Massimario di Giurisprudenza del LavoroISSN 0025-4959
G. Giappichelli Editore

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Divieto di licenziamento e principi costituzionali (di Giampiero Proia, Professore ordinario di Diritto del lavoro – Università degli Studi “Roma Tre”)


Lo scritto tratta i profili costituzionali del divieto di licenziamento previsto a seguito dell’e­mergenza Covid-19. In particolare, dopo alcuni cenni dedicati alle politiche adottate da altre legislazioni, esamina analogie e differenze tra l’odierno divieto di licenziamento e i precedenti rinvenibili nella legislazione post bellica e nella giurisprudenza costituzionale. Si conclude con l’individuazione di tre specifici punti critici.

Rule against dismissal and constitutional principles

The article analyses the constitutional profiles of the rule against dismissal provided for the Covid-19 emergency. In particular, after some references to the policies adopted by other legislations, the essay examines the analogies and differences between the current rule against dismissal and the precedents found in post-war legislation and in constitutional case law. The article finally identify three specific critical issues.

SOMMARIO:

1. Divieto di licenziamenti, diritti sociali e libertà d’impresa - 2. Il documento ILO del maggio 2020 - 3. Le politiche nazionali - 4. Il divieto di licenziamento da emergenza postbellica - 5. L’imponibile di manodopera in agricoltura - 6. Il divieto di licenziamento da emergenza Covid: dall’introdu­zione alla proroga - 7. I punti critici: divieto di licenziamento e imponibile di manodopera - 8. Segue: la funzione sistemica della previdenza sociale nel “bilanciamento” costituzionale tra diritto al lavoro e libertà d’impresa - 9. Segue: anche il piccolo imprenditore è un “lavoratore” - 10. Postille sul decreto d’agosto: il divieto ha efficacia generale? - 11. Segue: le criticità che derivano dall’eventuale efficacia generale del divieto - NOTE


1. Divieto di licenziamenti, diritti sociali e libertà d’impresa

Nel pieno dell’emergenza scatenata dall’epidemia da Covid-19, esattamente il 17 marzo 2020 (con i media che diffondevano quotidianamente immagini e dati da “bollettino di guerra”, e con il fondato timore di un servizio sanitario nazionale che potesse andare al collasso), l’art. 46 del decreto legge n. 18/2020 ha introdotto un divieto di licenziamenti per ragioni economiche [1], che non ha precedenti nel diritto del lavoro che conoscevamo, se non risalendo proprio alla ultima vera emergenza post bellica. Nell’immediato, pochi, e solo an passant, si sono interrogati sul fondamento costituzionale di tale provvedimento. E di ciò è facile comprendere le ragioni, visto che esso, da un lato, aveva uno stretto carattere di temporaneità (sessanta giorni) legato alla situazione eccezionale del “picco” dell’emergenza sanitaria e del “blocco” quasi totale delle attività produttive, e che, d’altro lato, si inseriva nel quadro di un insieme di misure straordinarie di ordine pubblico che andavano ad incidere anche su diversi altri diritti fondamentali e sulle normali regole di convivenza democratica. È accaduto, poi, che, con l’art. 80, decreto legge 19 maggio 2020, n. 34 [2] (convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2020, n. 77), il divieto di licenziamento è stato prorogato (estendendo la sua durata a cinque mesi) in un contesto sensibilmente differente: il lockdown, infatti, era in via di superamento, le imprese stavano riprendendo la loro attività, e anche la gestione sanitaria del rischio epidemiologico era uscita dalla stretta emergenza. Si sono, così registrate le perplessità da parte delle associazioni imprenditoriali [3] e, nel dibattito politico, anche all’interno della stessa coalizione parlamentare di mag­gioranza. Contemporaneamente, sono apparsi i primi contributi sul tema della compatibilità del provvedimento con i principi della nostra Costituzione. La risposta positiva, in linea generale, è stata puntualmente motivata, sottolinean­do, da un lato, il carattere di temporaneità ed eccezionalità del divieto, e richiaman­do, dall’altro, il valore della “solidarietà” (art. 2), i principi di tutela del lavoro (art. 4, comma 1, e 35, comma 1) e il limite dell’“utilità sociale” posto alla [continua ..]


