La rivoluzione digitale investe in modo sempre più pervasivo il mondo del lavoro e la figura del lavoratore. Nel presente saggio, partendo dal tema della digitalizzazione delle prestazioni lavorative, sempre più spesso svolte per mezzo delle piattaforme informatiche, si esaminano le principali criticità relative alla qualificazione ed alla disciplina dei rapporti lavoro, nonché le difficoltà dell’attuale corpus normativo nell’adattarsi a fattispecie del tutto innovative.
The digital revolution invests the world of work and the figure of the worker in an increasingly pervasive way. In this essay, starting from the theme of the digitalization of work performances, increasingly carried out by means of computer platforms, the main critical issues related to the qualification and regulation of labor relations are examined, as well as the difficulties of the current statutory law in adapting to completely innovative cases.
Keywords: Labour law – gig economy – digital platforms – workers’protection.
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1. Premessa - 2. Digitalizzazione e diritto del lavoro - 3. Piattaforme digitali e rapporto di lavoro - 3.1. I nuovi profili professionali - 3.2. La sottoprotezione socio-economica - 4. La rappresentanza sindacale - 5. Considerazioni conclusive - NOTE
La rivoluzione digitale (e, più in generale, quella tecnologica) in corso sta pervadendo, su scala mondiale, i più disparati ambiti della quotidianità, rendendo imprescindibile un approccio multidisciplinare ad un fenomeno che investe le scienze economiche, giuridiche, ingegneristiche e sociologiche [1]. Si tratta, peraltro, di una realtà che è già “presente” e che sta cambiando «il nostro agire quotidiano, l’informazione, la politica, ecc., e che cambierà sempre di più la vita economica e sociale, trasformando anche le attività lavorative, con sviluppi imprevedibili e con l’esigenza di affrontare e risolvere problemi nuovi» [2]. Non vi è dubbio, infatti, che la digitalizzazione sta favorendo il superamento dei tradizionali modelli produttivi ed organizzativi o, in ogni caso, l’emergere di nuovi modelli, che sono ormai stabilmente al centro degli studi economico-aziendali e giuridici, nonché dell’agenda delle istituzioni dei paesi c.d. industrializzati [3]. Il fenomeno è di enorme dimensione e complessità – come pure testimoniato dalla ampia e variegata terminologia in uso – tanto da rendere impossibile (almeno in questa sede) una compiuta disamina delle molteplici facce del poliedro della digitalizzazione globale dei processi produttivi. Com’è noto, con il termine “industria 4.0” si intende quel paradigma economico in cui la tecnologia rappresenta lo strumento attraverso il quale ripensare l’intero sistema industriale [4]; un sistema caratterizzato da modelli innovativi di business, originati dall’applicazione all’economia industriale delle tecnologie digitali, della robotica, dell’intelligenza artificiale, dei Big Data e dell’IoT [5]; un sistema nel quale il progressivo inserimento all’interno delle dinamiche aziendali delle Information & Communication Technologies rende inevitabile il continuo ripensamento delle strutture organizzative e dei processi aziendali, di pari passo con l’evoluzione digitale e tecnologica in atto [6]. In tale processo la rete internet consente di ottimizzare l’integrazione ed il coordinamento, di utenti e di fattori, tanto all’interno quanto all’esterno delle aziende, alterando le tradizionali [continua ..]
