Massimario di Giurisprudenza del LavoroISSN 0025-4959
G. Giappichelli Editore

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Cumulo fra attività lavorative: la novella del decreto trasparenza (di Giuseppe Sigillò Massara, Professore associato di Diritto del lavoro – Università degli Studi Link Campus University)


Il c.d. Decreto Trasparenza, nell’intervenire a delineare un contesto lavorativo improntato alla reciproca fiducia, con la massima riduzione delle asimmetrie informative tra lavoratore e datore di lavoro, opera alcuni interventi sostanziali destinati ad impattare sull’attuale contesto lavorativo italiano. Tra questi, l’art. 8 della novella disciplina per la prima volta la possibilità per il lavoratore subordinato di cumulare diverse attività in costanza di rapporto, salvo l’obbligo di fedeltà e il divieto di concorrenza. Il presente contributo, dopo una ricostruzione dello status quo ante, si propone di analizzare la novella per indagarne le potenzialità ed evidenziare alcune criticità.

Parole chiave: Lavoro subordinato – Decreto Trasparenza – Cumulo di attività di lavoro – Obbligo di fedeltà – Obbligo di non concorrenza.

The possibility of multiple jobs: the news of decreto trasparenza

The so-called Decreto Trasparenza aims at creating a working context based on mutual trust, through the reduction of information asymmetries between employer and employee. Moreover, the Decree rules, for the first time, the possibility to be employed with different contract simultaneously, respecting the obligation of loyalty (art.2015 Italian civil code). The present paper, having done a brief analysis of the status quo ante, examines the news, investigates its potential and highlights some critical issues.

Keywords: Employment contract – Decreto Trasparenza – multiple employment contracts – obbligation of loyalty – non-compete obligation.

SOMMARIO:

1. Introduzione - 2. Lo status quo ante - 3. L’art. 8 del d.lgs. n. 104/2022: la nascita di un diritto - 4. Ambito soggettivo - 5. Le Misure di Tutela - 6. Alcune brevi considerazioni conclusive - NOTE


1. Introduzione

In claris non fit interpretatio. Pare, a chi scrive, opportuno prendere le mosse dal classico brocardo che, nella sua icasticità, invita a non interpretare quanto già di per sé appare di chiaro significato, con ciò implicitamente riconoscendo come la trasparenza del contenuto regolatorio, tanto del contratto quanto della legge, sia un efficacie strumento di certezza e, quindi, garanzia dei diritti. Non può, dunque, che accogliersi positivamente il tentativo europeo [1], poi traslato a livello nazionale [2], di garantire una maggiore trasparenza e ampiezza nelle informazioni che il datore di lavoro [3] – ma in molti casi anche il committente – deve fornire ai lavoratori al momento dell’assunzione e nel corso del rapporto. Come espressamente sancito dall’art. 1, §1, della direttiva, di fatti, “lo scopo della presente direttiva è migliorare le condizioni di lavoro promuovendo un’occupazione più trasparente e prevedibile, pur garantendo nel contempo l’adattabilità del mercato del lavoro”. Il raggiungimento di tale scopo, tuttavia, sia nella direttiva europea che, di converso, anche nel decreto Trasparenza, non viene affidato solamente alla disciplina formale relativa alla trasparenza delle informazioni, ma ricomprende anche alcune novità in materia di diritto del lavoro sostanziale. Viene, tra l’altro, rimaneggiata la disciplina del patto di prova, viene auspicata una “transizione” dal lavoro precario verso un’occupazione stabile, viene regolata una “prevedibilità minima del lavoro” e incentivata la formazione dei lavoratori, viene prevista la possibilità di svolgere altre attività lavorative in costanza di rapporto di lavoro (subordinato e non). Come correttamente rilevato [4], tale ultima innovazione, disposta dall’art. 8 del decreto, attiene ad un «aspetto sostanziale dei rapporti di lavoro». È possibile immaginare che l’argomento sia destinato ad assumere un rilievo crescente, in proporzione all’avanzare della flessibilizzazione e precarizzazione dei rapporti di lavoro, circostanze entrambe che da un lato concedono ai prestatori del tempo da poter impiegare per altre attività, dall’altro rendono spesso necessario incrementare il reddito. Al contempo, anche le professionalità più elevate sono spesso [continua ..]