2. Il documento ILO del maggio 2020

L’epidemia da Covid-19, come tristemente noto, ha avuto, ed ha, una dimensione globale (e, difatti, è presto evoluta in pandemia), così come globale è la crisi eco­nomica e sociale che ne è derivata. In ragione di ciò, nel maggio 2020, l’ILO ha pubblicato “a policy framework for tackling the economic and social impact of the Covid-19 crisis” [6], che è articolata su quattro pilastri riguardanti, rispettivamente gli stimoli dell’economia e dell’oc­cupazione (pillar 1), il sostegno alle imprese, ai lavori e ai profitti (pillar 2), la tutela dei lavoratori nel posto di lavoro (pillar 3) e il dialogo sociale (pillar 4). Muovendo dal presupposto che gli effetti della pandemia hanno messo seriamente a rischio l’attività e i profitti delle imprese, il primo “pillar” indica ai Governi la necessità di attuare anzitutto interventi economici a loro sostegno (tramite un accesso agevolato al credito, sgravi fiscali e contributivi, temporanee sospensioni dei versamenti fiscali e contributivi, ecc.), incoraggiando ed agevolando sia eventuali riconversioni aziendali (ad esempio, nel settore medico, della salute e/o della produzione di dispositivi di protezione individuali) sia il miglior utilizzo possibile delle nuove tecnologie produttive. Un invito specifico è rivolto a prestare particolare attenzione per le piccole e medie imprese che, complessivamente, impiegano il maggior numero di lavoratori e che sono state quelle maggiormente colpite dalla crisi. Ampio ed articolato è il ventaglio di misure previste a favore dei lavoratori: gli investimenti nelle politiche attive del lavoro che, anche tramite la formazione, ne agevoli la ricollocazione soprattutto in quei settori che sono risultati in crescita durante la pandemia; la suddivisione del lavoro tra più risorse e la riduzione dell’ora­rio di lavoro (anche tramite una riduzione della settimana lavorativa), in modo da mantenere più lavoratori possibili alle dipendenze delle aziende, prevedendo misure compensative per il minor guadagno derivante dalla riduzione del lavoro, in particolare per i lavoratori più giovani e/o con i salari più bassi; l’es­tensione delle misure di protezione sociale al maggior numero di destinatari possibili; la promozione del dialogo tra Governo e parti sociali con il coinvolgimento di comitati di [continua ..]


3. Le politiche nazionali

Dall’analisi delle diverse politiche nazionali, si può, però, rilevare che l’introdu­zione di un divieto di licenziamenti non è un unicum dell’esperienza italiana, anche se non può dirsi sia stato l’orientamento prevalente. Risulta, invero, che la maggior parte dei Paesi non ha seguito la strada di riversare sulle imprese, già anch’esse colpite dalla crisi, gli oneri (diretti o indiretti) derivanti da vincoli eccezionali al potere di licenziamento, bensì ha privilegiato l’ado­zione di programmi di sospensione dei rapporti di lavoro o di riduzione dell’orario di lavoro i cui costi sono assunti dalle finanze pubbliche [7]. Così è avvenuto non solo nelle nazioni ove non vi è una cultura del valore della stabilità del posto di lavoro, come Gran Bretagna e Stati Uniti d’America [8], ma anche in quelle che hanno ben radicate tradizioni di legislazione sociale, come la Germania e la Francia. In que­st’ultimo Paese, peraltro, una proposta di legge diretta a vietare i licenziamenti era stata presentata dal Partito Socialista, ma non ha avuto seguito, essendo stato prefe­rito, anche in quel contesto, il ricorso ad uno specifico regime di disoccupazione parziale, finanziato dallo Stato, in cambio dell’impegno del datore di lavoro al mantenimento dell’occupazione. Diversa è, invece, la situazione che emerge dall’esame di altri Paesi che sembrano accomunati da una minore fiducia dei Governi sulla solidità del proprio apparato produttivo (o, forse, sulla responsabilità sociale delle proprie imprese) [9]. In particolare, se si concentra l’indagine sugli Stati del Sud Europa, si registra che limiti al licenziamento sono stati previsti anche in Spagna e in Grecia, ma con meccanismi di collegamento all’intervento finanziario dello Stato che appaiono diversi dal caso italiano. In Spagna, come alternativa meno drastica ai licenziamenti, è stato consentito ai datori di lavoro non solo di imporre una riduzione dell’orario di lavoro, con una proporzionale riduzione dei salari e l’esonero totale dei contributi sociali per tutte le imprese con meno di cinquanta dipendenti (ed una riduzione del 75% per le altre imprese), ma anche una maggiore flessibilità gestionale, per quanto riguarda, ad esempio, mutamenti di mansioni, trasferimenti, modifiche [continua ..]


