Massimario di Giurisprudenza del LavoroISSN 0025-4959
G. Giappichelli Editore

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Le cosiddette “piccole imprese”, il monito costituzionale e il cubo di Rubik (di Gabriele Franza, Professore associato di Diritto del lavoro – Università degli Studi di Macerata)


In tema di licenziamenti, l’ultima sentenza della Corte costituzionale impone al legislatore di rivedere la disciplina di tutela applicabile alle piccole imprese. Si tratta di un intervento complesso, forse al limite dell’impossibile, che comunque presuppone una nuova definizione del concetto di piccola impresa e una diversificazione rispetto al solo dato occupazionale. Per rispettare le indicazioni e il ragionamento della Consulta, l’intervento del legislatore non può, in ogni caso, essere circoscritto ad un semplice e generalizzato aumento delle indennità da riconoscere al lavoratore in caso di licenziamento ingiustificato.

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Parole chiave: piccole imprese – licenziamenti illegittimi – tutela costituzionale.

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The so-called “small enterprises”, the constitutional warning and the Rubik’s cube

On the subject of layoffs, the latest Constitutional Court judgement requires the lawmaker to review the protection rules applicable to small enterprises. This is a complex reform, perhaps bordering on the impossible, which in any case presupposes a new definition of the concept of small enterprise and a diversification from the number of employees in the company alone. In order to comply with the indications and reasoning of the Consulta, the intervention of the lawmaker cannot be limited to a simple and generalized increase in the compensation to be granted to the worker in case of unjustified dismissal.

Keywords: Small enterprises – Unlawful dismissals – Constitutional protection.

SOMMARIO:

1. Di cosa parliamo quando parliamo di licenziamento della piccola impresa - 2. Il concetto di “dimensioni dell’impresa” ed il suo utilizzo nel ragionamento della Corte - 3. Gli attuali criteri di selezione delle piccole imprese e le loro ingiustizie - 4. Per un nuovo criterio di selezione. L’indispensabile indagine preventiva e le sue complicazioni - 5. Gli elementi economici e la possibile distinzione per fasce (primum: salvare le micro imprese) - 6. La differenziazione per settori e il ruolo dell’autonomia collettiva - 7. Sistema delle tutele e personalizzazione del danno. Esiste un’alternativa? - 8. Ammettendo che il legislatore voglia davvero impegnarsi nella ricerca di soluzioni costituzionalmente necessitate ma assai complesse, si pone infine la questione, tutt’altro che secondaria, delle tutele da accordare ai dipendenti illegittimamente licenziati dalle piccole imprese. Nel silenzio della Corte, va intanto ricordato che, a differenza della disciplina applicabile ai neo-assunti, quella corrispondente dell’art. 8, legge n. 604/66, prevede ancora un meccanismo incrementale rispetto alla soglia massima delle sei mensilità (benché oggettivamente draconiano, sia per il parametro dell’anzianità di servizio, sia per l’elevato requisito dimensionale dei più di quindici dipendenti, che può operare solo per imprese articolate su più unità ed in comuni diversi), oltre a consentire all’autonomia collettiva l’introduzione di tutele migliorative. Questo regime andrebbe confermato per le micro imprese ed esteso ai neo-assunti, eventualmente elevando la soglia massima e/o riducendo il requisito anagrafico per l’ulteriore incremento di tale soglia, ferma la inevitabile eliminazione di ogni altro requisito occupazionale. Sul versante opposto, con applicazione del regime dell’art. 18, comma 4-7, Stat. lav. o di quello “corrispondente” del Jobs Act, devono essere collocate le imprese medie che, come detto, andrebbero qualificate come quelle che eccedono anche solo uno tra i limiti sopra individuati (numero degli occupati, fatturato e stato patrimoniale, qualora gli ultimi due non si assumano come alternativi). E quindi anche imprese con pochi dipendenti ma, ad esempio, con un elevatissimo fatturato. Lo stesso regime va applicato per le piccole imprese che, pur rispettando tutte le soglie che le distinguono da quelle medie, eccedono il numero dei dipendenti fissato per la prima sotto-fascia (supra, 5), salvo non si tratti di licenziamento riferito ad unità produttive inferiori, realmente autonome e collocate in diverso contesto territoriale. Di conseguenza, al centro di questo sistema di tutele si colloca l’impresa piccola, ma non micro e neppure eccedente il numero di dipendenti previsto per la prima sotto-fascia. Per essa la soglia indennitaria va aumentata nel minimo e nel massimo, ampliando anche la forbice edittale onde consentire la personalizzazione nel danno. Mentre nel diverso caso, sopra riferito, di lavoratori addetti ad unità inferiori e territorialmente distinte, l’indennità massima deve essere ulteriormente elevata, escludendosi solo la tutela reintegratoria. Si deve convenire che una siffatta soluzione, al pari di altre analoghe, non entusiasma, è complicatissima e probabilmente non piacerebbe a nessuno. Esiste un’al­ternativa? Si può affermare che la Corte, parlando di criterio “discretivo” o “distintivo”, intendesse dire altro, o che le sia sfuggita la penna? Certo sarebbe più agevole ricondurre gli elementi di carattere economico tra i criteri di quantificazione dell’indennità, elevando la forbice edittale ad una (imprecisata) soglia di congruità del ristoro ed efficacia dissuasiva. Il problema è che questa soluzione può essere declinata soltanto in due modi. Il primo consiste nel prevedere, all’interno della soglia indennitaria massima, delle fasce di quantificazione, vale a dire delle micro-forbici edittali, collegate al numero degli occupati e ad altri dati economici. Ma questa operazione, oltre che altrettanto complessa, contrasterebbe palesemente con la necessaria personalizzazione del danno, a cui la Consulta si è definitivamente vincolata. La seconda opzione è di imporre al giudice la necessaria valutazione di questi elementi, pur preservando la sua discrezionalità nel “frullatore” della determinazione dell’indennità. Senonché, questa soluzione già esiste, poiché è la stessa Corte a ricordare che i criteri dell’art. 8, legge n. 604/1966 – in cui le “dimensioni dell’im­presa” e le “condizioni delle parti” si affiancano al numero degli occupati [25] – sono “largamente sperimentati nell’esperienza applicativa”. E sempre la Corte aveva affermato, nel dichiarare l’incostituzionalità del meccanismo di predeterminazione del danno del­l’art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23/2015, che tale disposizione di discostava dalle precedenti scelte con cui il legislatore aveva “sempre valorizzato la molteplicità dei fattori che incidono sull’entità del pregiudizio causato dall’ingiustificato licenziamento e conseguentemente sulla misura del risarcimento” [26]. Pertanto per realizzare una tale opzione sarebbe stato più che sufficiente imporre la elevazione della soglia massima indennitaria [27]. Ciò che, però, il giudice delle leggi non ha voluto fare. - NOTE


