Massimario di Giurisprudenza del LavoroISSN 0025-4959
G. Giappichelli Editore

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La tutela contro il licenziamento nelle piccole imprese dopo Corte cost. n. 194/2018 tra ius conditum e ius condendum (di Pasquale Passalaqua, Professore Associato di Diritto del lavoro – Università degli Studi di Cassino e Lazio meridionale.)


Il saggio esamina gli effetti della sentenza della Corte cost. n. 194/2018 sul regime di tutela contro il licenziamento illegittimo assicurata dal d.lgs. n. 23/2015 ai lavoratori dipendenti delle piccole imprese, nonché sulle prospettive di sviluppo.

Il contributo rappresenta l’intervento all’incontro di studio su Le tutele contro i licenziamenti illegittimi, Università degli Studi del Sannio, Benevento, 1° febbraio 2019.

Protection against dismissal in small enterprise after Court cost. n. 194/2018 between ius conditum and ius condendum

The essay examines the effects of the sentence of the Constitutional Court n. 194/2018 on the protection regime against unlawful dismissal ensured by Legislative Decree no. 23/2015 to employees of small enterprises, as well as to prospects for development.

Keywords: Dignity Decree – Constitutional Court – compensation – small enterprises.

SOMMARIO:

1. Decreto dignità e Corte Costituzionale sul sistema delle tutele crescenti: il focus della presente indagine - 2. A). Le osservazioni de iure condito: la tutela contro il licenzia­mento illegittimo assicurata dal d.lgs. n. 23/2015 ai lavoratori dipendenti delle piccole imprese - 3. L’individuazione dei criteri da applicare per determinare l’enti­tà dell’indennità - 4. B) Le prospettive de iure condendo: il problematico regime differenziato e l’ampliamento sostanziale della distanza con la tutela riconosciuta ai lavoratori della medio-grande impresa - 5. Il problema del limite massimo di tutela dei 6 mesi di retribuzione: il possibile intervento del legislatore - 6. L’ipotesi del referendum abrogativo - 7. Richiamare in campo la Corte Costituzionale? - NOTE


1. Decreto dignità e Corte Costituzionale sul sistema delle tutele crescenti: il focus della presente indagine

Si vogliono in questa sede svolgere alcune considerazioni relative al regime di tutela assicurato ai dipendenti delle c.d. “piccole imprese” nel quadro del c.d. contratto a tutele crescenti a seguito del mutato contesto, determinato prima dall’inter­vento del legislatore attraverso il decreto dignità (decreto legge n. 87/2018) e, successivamente, dall’intervento della Corte Costituzionale con la nota pronuncia 8 no­vembre 2018, n. 194. Vorrei dividere il discorso in due parti: da un lato procedere alla valutazione del­l’impatto delle modifiche summenzionate sul piano del diritto vigente e delle regole da questo poste, anche in relazione ai primi riscontri della giurisprudenza di merito. Dall’altro, il tentativo è quello di delineare qualche prospettiva de iure condendo, nella direzione di una tendenziale maggiore armonizzazione delle tutele con quelle ora riconosciute ai lavoratori dipendenti delle imprese medio-grandi. Il nuovo punto di partenza è oggi rappresentato dalla tutela risarcitoria di tipo economico, fissata ora nel minimo in sei mensilità e nel massimo in trentasei mensilità, sulla base delle modifiche apportate dal decreto dignità del 2018 al d.lgs. n. 23/2015 [1]. Tale tutela, in seguito alla pronuncia della Corte cost. n. 194/2018 non viene, tuttavia, più riconosciuta in via incrementale secondo il meccanismo delle “tutele crescenti”, cioè calcolata in base all’anzianità di servizio del lavoratore presso quel datore di lavoro (due mensilità ogni anno), giacché le relative disposizioni sono state ritenute dalla Corte costituzionalmente illegittime e, pertanto, espunte dal testo di legge [2]. In seguito al citato intervento della Consulta [3], si pone quindi la questione della determinazione dell’entità dell’indennità da riconoscere al lavoratore illegittimamente licenziato per mancanza di giusta causa o giustificato motivo, da definire entro i limiti legali di importo minimo e massimo [4]. In questo contesto la tutela da riconoscere ai lavoratori dipendenti dalle c.d. “piccole imprese” nell’ambito del d.lgs. n. 23/2015, è fissata dall’art. 9, comma 1, d.lgs. n. 23/2015. Occorre in via preliminare sgombrare il campo da un possibile equivoco in ordine alla struttura della norma qui [continua ..]