4. Il divieto di licenziamento da emergenza postbellica

Passando all’esame del divieto di licenziamenti da emergenza postbellica, previsto dal decreto legislativo luogotenenziale del 21 agosto 1945, n. 523, sono evidenti e suggestive le analogie con il divieto di cui oggi discutiamo. Anche il provvedimento del 1945, successivamente più volte prorogato [14], rappresentava la risposta ad un conflitto di dimensioni globali, che aveva prodotto disastri sulle economie nazionali. Anch’esso intendeva salvaguardare l’occupazione impedendo i licenziamenti motivati da ragioni economiche, facendo salvi i casi di “risoluzione del rapporto di lavoro per fatto del lavoratore” (oltreché i casi di licenziamento intimato “ai lavoratori che, senza grave giustificato motivo, rifiutino di accettare altra occupazione che sia loro offerta presso altro datore di lavoro”) (art. 1, d.lgs. n. 523/1945). Anche allora, infine, vi era un collegamento tra il divieto di licenziamento e la predisposizione di una soluzione alternativa che prevedeva la possibilità di sospendere o ridurre l’orario di lavoro dei dipendenti non proficuamente utilizzabili, con oneri prevalentemente a carico degli enti previdenziali (cfr. art. 4, lett. b) e c), e art. 13, comma 2), ma in parte anche delle imprese interessate (art. 4, lett. a), e art. 13, commi 1 e 2). Meritano, però, di essere ricordate alcune peculiarità. Anzitutto, la scarsa fiducia di assicurare il riassorbimento in servizio dei lavoratori sospesi o con orario ridotto, inducevano il legislatore dell’epoca ad assegnare agli uffici provinciali del lavoro il compito di “svolgere l’azione necessaria per assicurare l’impegno anche temporaneo in lavori speciali, opere pubbliche o in altre attività” dei lavoratori in questione (art. 7). Soprattutto, diversamente dal divieto di licenziamenti legato all’emergenza Covid, il divieto da emergenza post bellica non aveva portata generale, in quanto esso riguardava esclusivamente i lavoratori e le imprese “dell’Alta Italia”, e, più precisamente, gli “stabilimenti” e gli “uffici” aventi sede nei territori delle 39 provincie individuate dall’art. 17 del decreto. Non solo: nell’ambito di tali territori, i soggetti interessati dal divieto erano soltanto le imprese industriali “soggette al contratto collettivo 13 giugno 1941”, restando così esclusi tutti [continua ..]