L’evoluzione digitale della società, da un lato, e del mondo del lavoro e dell’economia, dall’altro, ha significative ricadute tanto sui modelli occupazionali quanto sulle condizioni professionali, in particolare con riferimento all’ambito delle tutele. L’assenza di un sistema di protezione ad hoc, idoneo a tutelare i c.d. lavoratori 4.0, dipende principalmente dall’impossibilità di inglobare i vari operatori delle digital platforms in un’unica categoria contrattuale [13], stante l’assenza di univoci fattori identificativi: l’unico elemento che li accomuna è la libertà (invero, non sempre piena) di decidere se e quando svolgere la prestazione lavorativa. Anche tale elemento, però, talvolta viene meno; l’autonomia dei gig workers è infatti spesso compressa in ragione dell’implicita accettazione delle regole che vigono nella digital platform, cui gli operatori sono obbligati ad attenersi con riguardo sia agli aspetti economici, che alle modalità di esecuzione della prestazione [14]. Quello della qualificazione (autonoma o subordinata) del rapporto dei lavoratori delle digital platforms è uno degli ambiti di indagine di maggiore interesse e l’analisi sul punto è resa ancor più complessa dalla difficoltà di individuare la ricorrenza dell’esercizio dei poteri datoriali per il tramite e nell’ambito della stessa piattaforma. Emblematiche sono le contrastanti pronunce, nazionali e straniere, relative ai riders di Foodora o ai drivers di Uber, con riferimento ai quali ultimi il giudice inglese [15] ha sostenuto che la piattaforma dovesse essere qualificata alla stregua di un’azienda privata di trasporto e non quale mero algoritmo, riconducendo i drivers alla categoria dei workers, con riconoscimento dei relativi diritti sia economici che di orario di lavoro (certamente più limitati rispetto a quelli degli employees) [16]. Nell’acceso dibattito sul punto è da segnalare anche l’intervento del Parlamento Europeo che, con la risoluzione del 19 gennaio 2017, analizzando il tema del rapporto tra scambio di servizi e retribuzione, ha anch’esso condiviso la ricorrenza di rilevanti profili di criticità (tra i quali, oltre [continua ..]
Prima di esaminare l’impatto che la rivoluzione 4.0 sta generando sui rapporti di lavoro strictu sensu, appare opportuno svolgere una preliminare considerazione in ordine alle piattaforme digitali. Come rilevato, quello delle piattaforme digitali è un fenomeno tutt’altro che unitario: si pensi alla pluralità di servizi realizzabili mediante le stesse, alle differenti modalità di svolgimento della prestazione di lavoro o alla varietà delle figure professionali coinvolte (attesa la eterogeneità dei rapporti realizzabili) [21]. Nella maggior parte dei casi la piattaforma viene utilizzata al solo fine di favorire l’incontro tra la domanda e l’offerta della prestazione lavorativa, la cui esecuzione materiale, invece, avviene interamente nell’economia reale. In tali casi, in cui l’impiego di densità tecnologica è fortemente ridotto, le digital platforms non creano modalità alternative di svolgimento dell’attività di lavoro [22]. Nel modello Uber (per citare un caso noto), invece, la piattaforma digitale non costituisce soltanto un mero luogo di incontro tra provider ed user ma – monitorando il corretto svolgimento delle prestazioni, imponendo le tariffe applicabili, indicando il percorso da seguire – alla piattaforma potrebbe essere imputabile l’esercizio del potere sia direttivo che di controllo, con i relativi effetti (anche sulla continuità delle future prestazioni). Il discorso si complica ulteriormente quando dal modello del work on demand si passa a quello del crowdsourcing, intendendosi con tale termine l’esternalizzazione delle attività produttive, mediante piattaforma digitale, ad una pluralità indistinta di individui (crowd). Quello del crowdsourcing rappresenta, in un certo senso, l’emblema del frazionamento della produzione, in cui il rischio di impresa è pressoché annullato mediante l’estremizzazione del decentramento produttivo, con l’esclusione di contratti di durata in favore del modello dello spot-contract (nel quale la finalità di consumo prevale sulla continuità della relazione giuridica). Dunque, nel rapporto tra provider ed user, la digital platform può fungere sia da mero intermediario tra domanda ed [continua ..]