1. Di cosa parliamo quando parliamo di licenziamento della piccola impresa

La questione delle tutele per i licenziamenti illegittimi applicabili nei confronti delle piccole imprese è riemersa, con tutte le sue implicazioni, a seguito della pronuncia costituzionale del luglio di quest’anno [1]. Si tratta di questione da sempre latente nel dibattito scientifico, spesso rimasta ai margini delle riflessioni onnivore sulla riforma dell’art. 18 Stat. lav. Ed anche dopo l’adozione del Jobs Act per i licenziamenti dei cosiddetti neo-assunti, le regole previste per le piccole imprese sono state discusse soprattutto nel raffronto con la disciplina dell’art. 8, legge n. 604/1966, o per l’estendibilità delle conclusioni della Consulta sull’illegittimo meccanismo di predeterminazione dell’indennità risarcitoria [2]. Eppure nel nostro Paese il numero dei dipendenti delle piccole imprese – cioè tutte quelle prive dei requisiti dimensionali fissati dall’art. 18, comma 8, Stat. lav., richiamato dall’art. 9, comma 1, d.lgs. n. 23/2015 – si aggira sicuramente sul­l’ordine dei milioni, plausibilmente eccedendo quello dei lavoratori autonomi, economicamente dipendenti o meno, su cui insiste da anni l’interesse della dottrina gius-lavoristica e pure quello del legislatore. Al monito della Corte costituzionale, e prima ancora al giudice rimettente, va dunque riconosciuto il merito di avere definitivamente posto il problema all’atten­zione degli interpreti, oltre che nelle mani del decisore politico. Tuttavia il compito che si prospetta appare molto più arduo di una semplice manutenzione delle soglie occupazionali o dei contesti dimensionali di riferimento, attualmente indicati dalla ricordata disposizione statutaria. A voler essere diffidenti, data la veemenza del monito [3], viene il sospetto che la Corte si ponga nei confronti del legislatore come Euristeo verso Ercole, cioè con la convinzione che le fatiche affidate siano impossibili (e riservandosi di annullarle, come appunto accadde all’eroe mitologico). Il fatto è che, sebbene possa darsi per assunto che il tessuto produttivo nazionale sia in buona parte fondato sulle imprese di minori dimensioni, la relativa disciplina dei licenziamenti individuali ha una scarsissima incidenza in termini di “visibilità” politica, come d’altronde confermano le due riforme del decennio in cui la materia, a fronte delle [continua ..]