5. L’imponibile di manodopera in agricoltura

Altro lontano precedente da considerare riguarda la vicenda del cd. imponibile della manodopera nell’agricoltura, che fu previsto dal decreto legislativo del Capo Provvisorio dello Stato del 16 settembre 1947, n. 929, modificato con legge 17 maggio 1952, n. 621. Come si ricorderà, al fine di “favorire il massimo impiego possibile di lavoratori agricoli”, il d.lgs. n. 929/1947 delineava un complesso sistema di accertamento amministrativo, in base al quale, nelle aree di maggiore disoccupazione, i Prefetti stabilivano l’obbligo per i conduttori di aziende agricole o boschive di assumere lavoratori disoccupati nel numero che veniva definito dagli stessi decreti prefettizi in relazione al “carico obbligatorio di giornate lavorative per ettaro coltura”. È chiaro che, per come era congegnato, l’intervento del legislatore aveva poco a che vedere con l’odierno divieto di licenziamenti (non essendo, tra l’altro, un provvedimento temporaneo ed avendo un carattere strettamente settoriale), salvo il fatto che anch’esso andava ad incidere sulla libertà dell’impresa di decidere le proprie dimensioni organizzative. Non è inutile, allora, rammentare nel dettaglio le motivazioni che condussero la Corte costituzionale, con la sentenza n. 78/1958, a dichiarare l’illegittimità di quella disciplina, rilevandone il contrasto non solo con i principi costituzionali relativi all’iniziativa economica privata, alla proprietà privata e alla proprietà terriera, ma anche con gli obblighi direttamente posti a carico dello Stato. Con riguardo all’art. 41, l’esordio del ragionamento della Corte è abbastanza scontato, laddove, muovendo dall’esame del comma 1, rileva che “il decreto viene gravemente a interferire e incidere sulla personale iniziativa dell’operatore agricolo”, e in particolare sulla “libera valutazione e conseguente autodeterminazione in ordine a quelli che, a suo giudizio, possono essere gli adeguati elementi per dimensionare l’azienda e provvedere alla sua interna organizzazione” [15]. Posta questa premessa, in sé difficilmente contestabile, la Corte affronta quelli che sono, invece, i punti critici della questione, che ritroviamo anche nel dibattito avviato con riguardo all’odierno divieto di licenziamenti, e che riguardano la possibilità di giustificare la [continua ..]


6. Il divieto di licenziamento da emergenza Covid: dall’introdu­zione alla proroga

Le premesse svolte hanno il solo scopo di mettere a fuoco i profili dell’odierna disciplina del divieto di licenziamento da emergenza Covid, che, a mio avviso, paiono meritevoli di un primo esame in questa sede e, nel caso, di successivi approfondimenti. Come si è accennato, all’inizio, credo si debba distinguere tra il provvedimento che ha introdotto il divieto e quello che lo ha prorogato, creando un precedente che, come pure si è detto, potrebbe dar vita ad una prossima ulteriore estensione della durata del divieto stesso. L’originaria previsione del divieto si collocava, invero, in un contesto di assoluta e innegabile eccezionalità, perché faceva seguito non ad una semplice emergenza sanitaria, bensì ad una emergenza che aveva imposto il fermo di (quasi) tutte le attività produttive e, più in generale, aveva portato a giustificare il temporaneo sacrificio della limitazione, per un periodo oggettivamente breve e delimitato, di una serie di diritti fondamentali. Inoltre, esso si inseriva in un quadro normativo che consentiva di “azzerare” quasi completamente gli oneri diretti derivanti dall’introduzione del divieto stesso; infatti, l’onere economico della conservazione di rapporti di lavoro temporaneamente improduttivi (a causa del blocco delle attività economiche) o ritenuti in esubero dall’imprenditore (a ragione di scelte attinenti una diversa organizzazione aziendale) è stato nella gran parte dei casi assunto dallo Stato attraverso lo specifico intervento di integrazioni salariali, che non comportava alcuna forma di partecipazione contributiva da parte dell’impresa [16]. Per più ragioni, è invece diversa la situazione che si configura con la proroga stabilita dal decreto legge n. 34/2020. Qui, anzitutto, non vi è più quella eccezionalità da “stato di guerra”, perché il lockdown era cessato ed anzi una delle priorità del Governo era quella di far ripartire le attività produttive. In secondo luogo, il prolungamento della durata del divieto (più che raddoppiata) determina un corrispondente incremento della sua concreta incidenza sulla sfera della libertà d’impresa. In terzo luogo, la proroga è stata disposta accentuando il “disallineamento” tra durata del divieto e durata della cassa integrazione interamente finanziata [continua ..]