Il processo di digitalizzazione delle relazioni lavorative influenza notevolmente anche le modalità di esercizio delle mansioni e lo sviluppo delle competenze professionali dei lavoratori; a questi ultimi è sempre più frequentemente affidato lo svolgimento di compiti nuovi, per l’assolvimento dei quali è necessario il possesso di specifiche competenze digitali (sconosciute ai tradizionali profili professionali) [37]. I nuovi modelli produttivi sono finalizzati, per un verso, ad una migliore organizzazione; per altro verso, ad una maggiore redditività (e marginalità) [38]; in questo contesto, la tecnologia rappresenta un fattore strategico ed imprescindibile, che impatta con modalità differenti sui profili professionali: da un lato, si assiste all’applicazione delle innovazioni tecnologiche ai lavori tipici; dall’altro, l’interazione con tecnologie sempre più avanzate genera la nascita di professionalità che si pongono al di fuori delle fattispecie tradizionali. Il progressivo sviluppo del lavoro digitale comporta, quindi, l’emersione di nuove figure professionali, per le quali è necessaria l’acquisizione di competenze trasversali, con skill costantemente mutevoli a seconda dei contesti lavorativi nei quali vanno impiegati. Data l’eterogeneità del fenomeno, una catalogazione dei profili professionali risulta pressoché impossibile (se non in termini generici) e le difficoltà di tale operazione sono date principalmente dal fatto che non sempre il possesso di specifiche competenze permette di delineare una figura che corrisponde ad un preciso profilo professionale (a cui ricollegare mansioni determinate). Solo per citare un esempio, si pensi, da un lato, al settore della “post produzione multimediale”, ossia l’ultima fase di intervento per la realizzazione di un oggetto digitale prima della sua distribuzione; i lavoratori addetti a tale funzione (noti anche come “operai 2.0” [39]) svolgono principalmente delle attività in cui le competenze tecniche e professionali si risolvono in operazioni meccaniche e ripetitive (mero controllo delle linee di scrittura di un software), in cui il lavoratore limita la propria attività alla realizzazione di un prodotto digitale, divenendo mero esecutore di [continua ..]
La condizione di debolezza economica del lavoratore aumenta il rischio di precarizzazione [49], con l’ulteriore criticità che il fenomeno in esame non è circoscrivibile all’interno di confini geografici nazionali (né ben determinati) [50]. Inoltre, la crisi del welfare state ha comportato, nella maggior parte degli ordinamenti giuridici europei, quale diretta conseguenza, il problema dell’affievolimento dei meccanismi di tutela e di protezione sociale per i lavoratori precari e discontinui. Per i gig workers la mancanza di protezione anche dai rischi più comuni è ancora più accentuata rispetto agli altri lavoratori precari, in ragione dell’eccessiva parcellizzazione e destrutturazione dell’attività lavorativa che sono chiamati a svolgere. Data l’eterogeneità dei rapporti di lavoro che nascono e si sviluppano nelle piattaforme digitali, al problema delle tutele sociali non sembra esservi una soluzione unitaria. Invero, si potrebbe tentare di strutturare un sistema di protezione valido per tutti i lavoratori in condizioni di vulnerabilità economica e sociale, prescindendo dall’utilizzo o meno di algoritmi digitali [51]. Del resto, avendo la tematica rilevanza sovranazionale, con la risoluzione del 19 gennaio 2017, l’Unione europea ha ribadito la necessità di stabilire degli standard minimi di tutela per tutti i lavoratori, inclusi coloro che operano sulle piattaforme digitali, in ragione del timore che la robotica e l’intelligenza artificiale possano soppiantare quasi del tutto il lavoro reso dall’essere umano, senza possibilità di totale recupero dei posti di lavoro perduti. Parallelamente, in Italia, il significativo incremento di prestazioni socio-economicamente dipendenti ha reso evidente la necessità di un sistema di garanzie minime in termini di occupazione, compenso, orario minimo, contributi previdenziali ed assistenziali. Ma come far fronte a ciò resta molto dibattuto [52]. Come rilevato in precedenza, da un lato, si ritiene che la soluzione non possa prescindere dalla qualificazione giuridica della fattispecie; dall’altro, sembra preferibile connettere la tutela alla persona in quanto tale, piuttosto che al suo status occupazionale [53]. Naturalmente, nella prima [continua ..]