2. Il concetto di “dimensioni dell’impresa” ed il suo utilizzo nel ragionamento della Corte

Per comprendere cosa la Corte pretende dal legislatore, disattendendo la richiesta di dichiarare illegittimo il regime speciale vigente per le piccole imprese, è necessario osservare che il ragionamento della sentenza si sviluppa sui concetti, muniti di funzione ambivalente, costituiti dal “numero dei lavoratori occupati” e dalle “dimensioni dell’impresa”. La Corte esordisce precisando che questi concetti rilevano quali criteri di determinazione dell’indennità, essendo previsti dall’art. 8, legge n. 604/1966, confermati dalla legge n. 108/1990 e “largamente sperimentati nell’esperienza applicativa”, che in sostanza significa applicati anche in relazione all’art. 9, comma 1, d.lgs. n. 23/2015, cioè la norma rilevante per i neo-assunti e sospettata di incostituzionalità. Si procede ricordando che questi criteri sono essenziali per la indispensabile personalizzazione del danno, predicata nei precedenti della Corte, perché inverano le “esigenze di effettività e di adeguatezza della tutela [e] si impongono anche per i datori di lavoro di più piccole dimensioni”. Sul piano della tecnica decisoria questo è il passaggio fondamentale, perché il numero degli occupati e le dimensioni dell’impresa quali criteri di quantificazione dell’indennità vengono meditatamente collegati allo stesso concetto di sintesi (“piccole dimensioni”), che però assolve la ben diversa funzione di criterio di selezione dell’ambito di applicazione del regime speciale di tutela. Da questo punto in avanti la pronuncia si concentra esclusivamente su questa seconda funzione, attraverso l’immediata constatazione per cui, se in passato le dimensioni che il datore di lavoro conferiva all’organizzazione della sua attività rappresentavano “un dato aderente alla realtà economica di comune esperienza”, l’as­setto delineato dalle riforme è “profondamente mutato”. Infatti “la reintegrazione è stata circoscritta entro ipotesi tassative per tutti i datori di lavoro” e quindi “le dimensioni dell’impresa non assurgono a criterio discretivo tra l’applicazione della più incisiva tutela reale e la concessione del solo ristoro pecuniario”. Nel prosieguo non si rinviene più alcun riferimento al numero dei [continua ..]


3. Gli attuali criteri di selezione delle piccole imprese e le loro ingiustizie

Che il criterio di selezione, confermato dall’attuale versione dell’art. 18, comma 8, Stat. lav., si incentri su parametri desueti, è problema segnalato da tempo. Per la verità, già molto prima della novella del 1990 Federico Mancini osservava come, in relazione al campo di applicazione della tutela dell’art. 18, il disposto del successivo art. 35 fosse ritenuto da tutti “il più infelice dello Statuto” [6]. Non si tratta, dunque, solo del numero degli occupati, come sembra suggerire la sentenza costituzionale, ma anche della sua intersezione con i contesti produttivi e territoriali utilizzati dalla disposizione, che infatti rispondono al più ampio concetto di dimensioni dell’impresa. Quanto ai numeri, è del tutto evidente che un’impresa con due o tre dipendenti, oltre a non essere agevolmente distinguibile dal piccolo imprenditore che organizza l’attività “prevalentemente con il lavoro proprio”, non è comunque lontanamente assimilabile ad un’azienda con sessanta dipendenti distribuiti in diverse unità produttive ed in diversi ambiti comunali. Qui, come noto, la differenza non si limita ai profili economici ed alla complessità dell’organizzazione, ma involge l’esercizio dei poteri datoriali, in quanto codificati sull’idea della struttura gerarchica dell’im­presa industriale [7]. Pertanto occorre onestamente riconoscere che, al di là della generale incongruità della disciplina sanzionatoria, da molto tempo sono trattate allo stesso modo situazioni profondamente diseguali. Come detto, tuttavia, i numeri vanno esaminati anche in relazione agli altri parametri fissati dalla disciplina statutaria. La nozione di unità produttiva, ancora presente in molte disposizioni, pure di fonte collettiva, e tradizionalmente interpretata come articolazione funzionalmente autonoma [8], si piega ai processi di disarticolazione, esternalizzazione e dislocazione, che la legge nazionale non può o non riesce seriamente a contrastare e che, in alcuni casi, addirittura favorisce. Inoltre, rispetto al computo della soglia numerica dei quindici dipendenti, che presuppone delle solide garanzie informative verso i lavoratori non solo nell’ovvia ma distinta prospettiva dell’esercizio dei diritti sindacali, va rilevato che quella stessa nozione si sta smaterializzando, [continua ..]