7. I punti critici: divieto di licenziamento e imponibile di manodopera

È fuor di dubbio che la libertà d’impresa e la tutela del lavoro, essendo diritti potenzialmente in conflitto, richiedano necessariamente un’operazione di “bilanciamento”, che, in concreto, è rimessa alle scelte politiche degli organi legislativi. È anche vero, però, che entrambe le categorie di diritti hanno un “nucleo” duro che non può essere inciso e compresso, pena la negazione del diritto stesso. Com’è noto, dall’art. 4, comma 1, Cost. deriva, anzitutto, il dovere del legislatore di perseguire politiche di massima occupazione. Con riguardo ai rapporti interprivati, deriva anche l’obbligo della necessaria giustificazione del recesso e il diritto del lavoratore ad una tutela adeguata e dissuasiva contro i licenziamenti ingiustificati [18]. E questo è, allo stato, il nucleo incomprimibile dell’art. 4 Cost., anche in com­binato con l’art. 35, comma 1, Cost., alla luce della nostra giurisprudenza costituzionale (cfr., da ultimo, Corte cost. n. 194/2018). Di contro, in base alla citata sentenza n. 78 del 1958, risalente nel tempo ma confortata dalla coerente evoluzione della legislazione ordinaria (che, nel tempo, ha sempre riconosciuto il potere di licenziare per un giustificato motivo oggettivo o per riduzione del personale), il nucleo duro della libertà d’impresa pare essere proprio quello della scelta delle proprie dimensioni organizzative e, a fortiori, della libertà di cessare dall’iniziativa economica intrapresa [19]. Ora, a ben vedere, il divieto di licenziare lavoratori addetti a posizioni soppresse (o che si intenderebbe sopprimere) e di procedere alla riduzione dell’organico aziendale sembra comportare, nella sostanza, un imponibile di mano d’opera, in quanto il datore di lavoro è obbligato a mantenere una dimensione organizzativa non corrispondente a quella “libera valutazione e conseguente autodeterminazione”, che la sentenza costituzionale n. 78 del 1958 ha ritenuto debba essere salvaguardata. E, se è vero che, rispetto a quello previsto nel 1947, il vincolo oggi posto dal legislatore è solo temporaneo, è anche vero che esso, per altri versi, risulta più incisivo. Come già rilevato, infatti, diversamente dalla legislazione postbellica (cfr. il n. 4 che precede), il provvedimento odierno riguarda la [continua ..]


8. Segue: la funzione sistemica della previdenza sociale nel “bilanciamento” costituzionale tra diritto al lavoro e libertà d’impresa

Un secondo ordine di dubbi, che è legato alle considerazioni ora svolte e si integra con esse, deriva dal fatto che il legislatore sembra aver ritenuto che i problemi economici e occupazionali derivanti dalla pandemia da Covid potessero e dovessero necessariamente essere affrontati mediante una (opinabile) operazione di “bilanciamento” tra la tutela del lavoro (da un lato) e la libertà dell’impresa (dall’altro), senza considerare però il nostro sistema costituzionale nel suo insieme e altri principi da esso sanciti, che invece entrano in gioco con un “peso” non trascurabile. Mi riferisco anzitutto, e in particolare, all’art. 38, comma 2, perché se non v’è dubbio che la nostra Costituzione pone determinate obbligazioni sociali direttamente a carico del datore di lavoro, quello della previdenza (e, nominatim, della tutela contro la “disoccupazione involontaria”) è un compito che, invece, fa capo alla intera collettività organizzata nello Stato [21]. Ed allora, ribadito che il diritto al lavoro, di cui all’art 4, implica il dovere dello Stato di adottare politiche rivolte a creare le condizioni per la massima occupazione possibile, ma non incide sulla libertà dell’impresa di recedere dal rapporto di lavoro in presenza di giustificate ragioni economiche o organizzative (libertà riconosciuta anche dalle fonti internazionali), l’odierno divieto di licenziamento rappresenta, nella sostanza, una “scorciatoia” intrapresa dal legislatore per non attivare la tutela dell’art. 38, comma 2, Cost. Né varrebbe obiettare che nel nostro ordinamento la cassa integrazione è già stata spesso utilizzata, come alternativa della tutela contro la disoccupazione, deviando dalla sua funzione propria, per evitare licenziamenti collettivi. Anche quando ciò è avvenuto, infatti, l’intervento della Cassa è stato rimesso ad una scelta del datore di lavoro, che rimane libero di accedervi, ovvero di procedere alla riduzione del personale. Con riguardo, poi, alla specifica disciplina prevista dall’art. 25 della legge n. 675 del 1977, va ricordato che essa si collocava nel quadro di un organico disegno di politica industriale, regolato in via amministrativa, in cui i licenziamenti non erano vietati ma solo sottoposti alla condizione del preventivo svolgimento delle procedure [continua ..]