2. A). Le osservazioni de iure condito: la tutela contro il licenzia­mento illegittimo assicurata dal d.lgs. n. 23/2015 ai lavoratori dipendenti delle piccole imprese

I lavoratori dipendenti dalle piccole imprese come sopra individuate hanno diritto, in caso di licenziamento illegittimo, in quanto ingiustificato per mancanza di giusta causa o giustificato motivo, ex art. 9, comma 1, d.lgs. n. 23/2015, a un’indennità risarcitoria di importo “dimezzato” rispetto a quella riconosciuta dal menzionato art. 3, che comunque incontra il limite delle 6 mensilità. In merito alla sua portata sono sorti dubbi sul fatto che la norma non precisi se il dimezzamento degli importi valga sia in relazione alle misure minime fissate all’art. 3, comma 1, nonché per quelle di cui all’art. 4, comma 1 e all’art. 6, comma 1 [8]. A nostro avviso, invece, il rinvio effettuato dall’art. 9, comma 1 del decreto alle disposizioni citate consente di ritenere tali dubbi superabili e di applicare, di conseguenza, il “dimezzamento” a tutti i richiamati importi minimi, i quali, in quanto contenuti nelle disposizioni richiamate, non possono che essere applicati, in misura, appunto, dimezzata [9]. Pertanto, fugati tali dubbi, prima del citato intervento di Corte cost. n. 194/2018 si trattava del riconoscimento in capo al lavoratore di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura co­munque non inferiore a tre mensilità [10] e non superiore a sei. Occorre ora valutare l’effetto della suddetta sentenza anche in relazione alla pre­visione dell’art. 9, comma 1, d.lgs. n. 23/2015. La sua ratio in parte qua risiede espli­citamente nell’assicurare al lavoratore dipendente di una piccola impresa una tutela economica dall’importo minimo appunto “dimezzato” rispetto a quello garantito dalle disposizioni richiamate, tra cui innanzitutto l’art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23/2015. Se, quindi, quelle disposizioni richiamate sono state colpite dalla scure della Corte Costituzionale, quanto alle modalità di calcolo della stessa indennità basata sul criterio dell’anzianità di servizio (due mensilità per anno) ritenuto incostituzionale, ne consegue che tale criterio non possa più essere applicato nelle medesime ipotesi [continua ..]


3. L’individuazione dei criteri da applicare per determinare l’enti­tà dell’indennità

Come abbiamo già notato, non paiono poter esserci dubbi sulla diretta applicazione anche ai lavoratori dipendenti da piccole imprese, in virtù del rinvio formale dell’art. 9, comma 1, all’art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23/2015, del nuovo sistema di tutela derivante dalla sentenza n. 194/2018 della Corte Costituzionale, con conseguente indennizzo compreso tra tre e sei mensilità, senza applicazione del meccanismo delle tutele crescenti, dichiarato incostituzionale in caso di licenziamento intimato in mancanza di giusta causa o di giustificato motivo. Resta a questo punto da capire a quali parametri dovrà o potrà far riferimento il giudice per la determinazione dell’entità dell’indennizzo da riconoscere al lavoratore licenziato senza un legittimo motivo. Occorre ribadire che anche per i dipendenti delle piccole imprese convivono al momento due regimi di tutela in caso di licenziamento ingiustificato, l’uno ancora declinato dall’art. 8, legge n. 604/1966 (la c.d. tutela obbligatoria) per i lavoratori as­sunti fino al 6 marzo 2015 e l’altro, delineato dall’art. 9, d.lgs. n. 23/2015 per quelli assunti successivamente. Quindi, stricto iure, solo nel primo caso, in cui il risarcimento è fissato tra 2,5 e 6 mensilità, il giudice è tenuto a seguire i criteri dettati espressamente dall’art. 8 menzionato, mentre nella seconda ipotesi, dopo l’eliminazione del­l’incostituzionale sistema delle tutele crescenti, non sussistono specifici parametri di fonte legale e, pertanto, la questione non si presta a soluzioni univoche. Il dato di partenza non può che essere quello fornito nella medesima sentenza n. 194/2018, in cui la Corte mette in campo insieme criteri esistenti nella normativa sui licenziamenti, cioè sia quelli declinati dal menzionato art. 8, legge n. 604/1966 per le piccole imprese, sia quelli dettati dall’art. 18, comma 5, legge n. 300/1970, senza operare o proporre distinzioni in base alle dimensioni dell’impresa [17]. Nel fiorente dibattito dottrinale in ordine alla portata della sentenza della Corte paiono contrapporsi su questo punto, pur nei diversi accenti, due letture: da parte di alcuni si fa notare che quei criteri risultino in realtà solo “suggeriti” dalla Consulta, non rientrando nel dispositivo della stessa sentenza n. 194/2018, tanto da non [continua ..]


