo dell’autonomia individuale

Al pari delle pattuizioni collettive, sulle risoluzioni dei rapporti di lavoro dirigenziali incidono anche le disposizioni del contratto individuale di lavoro. Differentemente che per i lavoratori appartenenti alle altre categorie, per i dirigenti, infatti, l’autonomia individuale assume un ruolo determinante nel disciplinare il singolo rapporto di lavoro, restando la disciplina contrattual collettiva solo “sullo sfondo”. E ciò vale anche in riferimento alla risoluzione del rapporto di lavoro, dove le disposizioni del contratto individuale di lavoro (migliorative rispetto quelle previste dal­l’autonomia collettiva) assumono il duplice scopo di attuare una retention del personale dirigenziale che ricopre posizioni strategiche, ovvero le cui competenze e qualificazioni professionali sono ritenute strategiche per l’azienda; e/o di tutelare di tutelare l’organizzazione produttiva successivamente alla cessazione del rapporto di lavoro. Senza pretesa di esaustività, uno specifico interesse ai fini del presente contributo è assunto dai c.d. patti di stabilità, vale a dire clausole che fanno si che le parti del contratto si impegnino reciprocamente a non recedere dal contratto di lavoro prima del decorso di un certo termine convenzionalmente pattuito [14]. Ferma restando la possibilità per le parti di risolvere consensualmente ovvero per giusta causa il rapporto, qualunque ipotesi di risoluzione precedente allo spirare del termine di durata minima apposto al contratto si configura come illecito contrattuale; di talché, la parte inadempiente sarà tenuta a rifondere il danno creato con il suo comportamento antigiuridico. In assenza di differenti pattuizioni, tale danno è individuabile in relazione alle retribuzioni che sarebbero spettate se il rapporto fosse proseguito sino alla scadenza della clausola; tuttavia, nella pratica, si verifica sovente che le parti, nella loro autonomia, pattuiscano liberamente una identificazione a priori del danno, includendo una clausola penale il cui importo è già determinato in caso di recesso anticipato. Laddove previste a favore del solo dirigente, tali clausole determinano, in sostanza, l’effetto di predisporre una sorta di «paracadute» in caso di recesso anticipato. Come si dirà in seguito, tuttavia, siffatte previsioni sono, presumibilmente, [continua ..]


2.3. L’estinzione del rapporto di amministrazione

La regolamentazione dell’estinzione del rapporto di amministrazione è rimessa alle disposizioni di legge, a quelle previste nell’atto costitutivo dell’ente e agli accordi individuali. Quanto alle prime, la disciplina civilistica consente che la nomina degli amministratori possa essere fatta per un periodo non superiore a tre anni [18], decorsi i quali il “mandato” del soggetto cesserà automaticamente salvo, ovviamente, il caso in cui sia nuovamente nominato amministratore della società [19]. Al di fuori della normale estinzione del rapporto di gestione, comunque, esistono delle cause che impediscono la nomina dell’amministratore (incompatibilità o ineleggibilità) o che, comunque, comportano una cessazione anticipata della sua attività (decadenza o revoca). Secondo l’art. 2382 c.c., infatti, «non può essere nominato amministratore, e se nominato decade dal suo ufficio, l’interdetto, l’inabilita­to [20], il fallito [21], o chi è stato condannato ad una pena che importa l’interdizione, anche temporanea, dai pubblici uffici direttivi». A riguardo, occorre ricordare che la decadenza opera automaticamente e con effetto immediato: da tale momento, e anche quando manchi la pubblicità della cessazione della carica, nessuna omissione o inadempimento può imputarsi all’amministratore cessato [22]. Quanto alle cause di incompatibilità, in questa sede è il caso di precisare che essa, a differenza delle cause di ineleggibilità, non rendono nulla la nomina ad amministratore, ma pongono l’interessato nella necessità di scegliere tra l’una e l’altra delle cariche incompatibili [23], con la conseguente proponibilità o meno del problema del cumulo. Alle disposizioni legali che individuano le ipotesi di decadenza o di risoluzione del rapporto, poi, si aggiungono le previsioni che possono essere contenute nell’atto costitutivo. Tra queste, la più frequente è la c.d. clausola simul stabunt, simul cadent. Tale clausola crea un collegamento tra i vari membri del consiglio di amministrazione, in modo che se uno (o più) di essi decada, o dia le dimissioni o, comunque, interrompa l’attività – sicché il consiglio non risulti più composto così come era all’atto della [continua ..]