9. Segue: anche il piccolo imprenditore è un “lavoratore”

Un ultimo ordine di dubbi riguarda in particolare la omessa considerazione del particolare status dei piccoli imprenditori, riconosciuto pure dal Trattato UE [24] e sul quale richiamava l’attenzione dei legislatori nazionali anche il citato documento elaborato dall’ILO. Nell’attività economica della piccola impresa, infatti, è implicato anche il lavoro del titolare e dei suoi familiari, con carattere addirittura di “prevalenza” secondo la definizione codicistica (art 2083), rispetto al lavoro di altri collaboratori e agli altri elementi costitutivi dell’azienda. Anche quello del piccolo imprenditore, quindi, è “lavoro” destinatario dei principi che animano la nostra Costituzione (artt. 1, 3, comma 2, 4, comma 1 e 35, comma 1), restando escluso soltanto dalle disposizioni che riguardano strettamente il rapporto contrattuale di lavoro, e ricompreso invece nella disposizione del comma 2 dell’art. 3 [25]. Anche quest’ultima, infatti, non si riferisce ad un modello storicamente e staticamente predeterminato di lavoro e si rivolge, invece, in modo aperto a tutti coloro che, vivendo del proprio lavoro, si vengono a trovare in condizioni che ostacolano la loro partecipazione alla vita politica, economica e sociale del Paese [26]. Ed allora, la disciplina del divieto di licenziamento, per il carattere di generalità ed uniformità più volte evidenziato, sembra aver operato una operazione di bilanciamento tra gli interessi coinvolti nella quale è totalmente obliterata la indubbia peculiarità della posizione dei piccoli imprenditori e il duplice rilievo che la Costituzione riconosce loro, titolari sì dell’impresa, ma essi stessi espressione di quel “lavoro” al quale è riconosciuto valore fondativo della Repubblica democratica e una speciale tutela. L’indifferenziato divieto di licenziamento da emergenza Covid, in altri termini, non tiene conto del fatto che gli artigiani, i commercianti e tutti gli altri lavoratori autonomi titolari di imprese di piccole dimensioni vivono del loro lavoro. Non tiene conto del fatto che anch’essi sono sottoposti a quel concreto rischio di “impoverimento” derivante dai processi di trasformazione economica da tempo in atto [27]. Non tiene conto del fatto che, nel caso del piccolo imprenditore, il venir meno dei profitti derivanti dalla propria [continua ..]


