Massimario di Giurisprudenza del LavoroISSN 0025-4959
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Ancora sul dies a quo della prescrizione dei crediti di lavoro (di Raffaele Fabozzi, Professore ordinario di Diritto del lavoro – Università degli Studi Luiss “Guido Carli” di Roma)


Anche dopo la legge n. 92/2012, che ha differenziato le tutele per il licenziamento illegittimo, il rapporto di lavoro a tempo indeterminato resta stabile: infatti, il licenziamento intimato per motivo illecito ex art. 1345 c.c. (quale è quello ritorsivo, per avere il lavoratore avanzato pretese di natura retributiva) è punito con la reintegrazione, quali che siano le dimensioni dell’azienda, sicché il lavoratore è in grado di sapere ex ante che sarà reintegrato. Dunque, non vi è ragione che il termine di prescrizione dei crediti retributivi inizi a decorrere dalla cessazione del rapporto di lavoro.

Trib. civ. Bari, Sez. lav., 6 settembre 2023, n. 2179 – Rel. Tedesco

SOMMARIO:

1. Premessa - 2. L’evoluzione giurisprudenziale in materia di dies a quo della prescrizione dei crediti di lavoro - 3. La sentenza del Trib. Bari, Sez. lav., n. 2179/2023 - 4. Considerazioni conclusive - NOTE


1. Premessa

La sentenza in commento affronta la questione della decorrenza della prescrizione dei crediti da lavoro alla luce delle modifiche normative e degli orientamenti giurisprudenziali che si sono susseguiti nel tempo [1]. Com’è noto, la tematica dei termini di prescrizione dei crediti in ambito giuslavoristico è stata assai dibattuta a partire dagli anni ’60 del secolo scorso. L’origine del thema è da rinvenire nel principio generale espresso dall’art. 2935 c.c., secondo cui “La prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere”, che – letto in combinato disposto con il principio di inapplicabilità delle cause di sospensione, di cui agli artt. 2941 e 2942 c.c. – ha dato origine alla regula iuris, al tempo applicata, per cui i diritti dei lavoratori si prescrivevano anche durante il rapporto di lavoro [2]. Tale originaria impostazione è stata profondamente rivisitata per effetto del susseguirsi di alcune pronunce giurisprudenziali degli anni ’60 e ’70 [3]. In particolare, la Corte costituzionale e, successivamente, la Corte di Cassazione hanno ritenuto che, sulla base delle previsioni di legge al tempo vigenti, il metus del lavoratore – consistente in quella condizione di soggezione psicologica del lavoratore nei confronti del proprio datore – di fatto impediva l’esercizio di un diritto (di natura retributiva) nel corso del rapporto di lavoro, ragion per cui la prescrizione avrebbe dovuto cominciare a decorrere dal termine del rapporto stesso (laddove non assistito dalla stabilità). Viceversa, per i rapporti assistiti dalla stabilità (vale a dire, per l’impiego privato, quelli sottoposti alla disciplina dell’art. 18, legge n. 300/1970) la decorrenza della prescrizione si sarebbe verificata già in corso di rapporto. Il suddetto orientamento è rimasto immutato per ben quasi mezzo secolo, fino a quando la Corte di Cassazione, sezione lavoro, con sentenza n. 26246 del 6 settembre 2022 [4], ha rivisitato nuovamente il meccanismo di individuazione del dies a quo della prescrizione, prospettandone la decorrenza (per i crediti retributivi) sempre al termine del rapporto di lavoro, in ragione della asserita assenza di stabilità dei rapporti (per effetto delle modifiche apportate alla disciplina dei licenziamenti dalle riforme degli anni [continua ..]


2. L’evoluzione giurisprudenziale in materia di dies a quo della prescrizione dei crediti di lavoro

Come accennato in premessa, il punto di partenza del dibattito è da rinvenirsi nella sentenza della Corte costituzionale del 10 giugno 1966, n. 63, con la quale il Giudice delle leggi dichiarava la «illegittimità costituzionale degli artt. 2948 n. 4, 2955, n. 2, e 2956, n. 1, del Codice civile limitatamente alla parte in cui consentono che la prescrizione del diritto alla retribuzione decorra durante il rapporto di lavoro» per effetto della presenza di «ostacoli materiali, cioè la situazione psicologica del lavoratore (ndr. c.d. metus) che può essere indotto a non esercitare il proprio diritto per lo stesso motivo per cui molte volte è portato a rinunciarvi, cioè per timore del licenziamento» [6]. Con tale pronuncia, la Corte costituzionale aveva dato avvio a quello che è stato definito un “passaggio epocale” [7], che ha aperto la stagione delle grandi conquiste di civiltà giuridica nell’ambito del diritto del lavoro, ponendo un freno alla compressione dei diritti dei lavoratori fino a quel momento registrata (per effetto della soggezione psicologica nei confronti del datore di lavoro). Lo scenario di riferimento mutava, però, con l’entrata in vigore della legge n. 300/1970, la cui ampia portata ha significativamente inciso sul diritto del lavoro, impattando – per quanto qui più strettamente attiene – sul contesto nel quale era stata resa la sentenza appena richiamata. Più in particolare, l’entrata in vigore dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori ha reso necessario (riprendendo le parole della Corte) «il quesito se per effetto di tali innovazioni legislative non sia venuto meno, per i rapporti regolati dalle norme ricordate, il fondamento giuridico su cui poggiava la parziale invalidazione statuita con la sentenza n. 63 del 1966» [8]. In buona sostanza, l’affermarsi di un nuovo e più incisivo apparato protettivo contro i licenziamenti illegittimi ha reso doveroso interrogarsi circa la reale sopravvivenza di quel metus che la Corte costituzionale aveva posto a fondamento della propria decisione del 1966. La querelle è stata risolta dall’arresto a Sezioni Unite della Corte di Cassazione che, sulla scorta dei principi affermati dalla Corte costituzionale nelle sentenze nn. 143/1969 e 174/1972, ha espresso il principio di diritto per cui [continua ..]