2.4. Segue: estinzione del rapporto di amministrazione ed autonomia individuale

Anche per il rapporto di amministrazione si pone la possibilità per le parti di pattuire clausole ulteriori volte a regolare il momento della risoluzione del rapporto di lavoro. Peraltro, in tale ipotesi, il tema risulta più agevole, non incontrando l’autono­mia individuale i limiti di inderogabilità in peius della contrattazione collettiva (evi­dentemente assente per i rapporti di amministrazione), né quelli legali dettati per i rapporti di lavoro subordinato. Così, ad esempio, non è infrequente che il contratto individuale possa predeterminare una penale in caso di recesso anticipato dal rapporto di amministrazione che quantifichi a priori il risarcimento dovuto per il recesso senza giusta causa. Parimenti, possono esistere pattuizioni che vanno a remunerare un impegno di riservatezza dell’ex amministratore per il periodo successivo alla risoluzione del rapporto, ovvero che inibisca allo stesso il rimpiego presso società concorrenti. Ed ancora, anche al di là di queste previsioni, di sovente nelle delibere che conferiscono incarichi di amministrazione (specie con deleghe) sono identificati anche dei “premi” riconosciuti alla cessazione del rapporto correlati ai compensi percepiti in misura fissa oppure sulla base di appositi parametri (come gli utili conseguiti, gli obiettivi raggiunti e così via), ma sempre seguendo criteri oggettivi e di congruità., che prendono la denominazione di trattamenti di fine mandato. Si tratta, in definitiva, di compensi differita da corrispondersi al termine del man­dato professionale, latamente assimilabili al TFR riservato ai dipendenti, da cui, tuttavia, differisce nella disciplina rimessa ex art. 2389 c.c. alle determinazioni assunte in sede statutaria o in sede assembleare. L’entità di tali compensi [32] – nonché in alcuni casi l’utilizzo distorto dello strumento – ha spinto il legislatore a regolamentare in senso restrittivo l’istituto prevedendo un regime fiscale sfavorevole per i trattamenti di fine mandato di importo superiore al milione di euro [33]. Analoghe finalità “restrittive”, poi, devono essere riconosciute anche alle disposizioni che regolamentano i limiti ai compensi nel settore bancario, nonché in quello delle società a prevalente o totale [continua ..]


3. I limiti contenuti nelle discipline di settore

Quanto detto sinora riguarda il quadro “generale” della disciplina in tema di compensi e trattamenti di fine rapporto/mandato dei dirigenti e degli amministratori di società private. Si è anticipato, però, che la disciplina ora descritta deve essere integrata, con riferimento al settore privato e, in particolare, a quello bancario, da una articolata di norme e previsioni settoriali finalizzate a limitare o regolare i compensi riconosciuti all’executive management.


3.1. La disciplina relativa alle società quotate

Preliminarmente all’analisi della disciplina relativa al settore bancario, pare opportuno offrire una sintetica analisi dei “vincoli” alla executive compensation nel settore privato, seppur limitatamente alle società quotate [34]. In tale ambito, allo scopo di accrescere il coinvolgimento degli azionisti nella definizione delle politiche di remunerazione e di rendere il più trasparenti possibili i contenuti delle anzidette politiche e della loro attuazione, su impulso comunitario (comunque espresso con atti di “softlaw”) [35], sono stati adottati tanto codici di autodisciplina, che disposizioni legislative vincolanti. In particolare, sul piano dell’autoregolamentazione, il Comitato per la Corporate Governance presso Borsa Italiana S.p.A. [36] ha modificato il Codice di Autodisciplina recependo le indicazioni europee in merito al processo di definizione delle politiche di remunerazione degli amministratori ed al loro contenuto (già art. 7; poi, art. 6 nell’edizione del 2011 e del 2014 del Codice). Sinteticamente, il Codice prescrive l’introduzione di una netta distinzione tra le remunerazioni degli amministratori esecutivi (e dei dirigenti con responsabilità strategiche) e quelle degli amministratori non esecutivi [37]; l’individuazione di condizioni per la corresponsione di retribuzioni formate da partecipazioni agli utili nei confronti degli amministratori (c.d. stock option) [38]; il contenimento dei golden parachutes, che devono essere negati in caso di performannce negative e comunque predeterminati nella loro misura massima; la definizione e la valorizzazione delle funzioni svolte dal Comitato per la remunerazione; nonché, dopo le modifiche adottate nel luglio 2014, la previsione di intese contrattuali che consentono alle società di chiedere la restituzione, in tutto o in parte, di componenti variabili della remunerazione versate (o di trattenere somme oggetto di differimento), determinate sulla base di dati che si siano rivelati in seguito manifestamente errati (clausole di clawback). Il Codice, inoltre, attribuisce al Comitato per la remunerazione – la cui istituzione era raccomandata sin dal Codice di Autodisciplina del 1999 – tanto funzioni consultive che propositive [39]. Affinché l’azione del Comitato sia il più possibile corretta [continua ..]