4. Per un nuovo criterio di selezione. L’indispensabile indagine preventiva e le sue complicazioni

C’è da chiedersi (se e) come il legislatore recepirà le indicazioni della Corte. Se si vuole ipotizzare una seria iniziativa legislativa, è indispensabile che essa sia preceduta da un’analitica indagine, peraltro proprio a partire dai numeri occupazionali. Invero, un riferimento a questo dato sembra comunque imprescindibile, né la sentenza afferma il contrario, poiché avverte il legislatore sull’esigenza che nuovi criteri non si “appiattiscano” su tale elemento. In effetti, per quanto già osservato e in prospettiva di una riforma organica, non è irrilevante stabilire quante imprese si collochino entro la soglia complessiva dei quindici dipendenti, quante molto al di sotto di tale soglia e quante invece, pur sottraendosi all’ambito dell’art. 18, comma 8, Stat. lav., si approssimino alla soglia dei sessanta dipendenti. Questi dati, inoltre, devono essere rapportati ai diversi settori merceologici ed alle caratteristiche delle attività, perché è sicuro che, ai fini qui trattati, non si può più prescindere dai processi di trasformazione in atto da decenni, come ad esempio la terziarizzazione dell’economia, e neppure dalla natura industriale o artigianale delle produzioni, oltre che dal (spesso trasversale) fenomeno cooperativo, peraltro gravato dalla nota tortuosa disciplina sull’estinzione del duplice rapporto [13]. L’indagine presenta alcune complicazioni, che condizionano anche le possibili soluzioni legislative. La prima riguarda i criteri di computo attualmente fissati dal­l’art. 18, comma 9, Stat. lav. e, più in generale, quelli applicati per le tipologie contrattuali non standard, a partire dall’apprendistato che continua ad essere escluso dal computo nonostante un risalente monito della stessa Consulta [14]. I dati finali dovrebbero includere tutti i lavoratori utilizzati, compresi i somministrati e i collaboratori etero-organizzati ex art. 2, comma 2, d.lgs. n. 81/2015, senza distinzione in base al­l’orario di lavoro. La preservazione degli attuali criteri di computo, forse inevitabile per i lavoratori a tempo parziale, a chiamata e a tempo determinato (ma includendo i somministrati a termine, ammesso che la tipologia sopravviva oltre il regime di acausalità, dopo l’ennesimo ripensamento della Cassazione [15]), può essere giustificata da [continua ..]


