Cassazione civile, Sez. lav., 31 maggio 2022, n. 17689 – Pres. Tria – Rel. Ponterio
< >L’esercizio del diritto di libera manifestazione del pensiero, sia che si realizzi attraverso l’espressione di critiche, purché nei limiti di continenza tracciati, e sia che si traduca nella denuncia alle autorità competenti di fatti illeciti, di rilievo penale o amministrativo, purché non di carattere calunnioso, non può di per sé costituire giusta causa o giustificato motivo di licenziamento. L’obbligo di fedeltà imposto al lavoratore non può spingersi infatti fino al punto da comprimere, oltre i limiti sopra individuati, l’esercizio del diritto di critica tutelato dall’art. 21 Cost. e dallo Statuto dei lavoratori (art. 1).
<1. Il caso concreto - 2. L’inquadramento giuslavoristico dell’istituto - 3. Le modalità di esercizio del diritto di critica - 4. … La specialità della segnalazione mediante denuncia - NOTE
La controversia vagliata dalla Corte di Cassazione concerne il licenziamento disciplinare intimato ad un dirigente, con ruolo di direttore generale, da poco assunto da una società che aveva avviato un processo di ristrutturazione aziendale e di riposizionamento del debito. Il neodirettore, sin dai primi giorni del suo ingresso in azienda, aveva manifestato le proprie perplessità circa alcune poste contabili, inizialmente al consigliere delegato e, in seguito, anche pubblicamente, nel corso di una riunione del Consiglio di Amministrazione, durante la quale aveva dato lettura di un documento in cui palesava critiche alla bozza di bilancio, evidenziando la possibile commissione di fatti illeciti relativi alla tenuta contabile dell’azienda («Ritengo quindi opportuno sintetizzare i principali elementi economici – patrimoniali, accolti nella bozza di piano attestato di risanamento […] con evidenti rischi connessi all’eventuale reato di “ricorso abusivo al credito” […] configurandosi la fattispecie criminosa del “falso in bilancio”»). Tali rilievi, avevano sollecitato una serie di indagini da parte del collegio sindacale e l’intervento della società di revisione. E, una volta accertata la sostanziale infondatezza delle eccezioni sollevate dal dirigente, la società aveva avviato un procedimento disciplinare a carico del lavoratore, all’esito del quale aveva irrogato la sanzione del licenziamento per giusta causa. Il recesso datoriale, impugnato dal lavoratore, veniva considerato legittimo dai giudici di merito, che ritenevano integrato il requisito di “giustificatezza” del licenziamento, in ragione delle «modalità comportamentali adottate […] già nelle fasi iniziali del rapporto» che «rivelavano come lo stesso si fosse volontariamente posto in contrapposizione con le scelte adottate dagli organi gestionali della società e come, quindi, non potesse sussistere alcun rapporto di fiducia». Per i giudici di merito, in particolare, la previsione di cui agli artt. 2392 e 2396 c.c. non poteva legittimare la condotta del lavoratore, il quale non aveva «diritto di “pubblicizzare le proprie perplessità”, di “descrivere sempre pubblicamente le fattispecie di reato potenzialmente configurabili in caso di mancato accoglimento dei rilievi dallo stesso sollevato”, [continua ..]
L’esercizio, da parte del lavoratore, del diritto di critica nei confronti del datore di lavoro costituisce un tema particolarmente rilevante e delicato, in ragione delle informazioni acquisite dal dipendente a seguito del suo inserimento nell’organizzazione dell’impresa e, quindi, del diretto contatto con il patrimonio informativo dell’azienda [1]. L’accesso al “flusso continuo di notizie che attraversa normalmente l’azienda in ogni sua parte” [2] pone infatti il lavoratore in una posizione privilegiata, che consente e favorisce la manifestazione di giudizi critici sui prodotti o l’operato dell’azienda, potenzialmente dannosi, capaci di arrecare nocumento agli interessi aziendali, mediante la diffusione di tali informazioni verso l’esterno. Il diritto in questione, come è noto, trova il proprio fondamento nell’art. 21 della Costituzione [3], che attribuisce ad ognuno “il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, con lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione” [4]. Nell’ambito del rapporto di lavoro, la libertà di manifestazione del pensiero viene richiamata anche dall’art. 1 dello Statuto dei Lavoratori, che riconosce ai lavoratori il diritto di esprimersi con posizioni critiche nei confronti del datore di lavoro, dell’impresa e dei superiori gerarchi, sia all’interno dell’azienda che fuori dalla stessa (come sovente accade mediante l’utilizzo di social network [5]) [6]. La tutela apprestata dall’ordinamento in favore della fattispecie in questione, diviene, poi, ancor più incisiva qualora la critica sia funzionale alla tutela di interessi collettivi e sindacali, laddove la manifestazione del pensiero viene presidiata non soltanto dall’art. 21 Cost., ma anche dal primo comma dell’art. 39 Cost. [7]. Il diritto del lavoratore di diffondere notizie e commenti inerenti alla realtà produttiva, non può tuttavia essere esercitato in modo indiscriminato, ma trova un limite nel contemperamento con altri diritti e interessi fondamentali della persona di matrice costituzionale (c.d. limiti “esterni”). Tale esigenza di contemperamento è consolidata nella giurisprudenza costituzionale [8], secondo la quale alla libertà di manifestazione del pensiero sono opponibili soltanto limiti [continua ..]
