Massimario di Giurisprudenza del LavoroISSN 0025-4959
G. Giappichelli Editore

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La manifesta insussistenza del giustificato motivo oggettivo di licenziamento (di Raffaele Fabozzi, Professore ordinario di Diritto del lavoro – Università degli Studi di Roma “Luiss G. Carli”)


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Corte costituzionale 19 maggio 2022, n. 125 – Pres. Amato-Red. Sciarra

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È costituzionalmente illegittimo l’art. 18, comma 7, secondo periodo, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), come modificato dall’art. 1, comma 42, lettera b), della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), limitatamente alla parola «manifesta».

< 1. Con la sentenza del 19 maggio 2022, n. 125, la Consulta ha dichiarato l’ille­gittimità costituzionale dell’art. 18, comma 7, secondo periodo, limitatamente alla parola “manifesta”, così statuendo che la “insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo” non richiede ulteriori qualificazioni o accertamenti. L’arresto della Corte costituzionale non era affatto inaspettato, ponendosi le motivazioni della sentenza in continuità logico-giuridica con quelle della precedente pronuncia n. 59/2021 [1], con la quale – sempre con statuizione di illegittimità del­l’art. 18, settimo comma, secondo periodo – era stato disposto l’obbligo (e non la mera facoltà) del giudice di reintegrare il lavoratore nell’ipotesi di (manifesta) insussistenza del giustificato motivo oggettivo di licenziamento [2]. Ed infatti, già nella sentenza n. 59/2021, la Corte aveva anticipato che «Per i licenziamenti economici, il legislatore non solo presuppone una evidenza conclamata del vizio, che non è sempre agevole distinguere rispetto a una insussistenza non altrimenti qualificata, ma rende facoltativa la reintegrazione, senza offrire all’inter­prete un chiaro criterio direttivo» (punto 10.1 del Considerato in diritto). Date le premesse, le conclusioni della Corte appaiono condivisibili [3], dal momento che se, per un verso, il giudice non può sindacare le scelte imprenditoriali del datore di lavoro (cfr. anche art. 30, comma 1, legge n. 183/2010), per altro verso, è indubbio che debba verificare la sussistenza del nesso causale tra le predette iniziative imprenditoriali ed i consequenziali provvedimenti (nel caso di specie, il recesso). In tale operazione, precisa la Corte, il riferimento ad una “manifesta” insussistenza appare irragionevole e privo di ancoraggio ad elementi certi e determinati [4], tanto più se relativo ad un fatto materiale [5]. Al di là della considerazione circa l’impossibilità di effettuare una gradazione in ordine ad un fatto oggettivo [6], è emersa chiaramente in questi anni – anche dalle applicazioni giurisprudenziali – l’ambiguità del testo [7], tanto da avere indotto la Corte di Cassazione, al fine di rendere meno evanescente il contenuto della norma, a far ricorso all’istituto della eccessiva onerosità [8], che tuttavia non pone rimedio all’in­deter­minatezza della fattispecie né appare coerente con il disvalore del licenziamento. Le conclusioni della Corte, dunque, se non consentono di dirimere tutti i dubbi interpretativi in ordine alla disposizione (permangono, ad esempio, quelli relativi alle ipotesi residuali per le quali troverebbe applicazione la tutela indennitaria), contribuiscono ad [continua..]