5. Gli elementi economici e la possibile distinzione per fasce (primum: salvare le micro imprese)

Seguendo le indicazioni della Corte, una rivisitazione delle soglie numeriche deve comunque essere integrata con elementi di carattere economico, anche diversificando in relazione ai contesti produttivi, onde modulare il sistema di tutele e superare l’attuale “limite uniforme e invalicabile di sei mensilità”. In realtà, ogni riferimento a “valori” economici va accolto con cautela, non solo in quanto interferisce con la libertà di impresa, nel mercato competitivo, assai più della libera determinazione datoriale in ordine alle dimensioni dell’organico aziendale (che consente, come noto, di giustificare le soglie legali del collocamento d’ob­bligo), ma anche perché quegli stessi “valori” potrebbero rilevare ai fini del giustificato motivo oggettivo di licenziamento, cioè nel giudizio di legittimità del recesso. Pertanto occorre evitare che dallo stesso dato economico, che già può incidere – con un tipico effetto di duplicazione sul piano del precetto e della tutela – sui criteri di quantificazione dell’indennità in caso di recesso ingiustificato, possa addirittura dipendere la dimensione “economica” dell’impresa e quindi il regime di tutele applicabile [17]. Sul punto occorre assoluta chiarezza. Se la Corte ipotizza il ricorso a “criteri più duttili e complessi” del mero dato numerico degli occupati, l’obiettivo deve essere quello di diversificare nell’ambito delle piccole imprese, anche al fine di graduare in chiave migliorativa le tutele. Pertanto è necessario evitare l’utilizzo di elementi economici, come quelli di rilievo finanziario o derivanti da complicati rapporti, ad esempio tra valore e costi della produzione, che al contrario sarebbero forieri di incertezze maggiori di quelle attuali. Nella ricerca di dati oggettivi soccorrono, peraltro, le indicazioni europee. Infatti, seppur ad altri scopi, a livello sovranazionale da tempo si è provveduto alla determinazione della classe dimensionale delle imprese destinatarie di aiuti pubblici. In particolare, la raccomandazione 2003/361/Ce ha integrato quella stipite del 1996 proprio aggiungendo al limite costituito dal numero dei dipendenti quelli sul fatturato annuo o sul totale dell’attivo dello stato patrimoniale annuo [18]. Qui non interessano le cifre indicate per i [continua ..]


6. La differenziazione per settori e il ruolo dell’autonomia collettiva

Le cifre di ciascun limite possono, inoltre, essere diversificate – ed attualizzate in ragione dell’andamento dei prezzi e della produttività – in relazione ai singoli contesti, quantomeno per macro-settori come già previsto, nello specifico del dato occupazionale, per quello agricolo, e come il legislatore ha mostrato di poter fare anche più dettagliatamente, ad esempio regolando la cassa integrazione guadagni durante le vicende epidemiche. Peraltro molti dati essenziali sono già a disposizione [22]. Invece è difficile pronosticare come l’autonomia collettiva possa contribuire a definire la materia. Il richiamo della Corte all’attenzione da prestare verso la diversità delle realtà economiche indurrebbe ad affidarle un ruolo prioritario. Tuttavia la disciplina dei criteri di selezione delle cosiddette piccole imprese è, in senso tecnico, materia diversa dal regime delle tutele, di cui semmai costituisce il presupposto applicativo. Ed infatti, una cosa è consentire ai contratti collettivi di modificare un trattamento di tutela previsto dalla fonte legale, come già è possibile per l’art. 8, legge n. 604/1966, in forza delle condizioni di miglior favore ammesse dal successivo art. 12, e come permette l’art. 8, d.l. n. 138/2011, conv. legge n. 148/2011, autorizzando gli accordi di prossimità a regolare le “conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro”; altro è consentire all’autonomia collettiva di modificare, a monte, i criteri di selezione, determinando automaticamente l’applicazione di un diverso regime di tutela legale. Il fatto è che l’attuale art. 18, comma 8, Stat. lav., fonda le sue origini sui criteri selettivi di esercizio dei diritti collettivi garantiti dal titolo III del testo statutario, la cui applicazione, anche per le note ragioni promozionali e di sostegno legislativo dell’attività sindacale, era incompatibile con una gestione rimessa agli stessi sindacati, come d’altronde conferma a contrario il rinvio ai contratti collettivi per le sole imprese di navigazione (art. 35, comma 3, Stat. lav.). Quando la novella del 1990 ha trasferito nell’art. 18 la corrispondente disciplina, con le modifiche relative alla soglia complessiva dei sessanta dipendenti, nulla è stato aggiunto circa il ruolo dell’autonomia collettiva, come nulla [continua ..]