Il necessario bilanciamento tra tutti i delicati interessi coinvolti si è affinato mediante il ricorso ad una serie di condizioni e regole, elaborate dalla giurisprudenza, per valutare il corretto esercizio della cronaca giornalistica (il noto “decalogo del giornalista”) [15] ed adattate successivamente alla critica del lavoratore a partire da una sentenza pilota del 1986 [16]. La Suprema Corte ha cioè esteso al lavoro subordinato il “decalogo del giornalista”, redigendo l’omologo “decalogo del buon lavoratore” [17], contenente ulteriori limiti (c.d. “interni”) e modalità di legittima espressione del dissenso del lavoratore, costituenti vincoli aggiuntivi di cui il giudice deve tener conto per valutare la liceità del comportamento del lavoratore ed escludere la legittimità dell’irrogazione della sanzione espulsiva da parte del datore di lavoro [18]. I requisiti previsti dal “decalogo” consistono, come è noto, nella continenza sostanziale, formale, e materiale. Il primo, quello della c.d. “continenza sostanziale”, attiene alla notizia comunicata e impone che i fatti narrati, suscettibili di arrecare un danno all’immagine dell’imprenditore, siano veri ed obiettivi [19]. Il lavoratore è tenuto quindi ad esprime il dissenso senza travisare i fatti, attenendosi alla verità in modo chiaro e leale. Sebbene i fatti narrati debbano essere veritieri, la giurisprudenza ritiene che il parametro della verità non sia assoluto ma «corrispondente ad un prudente apprezzamento soggettivo di chi dichiara gli stessi come veri» [20]. Tale mitigazione è comunque possibile e lecita in quanto, come osservato dalla dottrina, l’art. 21 Cost. non tutela unicamente le divulgazioni veritiere, bensì tutte le manifestazioni «del proprio pensiero», ovvero non soltanto le notizie indubbiamente vere «ma anche quelle false che il soggetto diffonde ritenendole, in buona fede, vere (falso obiettivo)» [21]. Per quanto attiene, invece, la c.d. “continenza formale”, in base al decalogo citato la critica deve concretizzarsi nell’utilizzo di una forma espositiva corretta, misurata ed obiettiva, senza assumere toni denigratori ed eccedere l’intento informativo. Il pensiero, dunque, seppur critico, deve essere espresso [continua ..]
Nella sua parte più pregnante, la decisione in commento esclude che l’obbligo di fedeltà, anche correlato con i canoni generali di correttezza e buona fede, «possa essere esteso sino a imporre al lavoratore di astenersi dalla denuncia di fatti illeciti che egli ritenga essere stati consumati all’interno dell’azienda, giacché in tal caso si correrebbe il rischio di scivolare verso – non voluti, ma impliciti – riconoscimenti di una sorta di “dovere di omertà” (ben diverso da quello di fedeltà di cui all’art. 2105 c.c.) che, ovviamente, non può trovare la benché minima cittadinanza nel nostro ordinamento» [29]. Dunque nella fattispecie di denuncia all’autorità giudiziaria o amministrativa di fatti illeciti commessi dal datore di lavoro, la Suprema Corte, in ragione del diverso inquadramento giuridico del fenomeno ha ribadito l’orientamento prevalente formatosi in materia [30], secondo cui «non rilevano i limiti della continenza sostanziale e formale, superati i quali la condotta assume carattere diffamatorio, e, quindi, può avere rilevanza disciplinare, giacché ogni denuncia si sostanzia nell’attribuzione a taluno di un reato, per cui non sarebbe logicamente e giuridicamente possibile esercitare la relativa facoltà senza incolpare il denunciato di una condotta obiettivamente disonorevole e offensiva della reputazione dell’incolpato» [31]. Nella stessa direzione, una parte della dottrina sostiene che i principi fatti valere in materia di critica risultano del tutto inconferenti se richiamati a proposito del potere di denuncia alle autorità di un determinato fatto, magari penalmente rilevante [32]. Ne discende, quindi, che la denuncia dovrebbe ritenersi sempre legittima, a meno che il lavoratore-segnalante faccia ricorso ai pubblici poteri in modo strumentale e distorto ovvero agisca conscio dell’insussistenza dell’illecito o dell’estraneità allo stesso dell’incolpato, mosso dalla volontà di danneggiare il datore di lavoro con false accuse. Gli interpreti riconducono l’esclusione dell’antigiuridicità della condotta del lavoratore – e dunque della responsabilità disciplinare dello stesso – alla presenza e valorizzazione di peculiari interessi pubblici alla collaborazione del privato [continua ..]