4. B) Le prospettive de iure condendo: il problematico regime differenziato e l’ampliamento sostanziale della distanza con la tutela riconosciuta ai lavoratori della medio-grande impresa

Dalle considerazioni de iure condito, si vuole ora passare a quelle de iure condendo, giacché sembra che il quadro regolatorio scaturito dal recente intervento della Consulta resti quantomeno non appagante, in particolare con riferimento alla tutela riconoscibile ai lavoratori dipendenti delle piccole imprese illegittimamente licenziati. Già in sede di commento al d.lgs. n. 23/2015 avevamo osservato che data la tendenziale convergenza del sistema delle tutele verso sanzioni di tipo economico, si sarebbe anche potuto cogliere l’occasione di superare definitivamente la dicotomia tra piccola e medio-grande impresa, ovvero lo spartiacque dei 15 dipendenti, che, da tem­po non recente, non pare più rappresentare un elemento dirimente della capacità eco­nomica di un’impresa, comprovata, oramai, in misura prevalente da altri fattori [32]. In tale prospettiva, più che discutibile appare la giustificazione del ancor più eccentrico regime previsto per l’impresa agricola, ritenuta evidentemente ancora dal le­gislatore più solida delle altre (quando così non pare essere), tanto da sottostare al regime dell’impresa medio-grande al solo superamento del limite non di quindici, ma di cinque dipendenti. In realtà, l’origine di una tale previsione risiede nella ratio del­l’art. 35 Stat. che la introdusse, al fine di far entrare il sindacato in azienda e, quindi, anche nelle aziende agricole di medie dimensioni, per le quali, proprio in quanto mediamente più piccole delle altre, fu fissato un limite più basso. Il peculiare limite ha poi resistito alla stratificazione normativa, finendo con l’essere trasposto prima nell’art. 18 e poi recepito anche dal d.lgs. n. 23/2015. Il “dimezzamento” della somma riconosciuta, già di per sé esigua, finisce, poi, come già notato in dottrina, con il porsi nelle altre ipotesi richiamate all’art. 9, com­ma 1, del d.lgs. n. 23/2015 (vizi solo formali o procedurali e ipotesi di conciliazione) – non toccate come notato da Corte cost. n. 194/2018 – su una soglia davvero minimale, con conseguente emersione di nuovi dubbi di compatibilità sistemica di un tale assetto differenziato [33]. L’inadeguatezza dell’attuale sistema di tutele contro il licenziamento [continua ..]


5. Il problema del limite massimo di tutela dei 6 mesi di retribuzione: il possibile intervento del legislatore

Alla luce del mutamento del sistema a seguito dell’intervento della Consulta occorre, a mio avviso, rimeditare sull’attuale sostenibilità del regime differenziato per le piccole imprese. In una tale prospettiva, a mio avviso può tenere la previsione di un limite nel mi­nimo dimezzato rispetto a quello imposto per le imprese medio-grandi, ora determinato, come già notato, alla luce dell’intervento del decreto dignità, in tre mensilità della retribuzione. Inoltre, come ricordato non si applica ai licenziamenti illegittimi intimati nella c.d. piccola impresa il regime previsto dall’art. 3, comma 2, d.lgs. n. 23/2015, riferito alla particolare ipotesi dell’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore cui segue la reintegrazione con tutela risarcitoria limitata nel massimo a dodici mensilità, la c.d. tutela ripristinatoria “debole”. Forse anche questa differenziazione può tenere e, peraltro, non è incisa dalla sentenza della Corte Costituzionale. Quel che desta particolari perplessità è il perdurante limite massimo delle sei men­silità di risarcimento, che ora va a coincidere con il limite invece minimo previsto per le imprese medio-grandi. Il primo possibile protagonista di un eventuale intervento demolitorio del suddetto tetto resta, ovviamente, il legislatore. Al fine di riequilibrare il sistema, lo stesso legislatore potrebbe agire anche nella direzione già tentata dalla proposta referendaria (di fin troppo ampia prospettiva) volta all’estensione dell’ambito di applicazione dell’art. 18 Stat., dove attraverso un lavoro di “ritaglio”, il requisito dei cinque dipendenti sopravviveva proprio al fine di delineare il proposto nuovo confine della tutela reintegratoria, che tuttavia, dato il ritenuto carattere manipolativo della stessa proposta, non superò il vaglio di ammissi­bilità [39]. Al contempo, un possibile intervento del legislatore si potrebbe sviluppare anche in un più ampio contesto di ridefinizione unitaria della tutela contro il licenziamento illegittimo, da più parti invocata proprio a seguito dell’intervento della Consulta, che ponga fine ai regimi paralleli delineati dall’art. 18 Stat. e dall’art. 8, legge n. 604/1966 da un lato e dal d.lgs. n. 23/2015, fonte ormai di complicazioni sempre meno [continua ..]