7. Sistema delle tutele e personalizzazione del danno. Esiste un’alternativa?

Ammettendo che il legislatore voglia davvero impegnarsi nella ricerca di soluzioni costituzionalmente necessitate ma assai complesse, si pone infine la questione, tutt’altro che secondaria, delle tutele da accordare ai dipendenti illegittimamente licenziati dalle piccole imprese. Nel silenzio della Corte, va intanto ricordato che, a differenza della disciplina applicabile ai neo-assunti, quella corrispondente dell’art. 8, legge n. 604/66, prevede ancora un meccanismo incrementale rispetto alla soglia massima delle sei mensilità (benché oggettivamente draconiano, sia per il parametro dell’anzianità di servizio, sia per l’elevato requisito dimensionale dei più di quindici dipendenti, che può operare solo per imprese articolate su più unità ed in comuni diversi), oltre a consentire all’autonomia collettiva l’introduzione di tutele migliorative. Questo regime andrebbe confermato per le micro imprese ed esteso ai neo-assunti, eventualmente elevando la soglia massima e/o riducendo il requisito anagrafico per l’ulteriore incremento di tale soglia, ferma la inevitabile eliminazione di ogni altro requisito occupazionale. Sul versante opposto, con applicazione del regime dell’art. 18, comma 4-7, Stat. lav. o di quello “corrispondente” del Jobs Act, devono essere collocate le imprese medie che, come detto, andrebbero qualificate come quelle che eccedono anche solo uno tra i limiti sopra individuati (numero degli occupati, fatturato e stato patrimoniale, qualora gli ultimi due non si assumano come alternativi). E quindi anche imprese con pochi dipendenti ma, ad esempio, con un elevatissimo fatturato. Lo stesso regime va applicato per le piccole imprese che, pur rispettando tutte le soglie che le distinguono da quelle medie, eccedono il numero dei dipendenti fissato per la prima sotto-fascia (supra, 5), salvo non si tratti di licenziamento riferito ad unità produttive inferiori, realmente autonome e collocate in diverso contesto territoriale. Di conseguenza, al centro di questo sistema di tutele si colloca l’impresa piccola, ma non micro e neppure eccedente il numero di dipendenti previsto per la prima sotto-fascia. Per essa la soglia indennitaria va aumentata nel minimo e nel massimo, ampliando anche la forbice edittale onde consentire la personalizzazione nel danno. Mentre nel diverso caso, sopra riferito, di lavoratori addetti ad [continua ..]


8. Ammettendo che il legislatore voglia davvero impegnarsi nella ricerca di soluzioni costituzionalmente necessitate ma assai complesse, si pone infine la questione, tutt’altro che secondaria, delle tutele da accordare ai dipendenti illegittimamente licenziati dalle piccole imprese. Nel silenzio della Corte, va intanto ricordato che, a differenza della disciplina applicabile ai neo-assunti, quella corrispondente dell’art. 8, legge n. 604/66, prevede ancora un meccanismo incrementale rispetto alla soglia massima delle sei mensilità (benché oggettivamente draconiano, sia per il parametro dell’anzianità di servizio, sia per l’elevato requisito dimensionale dei più di quindici dipendenti, che può operare solo per imprese articolate su più unità ed in comuni diversi), oltre a consentire all’autonomia collettiva l’introduzione di tutele migliorative. Questo regime andrebbe confermato per le micro imprese ed esteso ai neo-assunti, eventualmente elevando la soglia massima e/o riducendo il requisito anagrafico per l’ulteriore incremento di tale soglia, ferma la inevitabile eliminazione di ogni altro requisito occupazionale. Sul versante opposto, con applicazione del regime dell’art. 18, comma 4-7, Stat. lav. o di quello “corrispondente” del Jobs Act, devono essere collocate le imprese medie che, come detto, andrebbero qualificate come quelle che eccedono anche solo uno tra i limiti sopra individuati (numero degli occupati, fatturato e stato patrimoniale, qualora gli ultimi due non si assumano come alternativi). E quindi anche imprese con pochi dipendenti ma, ad esempio, con un elevatissimo fatturato. Lo stesso regime va applicato per le piccole imprese che, pur rispettando tutte le soglie che le distinguono da quelle medie, eccedono il numero dei dipendenti fissato per la prima sotto-fascia (supra, 5), salvo non si tratti di licenziamento riferito ad unità produttive inferiori, realmente autonome e collocate in diverso contesto territoriale. Di conseguenza, al centro di questo sistema di tutele si colloca l’impresa piccola, ma non micro e neppure eccedente il numero di dipendenti previsto per la prima sotto-fascia. Per essa la soglia indennitaria va aumentata nel minimo e nel massimo, ampliando anche la forbice edittale onde consentire la personalizzazione nel danno. Mentre nel diverso caso, sopra riferito, di lavoratori addetti ad unità inferiori e territorialmente distinte, l’indennità massima deve essere ulteriormente elevata, escludendosi solo la tutela reintegratoria. Si deve convenire che una siffatta soluzione, al pari di altre analoghe, non entusiasma, è complicatissima e probabilmente non piacerebbe a nessuno. Esiste un’al­ternativa? Si può affermare che la Corte, parlando di criterio “discretivo” o “distintivo”, intendesse dire altro, o che le sia sfuggita la penna? Certo sarebbe più agevole ricondurre gli elementi di carattere economico tra i criteri di quantificazione dell’indennità, elevando la forbice edittale ad una (imprecisata) soglia di congruità del ristoro ed efficacia dissuasiva. Il problema è che questa soluzione può essere declinata soltanto in due modi. Il primo consiste nel prevedere, all’interno della soglia indennitaria massima, delle fasce di quantificazione, vale a dire delle micro-forbici edittali, collegate al numero degli occupati e ad altri dati economici. Ma questa operazione, oltre che altrettanto complessa, contrasterebbe palesemente con la necessaria personalizzazione del danno, a cui la Consulta si è definitivamente vincolata. La seconda opzione è di imporre al giudice la necessaria valutazione di questi elementi, pur preservando la sua discrezionalità nel “frullatore” della determinazione dell’indennità. Senonché, questa soluzione già esiste, poiché è la stessa Corte a ricordare che i criteri dell’art. 8, legge n. 604/1966 – in cui le “dimensioni dell’im­presa” e le “condizioni delle parti” si affiancano al numero degli occupati [25] – sono “largamente sperimentati nell’esperienza applicativa”. E sempre la Corte aveva affermato, nel dichiarare l’incostituzionalità del meccanismo di predeterminazione del danno del­l’art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23/2015, che tale disposizione di discostava dalle precedenti scelte con cui il legislatore aveva “sempre valorizzato la molteplicità dei fattori che incidono sull’entità del pregiudizio causato dall’ingiustificato licenziamento e conseguentemente sulla misura del risarcimento” [26]. Pertanto per realizzare una tale opzione sarebbe stato più che sufficiente imporre la elevazione della soglia massima indennitaria [27]. Ciò che, però, il giudice delle leggi non ha voluto fare.