2. Lo status quo ante

Pur nell’assenza di una disposizione di legge che specificamente negasse o confermasse l’esistenza di un principio di esclusività del lavoro subordinato, difatti, la prassi ha visto il progressivo diffondersi di fattispecie di compresenza di più impieghi in capo ad uno stesso soggetto, portando così a diverse pronunce giurisprudenziali sul tema. Di tal ché, già a partire dall’ultimo decennio del secolo scorso, nel nostro ordinamento è venuto a crearsi un acquis piuttosto stabile nel riconoscere la generale possibilità per il lavoratore (vieppiù per il lavoratore part-time) di moltiplicare i propri impieghi, purché tale possibilità non sia esclusa dalle previsioni contrattuali e non risulti in contrasto con gli interessi dell’impresa, pure tutelati dal­l’ordinamento. Più nello specifico, tale principio è stato modulato diversamente a seconda che il lavoratore interessato sia o meno assunto con contratto di lavoro part-time. Ed infatti, con riferimento a quest’ultima ipotesi, la Corte Costituzionale ha affermato già trent’anni orsono la necessità che il lavoratore abbia la possibilità di occuparsi in plurime attività, «poiché soltanto essa rende legittimo che dal singolo rapporto il lavoratore possa ricevere una retribuzione inferiore a quella sufficiente ad assicurare a lui e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa» [5]. In altre parole, già all’inizio degli anni ’90, la Corte Costituzionale ha ritenuto legittima la riduzione dell’orario lavorativo rispetto a quello “normale” – e la conseguente riduzione stipendiale rispetto al trattamento retributivo minimo collettivo – solo in quanto al lavoratore sia data la possibilità di impiegare il tempo libero per svolgere altre attività, di modo da poter accrescere il proprio reddito complessivo ed ottenere la retribuzione sufficiente garantita dall’art. 36, Cost. [6]. Anche con riferimento al lavoro a tempo pieno, tuttavia, la giurisprudenza ha avuto modo di negare la generale sussistenza un principio di esclusività, giungendo di recente ad affermare che anche per tali rapporti «il tempo libero ha una sua specifica importanza stante il rilievo sociale che assume lo svolgimento, anche per il lavoratore a tempo pieno, di [continua ..]


3. L’art. 8 del d.lgs. n. 104/2022: la nascita di un diritto

La materia è stata interessata dal d.lgs. n. 104 del 27 giugno 2022 (il c.d. decreto Trasparenza), con cui il legislatore nazionale ha dato attuazione alla direttiva UE 2019/1152. Nello specifico, l’art. 8, comma 1, del decreto sancisce che «fatto salvo l’obbli­go previsto dall’articolo 2105 del codice civile, il datore di lavoro non può vietare al lavoratore lo svolgimento di altra attività lavorativa in orario al di fuori della programmazione dell’attività lavorativa concordata, né per tale motivo riservargli un trattamento meno favorevole». Il secondo comma recepisce i tre «motivi oggettivi» [20] individuati dalla direttiva europea quali condizioni legittimanti la limitazione o esclusione della cumulabilità di più attività lavorative. Così, il datore di lavoro può limitare o negare tale possibilità nel caso in cui vi sia un pregiudizio per la salute e sicurezza del lavoratore, anche con riferimento alla «normativa in materia di riposi»; qualora vi sia la «necessità di garantire l’integrità del servizio pubblico»; in caso di conflitto di interessi con l’attività principale, «pur non violando il dovere di fedeltà» di cui all’art. 2105, c.c. Come vedremo, i nodi interpretativi lasciati insoluti dai primi due commi dell’art. 8 sono molteplici e non di poco conto. Prima di esaminarli singolarmente è tuttavia opportuno classificarne il contenuto precettivo all’interno della corretta categoria giuridica. Al di là della insolita scelta etimologica del legislatore di “vietare al datore di lavoro di vietare”, difatti, l’art. 8 attribuisce un nuovo diritto ai lavoratori (pur sussistendo categorie escluse): il diritto allo svolgimento di «altra attività lavorativa» in costanza di rapporto. La strada dell’introduzione di un nuovo diritto [21] pare suggerita dalla citata direttiva europea, la quale, all’art. 1, § 2, chiarisce che essa «stabilisce diritti minimi» applicabili alla generalità dei lavoratori dell’Unione. Ebbene, come è stato osservato [22], la classificazione in termini di diritto della possibilità di svolgere più attività lavorative in parallelo è tutt’altro che indifferente, [continua ..]