Esaminati gli impatti che il processo di digitalizzazione sta generando nel mercato e nel rapporto di lavoro, appare opportuno domandarsi se ed in che termini stia producendo effetti sul versante sindacale e, più nello specifico, se sia possibile individuare in tale ambito gruppi omogenei di lavoratori, tutelabili in via collettiva [59]. La questione è piuttosto articolata, anche perché il tradizionale modello di aggregazione basato sulla sintesi degli interessi individuali sembra difficilmente conciliabile con le dinamiche dell’industria 4.0, che, promuovendo forme di individualizzazione e disintermediazione, determina un affievolimento della capacità attrattiva del sindacato, tra l’altro già affaticato da una persistente crisi di rappresentatività [60]. In materia, diversi sono i profili di criticità: a) “delocalizzazione” dell’attività lavorativa (in assenza di riferimenti fisici e geografici dei lavoratori on demand); b) impossibilità di individuare categorie professionali, stante l’eterogeneità delle prestazioni lavorative; c) difficoltà di individuare settori produttivi riferiti all’economia digitale (stante la trasversalità delle piattaforme digitali); d) propensione individualistica dei lavoratori 4.0; e) non omogeneità degli interessi individuali; f) disintermediazione nei rapporti di lavoro; g) dimensione internazionale della questione; e via dicendo. In tale contesto, è quanto mai auspicabile un ruolo attivo delle organizzazioni sindacali, anche al fine di scongiurare la preconizzata scomparsa degli attori collettivi. Come correttamente rilevato, infatti, per il sindacato «le conseguenze della riorganizzazione sociale e produttiva in atto sarebbero disastrose; si tratterebbe della trasformazione in malattia endemica o terminale di sintomi che si erano già manifestati nel secolo scorso: calo delle iscrizioni soprattutto tra giovani e professionals, perdita di peso politico e dissolvimento della concertazione istituzionale, riduzione della copertura contrattuale e connesso fenomeno della frammentazione della rappresentanza e, oggi, della stessa contrattazione collettiva nazionale considerata, ancora, un vero e proprio pilastro regolativo e identitario» [61]. In verità, negli ultimi anni si è [continua ..]
Le osservazioni sin qui svolte consentono di pervenire ad alcune considerazioni conclusive. La tematica affrontata si presenta ampia ed articolata poiché, per un verso, spazia dalla robotica alle piattaforme tecnologiche, dall’intelligenza artificiale all’impresa digitale; per altro verso, favorisce l’affermarsi di nuovi modelli economici ed organizzativi, destinati ad incidere significativamente su una pluralità di ambiti (mercato del lavoro, occupazione, professionalità, svolgimento del rapporto, rappresentanza e tutele collettive, ecc.). In tale contesto, uno dei profili centrali è quello relativo all’interazione uomo-evoluzione tecnologica. Si tratta di una interazione che può avere un effetto sostitutivo ovvero di complementarietà, ma certamente con risvolti non trascurabili (anche in tema di sottoprotezione socio-economica). Ma se la macchina o l’algoritmo è effettivamente in grado di assumere decisioni autonomamente, non ci si può non domandare da chi sono esercitati i poteri datoriali e come deve essere regolamentata la relazione tra lavoratore e macchina intelligente [67]. Nell’ambito di tale relazione ci si deve interrogare se l’attuale corpus normativo è in grado di disciplinare questa nuova realtà, adattandosi a fattispecie del tutto innovative (che la stessa contrattazione collettiva fatica ad individuare e qualificare). Ed in effetti, vi è la percezione che l’apparato normativo non sia complessivamente idoneo ad regolamentare i vari profili della digital transformation. La riprova di quanto sopra è fornita dalla giurisprudenza sul caso Uber o, per restare ai confini nazionali, dalle recenti pronunce dei Tribunali di Torino e di Milano nelle vicende dei c.d. riders. In definitiva, è probabilmente giunto il momento di rimeditare il diritto del lavoro, valutando l’opportunità di introdurre – anche attraverso l’apporto degli attori sindacali – norme più aderenti ed efficaci rispetto ad una realtà totalmente nuova ed in continua evoluzione; norme che, abbandonando o ridimensionando i tradizionali schemi qualificatori (sempre più difficilmente rinvenibili negli attuali contesti produttivi), siano finalizzate alla costruzione di un apparato di tutele intorno alla figura del lavoratore (senza [continua ..]