10. Postille sul decreto d’agosto: il divieto ha efficacia generale?

Mentre gli atti del seminario erano in corso di pubblicazione, il decreto legge 14 agosto 2020, n. 104 ha effettivamente previsto, come era stato anticipato da dichiarazioni pubbliche, una “proroga” (così la rubrica dell’articolo 14) del divieto di licenziamento per ragioni economiche, anche se ne ha modificato sensibilmente la disciplina. Molto si era prima discusso, all’interno della maggioranza di governo, sull’an, sul quomodo e sulla durata della proroga. Il risultato della mediazione politica, che si è rivelata molto complessa, è un dispositivo normativo contorto, al punto tale che non è neppure chiaro se, al di fuori delle tre eccezioni espressamente introdotte [28], il divieto continui ad avere efficacia generale o no. La norma (art 14, comma 1), infatti, prevede che “resta precluso” sia l’avvio delle procedure di licenziamento collettivo sia il recesso per giustificato motivo oggettivo da parte dei datori di lavoro “che non abbiano integralmente fruito” dei trattamenti di integrazione salariale riconducibili all’emergenza da Covid (i quali, ai sensi dell’art. 1 dello stesso decreto, sono riconosciuti per due periodi di nove settimane ciascuno, dando così luogo ad una durata massima di diciotto settimane da collocare tra il 13 luglio e il 31 dicembre 2020) [29] ovvero “non abbiano integralmente fruito” dell’esonero contributivo riconosciuto, “in via eccezionale”, dall’art. 3 dello stesso decreto per un periodo complessivo di quattro mesi (fruibile anch’es­so entro il 31 dicembre 2020). Resta, così, oscura e inespressa l’intenzione del legislatore d’“agosto” in ordine alla sorte di quei datori di lavoro che non abbiano mai fruito e che non intendano iniziare a fruire delle integrazioni salariali a causale Covid, e che, allo stesso tempo, non possano [30] o non intendano fruire (nemmeno in parte) dell’esonero contributivo utilizzabile in alternativa a tali integrazioni. È evidente che la soluzione della questione interpretativa che ne consegue ha una importanza fondamentale ai fini della valutazione dei dubbi che sono stati evidenziati. Escludendo l’efficacia generale, e limitando perciò il divieto di licenziamento ai datori di lavoro che utilizzino le risorse pubbliche destinate al finanziamento delle integrazioni salariali [continua ..]


11. Segue: le criticità che derivano dall’eventuale efficacia generale del divieto

Per completezza, devo, sia pure in sintesi, fare cenno alle ragioni per cui, a mio avviso, se dovesse prevalere la tesi che attribuisce efficacia generale al divieto di cui all’art. 14, i dubbi di costituzionalità evidenziati sarebbero almeno in parte confermati, e per certi versi acuiti. Ed infatti, va dato atto che vi sono due profili della normativa agostana che cercano di dare risposta a quei dubbi, poiché da un lato, il decreto ha provveduto ad assicurare l’allineamento della durata del divieto alla durata delle integrazioni salariali riconosciute per l’emergenza Covid e, d’altro lato, ha introdotto alcune eccezioni all’ambito di applicazione del divieto di licenziamento. Se però prevalesse la tesi secondo cui, salve tali eccezioni, il divieto continui ad avere efficacia generale, ci troveremmo in presenza di un ulteriore prolungamento dei vincoli organizzativi imposti alla libertà d’impresa anche nei confronti di datori di lavoro che non hanno fruito, e non hanno intenzione di fruire, di risorse pubbliche. E tale prolungamento appare sempre meno giustificabile, con il passare del tempo, dall’originaria situazione di eccezionale emergenza, anche perché esso continua a precludere la possibilità di intimare pure quei licenziamenti collegati a motivazioni del tutto estranee all’emergenza sanitaria. Va osservato, inoltre, per precisione di analisi, che l’allineamento tra la durata del divieto e la durata della cassa integrazione da Covid non è stato realizzato in modo da assicurare la “neutralità” degli oneri economici diretti a carico dell’im­presa, poiché l’accesso al secondo periodo di nove settimane di integrazioni salariali comporta il pagamento di un contributo addizionale (differenziato in base ai criteri di cui all’art. 1, comma 2, e con le sole esclusioni di cui al successivo comma 3). Ciò comporta che anche l’impresa che abbia avuto un calo di fatturato (sino al venti per cento) non può attivare la riorganizzazione ritenuta necessaria, se non sostenendo preventivamente il costo diretto del contributo addizionale. L’impresa, poi, che non abbia avuto alcuna riduzione di fatturato, ed abbia necessità di attivare una riorganizzazione legata a fattori del tutto estranei all’emer­genza Covid, è obbligata a “passare” attraverso il regime [continua ..]


NOTE