4. Ambito soggettivo

Per quanto attiene all’ambito soggettivo di applicazione, il comma 3 dell’art. 8 si preoccupa di specificare che il “divieto di vietare” lo svolgimento di altre attività si applica non solo al datore di lavoro (espressamente menzionato al primo comma), bensì anche al committente di collaborazioni coordinate e continuative ex art. 409, c.p.c., e di collaborazioni etero-organizzate ex art. 2, d.lgs. n. 81/2015. Coerentemente con la crescente tendenza ad ampliare la protezione dei collaboratori e le intersezioni tra la loro disciplina specifica e lo statuto protettivo del lavoro subordinato, dunque, anche i collaboratori sono espressamente menzionati tra i destinatari del nuovo diritto. In altre parole, ad essere esclusi sono solamente i lavoratori autonomi “puri”, riconducibili all’art. 2222, c.c., in relazione ai quali, tuttavia, una previsione di tal fatta sarebbe risultata ultronea [32], essendo connaturata alla nozione di lavoro autonomo la possibilità di impiegarsi in molteplici occupazioni (salve eventuali incompatibilità previste dagli ordinamenti di appartenenza), tanto da essere la mono-committenza l’ipotesi extra-ordinaria cui destinare una disciplina ad hoc [33]. Ancora, ai sensi degli ultimi due commi, l’art. 8 non si applica ai pubblici dipendenti, per i quali, come anticipato, rimane in vigore la disciplina specifica di cui all’art. 53, d.lgs. n. 165/2001 [34], né ai lavoratori marittimi e della pesca. Una prima difficoltà interpretativa attiene, allora, al coordinamento con l’art. 1 del decreto Trasparenza, che, nel delimitarne l’ambito di applicazione, ricomprende specificamente sia diverse tipologie contrattuali – quali il rapporto di somministrazione, il lavoro domestico, il lavoro intermittente – non menzionate dall’art. 8, sia altre tipologie contrattuali – quali le collaborazioni coordinate e continuative e le collaborazioni etero-organizzate o i lavoratori marittimi e della pesca – “ribadite” dall’art. 8 stesso. Ebbene, posto il generico riferimento del comma 1 dell’art. 8 al «datore di lavoro», le tipologie contrattuali menzionate all’art. 1 e non nell’art. 8 devono ritenersi ricomprese nell’alveo del diritto alla cumulabilità di molteplici attività? E, se sì, come occorre interpretare l’espressa [continua ..]