Nel frattempo la Cassazione, inserendosi nei vuoti legislativi, precisa che per le piccole imprese – nonostante il tenore letterale dell’art. 18, comma 8, Stat. lav. – la nullità del licenziamento per superamento del comporto non segue il regime di tutela del diritto comune [28], bensì è attratto, per una sorta di nuova vis expansiva, dal quarto comma dello stesso art. 18 [29], con conclusioni evidentemente estendibili, data la disciplina del comma 7, all’ulteriore ipotesi della disabilità sopravvenuta o aggravata. Tuttavia – non si sa sulla scorta di quale diversa percezione del bene salute – il decreto Jobs Act accorda all’ipotesi di disabilità sopravvenuta o aggravata dei soli neo-assunti la tutela reintegratoria piena (art. 2, comma 4), e allo stesso esito può dirsi scontato che si perverrà, dopo la pronuncia delle Sezioni unite e nonostante il dibattito sulle nullità virtuali, per il superamento del comporto ai sensi dell’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 23/2015 [30]. Qui, pertanto, con immediata applicazione anche ai licenziamenti delle piccole imprese, ai sensi dell’art. 9, comma 1, d.lgs. cit. A parte i manifesti dubbi di costituzionalità, dato che per queste tipologie di licenziamento il tempo non può fluire all’incontrario, non è poi così vero, come afferma la Consulta, che “la reintegrazione è stata circoscritta entro ipotesi tassative per tutti i datori di lavoro”, cioè incluse le piccole imprese. Fermo restando che, se il riferimento fosse solo alle ipotesi tipizzate dall’art. 18, comma 1, Stat. lav., c’è da verificare se questo valga davvero per le discriminazioni, che rilevano oggettivamente travolgendo qualsiasi giustificazione. Di certo non depongono in questo senso i concetti di elencazione esemplificativa e di “lista aperta”, o i tentativi giudiziali di ampliare il raggio di alcuni fattori, arrivando ad includere nelle convinzioni personali la libertà di autodeterminazione negoziale [31]. A tanto si aggiunga che la scelta giudiziale di ricondurre il motivo ritorsivo a quello illecito determinante è contraddetta dalle disposizioni legislative che, in determinati frangenti, lo identificano con quello discriminatorio (art. 4, comma 5, d.lgs. n. 215/2003; art. 4, comma 6, d.lgs. n. 216/2003) o lo accostano a [continua ..]


NOTE