6. L’ipotesi del referendum abrogativo

Una ulteriore ipotesi da vagliare potrebbe essere proprio quella del referendum abrogativo, teso a espungere dall’art. 9, comma 1, d.lgs. n. 23/2015 le parole «e non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità», tanto da eliminare il suddetto tetto. Sotto il profilo tecnico-giuridico si tratta di una proposta semplice, non manipolativa, che rende immediatamente applicabile la nuova regola, di fissazione del limite massimo in diciotto mensilità. In una simile prospettiva pare possibile riferirsi ai noti precedenti della Corte Costituzionale, la quale, proprio in virtù della chiarezza del quesito referendario, aveva nel recente passato ritenuto ammissibile sia il referendum teso all’abrogazio­ne dell’art. 18 Stat. nel 2000 [41], sia, in direzione opposta, quello teso a eliminare tutti i limiti alla sua applicazione nel 2003 [42]. Entrambi i referendum, come noto, non raggiunsero comunque poi il quorum. Si tratterebbe, quindi, di un intervento tecnicamente possibile, ma politicamente di quantomeno difficile praticabilità, in quanto apprezzabile in quel contesto quale aggravio di oneri per la piccola impresa, contro un incremento di diritti che toccherebbe soltanto una parte degli occupati.


7. Richiamare in campo la Corte Costituzionale?

Un’ulteriore possibilità, che appare essere quella più concreta, può essere riposta a mio avviso in un nuovo intervento della Corte Costituzionale. Invero, l’unica norma che è stata oggetto del giudizio recente della Corte è l’art. 3, comma 1, d.lgs. n. 81/2015, mentre la pronuncia non ha toccato tra l’altro l’art. 9 del medesimo decreto. In questa prospettiva, occorre muovere dal criterio di individuazione del quantum dell’indennità-risarcimento del danno da riconoscere al lavoratore consistente nelle dimensioni dell’impresa, declinato nel senso del numero dei dipendenti occupati, volto, come noto, a esprimere il grado di capacità del datore di lavoro di sopportare gli oneri economici derivanti dal licenziamento illegittimo intimato al dipendente. Tale criterio è già posto alla base della differenziazione di tutele predisposto dal legislatore tra piccola impresa (rectius piccolo datore di lavoro) e impresa medio-grande, in quanto sulla soglia dei quindici dipendenti viene ribadito il perdurante regime differenziato. Inoltre, dopo Corte cost. n. 194/2018, come già notato, in base al richiamo dei parametri dettati dall’art. 8, legge n. 604/1966 (tra i quali vi è appunto quello del numero dei dipendenti occupati), il criterio viene anche in questo caso a poter operare due volte, come se si moltiplicasse cioè su se stesso. Potrebbe, quindi essere ritenuta costituzionalmente illegittima la disposizione (art. 9, comma 1, d.lgs. n. 23/2015) nella parte in cui recita «e non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità», quale tetto e limite irragionevole e discriminatorio [43]. Non di tratta di certo di un percorso semplice e scontato, in quanto non si può non essere memori dei percorsi della medesima Corte Costituzionale, la quale già in passato ha più volte avallato la scelta del legislatore del sistema di tutele differenziato [44]. Al contempo tuttavia, possiamo osservare che la Corte ha basato questa lettura su due principali presupposti: a) la spiccata fiduciarietà delle relazioni di lavoro in tali imprese, ritenuta incompatibile con la ricostituzione del rapporto di lavoro, tipico della tutela reale assicurata dall’art. 18 Stat. [45]. Sul punto la replica risulta oggi agevole, giacché l’alternativa [continua ..]


NOTE
Fascicolo 4 - 2019