5. Le Misure di Tutela

Il Capo IV del decreto Trasparenza è destinato alla disciplina delle “misure di tutela” dei diritti riconosciuti nello stesso decreto (e nel d.lgs. n. 152/1997), contemplando sia strumenti di natura giudiziale e stragiudiziale che meccanismi sanzionatori, civili e amministrativi. In caso di violazione dei “nuovi diritti”, l’art. 12 del decreto prevede la possibilità, per i lavoratori, di ricorrere agli strumenti di risoluzione delle controversie alternativi rispetto al ricorso giudiziale (Alternative Dispute Resolutions – ADR) tradizionali del diritto del lavoro, quali il tentativo di conciliazione presso l’ITL territorialmente competente di cui agli artt. 410 e 411, c.p.c., e il collegio di conciliazione e arbitrato di cui agli artt. 412 e 412 quater, c.p.c., nonché la possibilità di rivolgersi alle camere arbitrali eventualmente istituite presso gli organismi di certificazione di cui all’art. 31, comma 12, legge n. 183/2010. Si tratta, tuttavia, di strumenti preesistenti e già da tempo a disposizione dei lavoratori per la generalità di controversie comunque connesse al rapporto di lavoro [37]. Ancora, l’art. 13 estende la sanzione dell’ammenda da 250 a 1550 euro disposta in materia di lotta alle discriminazioni dall’art. 41, comma 2, d.lgs. n. 198/2006, anche alle ipotesi di «adozione di comportamenti di carattere ritorsivo o che, comunque, determinino effetti sfavorevoli nei confronti dei lavoratori o dei loro rappresentanti che abbiano presentato un reclamo al datore di lavoro o che abbiano promosso un procedimento, anche non giudiziario, al fine di garantire il rispetto dei diritti di cui al presente decreto e di cui al decreto legislativo 26 maggio 1997, n. 152». A tal fine, ferma ogni altra conseguenza prevista dalla legge in tema di invalidità dell’atto, si attribuisce ai lavoratori stessi e ai loro rappresentanti la facoltà di rivolgersi all’Ispettorato Nazionale del Lavoro, il quale dovrà poi, all’occorrenza, comminare la sanzione. Da ultimo, l’art. 14, rubricato «protezione contro il licenziamento o contro il recesso del committente» prevede un esplicito divieto di licenziamento o di altri trattamenti pregiudizievoli per il lavoratore posti in essere quale conseguenza dell’eser­cizio dei diritti di cui allo stesso decreto Trasparenza e al d.lgs. n. [continua ..]


6. Alcune brevi considerazioni conclusive

A voler trarre, da quanto sopra, delle prime considerazioni conclusive, pare possibile ribadire quanto già accennato in ordine alla natura ambivalente della norma. Se, di fatti, è vero che la possibilità di cumulo di attività di cui all’art. 8 del decreto interviene apprezzabilmente a colmare una lacuna legislativa di crescente importanza nella prassi, è altrettanto vero che il legislatore avrebbe potuto essere più oculato nella trasposizione e coordinamento della disciplina europea nell’ordinamento nazionale. Molte e rilevanti sono, come si è visto, le zone d’ombra affidate agli interpretati: dalla scelta di “vietare di vietare” per celare l’introduzione di un diritto, alla definizione delle condizioni legittimanti le restrizioni a tale diritto, alla delimitazione del­l’ambito di applicazione dello stesso. A quanto già osservato, peraltro, non possono che sommarsi ulteriori perplessità con riferimento alla disponibilità del “diritto al cumulo”, da parte dell’autonomia individuale e collettiva. Ed infatti, nell’attuale contesto lavorativo non mancano clausole di contratti, collettivi e individuali, regolamenti e policy aziendali che inibiscono al lavoratore di impiegarsi in altre attività in corso di svolgimento del rapporto di lavoro subordinato. Così, in mancanza di altre fonti, il “divieto di vietare” oggi previsto dalla legge, pone in dubbio la persistente validità di iniziative unilaterali del datore di lavoro, siano esse contenute in regolamenti, policy o linee guida aziendali, anche ove prevedano un corrispettivo economico a fronte della limitazione. È evidente, difatti, come sia quantomeno dubbio che il datore di lavoro possa disporre di un diritto (quello alla cumulabilità delle attività) la cui titolarità spetta ad altri (il lavoratore); come si pone il tema della permanenza di tale diritto a fronte dell’eventuale consenso prestato dallo stesso lavoratore che, si potrebbe porre in contrasto con la norma di cui all’art. 8 del decreto. Più complesso risulta scogliere l’interrogativo con riferimento alle iniziative concordate tra il datore di lavoro e le organizzazioni sindacali, ovvero i singoli lavoratori interessati. Con riferimento alla prima ipotesi, soccorre il considerando n. 38, in cui si legge che «È [continua ..]


NOTE