3.2. La disciplina nel settore bancario

Seppur non sia presente una diretta regolamentazione di fonte legale, il settore bancario ha conosciuto una serie di interventi più o meno vincolanti finalizzati a porre dei limiti soprattutto alle somme liquidate ai manager – amministratori e dirigenti con responsabilità strategiche – in occasione della cessazione della collaborazione con le aziende gestite. Si è trattato, originariamente, di raccomandazioni, pareri, indicazioni, emanati – sotto l’impulso dei summit G20 di Londra e Pittsburgh del 2009 – nella convinzione che il livello e le modalità con cui sono computate e corrisposte le retribuzioni dei manager e degli operatori del sistema finanziario sono da annoverarsi tra i fattori che hanno contribuito a causare o, quanto meno, ad aggravare la crisi finanziaria scoppiata nel 2008 [42]. A questi, in epoche più recenti, si è aggiunta la direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 2010/76/CE e 2013/36/UE (rispettivamente, “Cdr3” e “Cdr4”), recepita dalle disposizioni in materia di politiche e prassi di remunerazione e incentivazione nelle banche e nei gruppi bancari adottate dalla Banca d’Italia, interiorizzate nella circ. 17 dicembre 2013, n. 285 [43]. Tutti gli interventi di cui si è accennato – e soprattutto le disposizioni da ultimo adottate dalla autorità di vigilanza – hanno un contenuto comune, sostanzialmente, incentrato sulla definizione di limiti e regole per la componente variabile della retribuzione, nonché sulla definizione di regole per i “trattamenti di fine rapporto di lavoro” (c.d. golden parachutes, differenti dal TFR), dovuti in caso di recesso anticipato. Sotto il profilo normativo, le disposizioni in commento sono state espressamene adottate dalla Banca d’Italia sulla base degli artt. 53 e 67 del Testo Unico Bancario (TUB) e del d.m. 27 dicembre 2006, n. 933, dando attuazione, da ultimo, alla direttiva 2013/36/UE del 26 giugno 2013 (di seguito, CRD IV) relativamente alle previsioni in essa contenute in materia di politiche e prassi di remunerazione e incentivazione nelle banche e nei gruppi bancari [44] e tengono conto degli indirizzi e dei criteri concordati in sede internazionale, tra cui quelli dell’EBA e dell’FSB [45]. Si ricorda, infatti che la disciplina dell’Unione [continua ..]


4. Disciplina del settore bancario e coerenza con i principi costituzionali

Nella parte conclusiva del titolo della circolare relativa alle politiche della remunerazione l’aggiornamento adottato a seguito dell’entrata in vigore della direttiva Cdr4 stabilisce che le banche dovranno sottoporre le loro politiche di remunerazione e incentivazione, conformi alle novità recentemente introdotte, al vaglio dell’as­semblea dei soci convocata per l’approvazione del bilancio 2018. In particolare, viene testualmente stabilito che «le banche, nei limiti consentiti dai contratti collettivi: – applicano le disposizioni del presente Capitolo ai contratti individuali che sono stipulati a partire dal 1° aprile 2019; – adeguano i contratti individuali in corso alle disposizioni del presente Capitolo tempestivamente e, comunque, entro il 1° aprile 2019 per i componenti degli organi di supervisione strategica, gestione e controllo ed entro il 30 giugno 2019 per il restante personale». Infine la circolare conclude in modo in modo alquanto apodittico che «i contratti collettivi sono allineati al presente Capitolo alla prima occasione utile». Orbene, l’interprete che si pone in un’ottica giuslavoristica non può non interrogarsi sulla portata di tali previsioni, soprattutto per l’ipotesi in cui i contratti collettivi o quelli individuali prevedano delle disposizioni non compatibili con la regolamentazione emessa dalla Banca d’Italia. In realtà, la soluzione sembrerebbe offerta direttamente dal combinato disposto degli artt. art. 53, comma 1, lett. d) e art. 53, comma 4 sexies, del Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia (TUB) emanato con il d.lgs 1º settembre 1993, n. 385. La prima di tali previsioni attribuisce alla Banca d’Italia, in conformità delle deliberazioni del CICR, il compito di emanare disposizioni di carattere generale aventi ad oggetto il governo societario, l’organizzazione amministrativa e contabile, nonché i controlli interni e i sistemi di remunerazione e incentivazione; la seconda prevede che sia nullo qualunque patto o clausola non conforme alle disposizioni in materia di sistemi di remunerazione e di incentivazione emanate ai sensi del comma 1, lett. d), dell’art. 53, o contenute in atti dell’Unione europea direttamente applicabili, fermo restando che la nullità della clausola non comporta la nullità del [continua ..]


NOTE