3. La sentenza del Trib. Bari, Sez. lav., n. 2179/2023

La sentenza del Tribunale di Bari si pone in contrapposizione all’orientamento della Corte di Cassazione. Nel caso de quo, la vicenda nasce dal ricorso azionato da un lavoratore assunto alle dipendenze di una società di trasporti, che agiva in giudizio al fine di rivendicare alcune differenze retributive asseritamente maturate e non prescritte. Costituitosi in giudizio, il datore di lavoro sosteneva che il decorso della prescrizione fosse iniziato in costanza di rapporto e che, pertanto, i diritti vantati fossero ormai estinti. Il Tribunale di Bari, nel decidere la questione, è pervenuto alla conclusione opposta a quella affermata dalla Corte di legittimità, sulla base di una serie di considerazioni inerenti la sussistenza della stabilità reale dei rapporti di lavoro anche dopo la c.d. riforma Fornero. Invero, secondo l’iter argomentativo seguito dal giudice di merito, la legge n. 92/2012, nel riformulare le tutele – in un’ottica di differenziazione – ha delineato una disciplina ad hoc proprio per i casi di licenziamento determinati da motivo illecito ex art. 1345 c.c., riconoscendo al lavoratore (a prescindere dalle dimensioni dell’impresa) sia il diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro, che quello al pagamento dell’indennità risarcitoria, senza neppure la limitazione dell’aliunde percipiendum. Ritiene il giudice, dunque, come tale modifica normativa abbia comportato la conservazione, rectius rafforzamento, del presupposto di stabilità del rapporto di lavoro rilevante ai fini dell’individuazione della decorrenza del termine di prescrizione dei crediti di lavoro; ed è proprio in tale passaggio che si rinviene la rilevanza della pronuncia de qua, posto che lo stesso consente di ipotizzare un’inversione di rotta rispetto alla strada intrapresa dalla Suprema Corte. In particolare, nella pronuncia in commento, l’estensore analizza il quadro normativo (e giurisprudenziale) di riferimento della fattispecie in esame, rappresentando la sussistenza di fondati dubbi di legittimità costituzionale della disciplina de qua, ed in particolare degli artt. 2948, n. 4, 2955, n. 2, e 2956, n. 1, c.c., nella parte in cui tali norme non consentono che il termine di prescrizione dei crediti di lavoro decorra già in costanza di rapporto, anche laddove nelle fattispecie concrete il rapporto di lavoro sia caratterizzato da stabilità [continua ..]


4. Considerazioni conclusive

Non vi è dubbio che la sentenza in commento assume notevole rilevanza, soprattutto laddove la stessa non dovesse rimanere isolata. Partendo dall’assunto per cui la disciplina del licenziamento, affidata alla legge n. 604/1966 (e poi alla legge n. 300/1970), aveva attribuito esclusivamente rilievo alla sussistenza (o meno) della giusta causa o del giustificato motivo (rendendo di conseguenza inevitabile che la stabilità fosse negata per i rapporti attratti nell’alveo della tutela obbligatoria), il Tribunale di Bari ha rilevato come la legge n. 92/2012 ha invece «enucleato una specifica disciplina per i casi di licenziamento determinato da motivo illecito ex art. 1345 c.c., riconoscendo al lavoratore, per tali frangenti, qualunque siano le dimensioni dell’impresa, sia il diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro, sia il pagamento dell’indennità risarcitoria (dalla data del licenziamento sino a quella di effettiva reintegrazione), senza neppure la limitazione dell’aliunde percipiendum», con la conseguenza che tutti i rapporti lavorativi alle dipendenze di datori di lavoro muniti del requisito dimensionale ex art. 18, comma 8, legge n. 300/1970, godono del requisito di stabilità. In base a tale considerazione non appare ragionevole escludere – per i rapporti sottoposti all’art. 18, legge n. 300/1970 – la decorrenza della prescrizione (dei crediti retributivi) in costanza di rapporto, non potendo ravvisarsi una relazione diretta tra l’inerzia del lavoratore e il timore del licenziamento per rappresaglia, per avere egli azionato delle pretese retributive, tanto più se si considera che la stabilità del rapporto è conosciuta (e conoscibile da ciascun lavoratore) sin dall’inizio del rapporto stesso [15]. In definitiva, da un lato, emerge l’attualità del ragionamento del Tribunale di Bari, specialmente in ragione della progressiva estensione dell’ambito di applicazione della reintegrazione, anche a seguito delle recenti pronunce della Corte costituzionale [16]- [17] che hanno, di fatto, fortemente ridimensionato il perimetro di applicazione della tutela indennitaria; dall’altro è marcata la sensazione che la questione sia tutt’altro che definita, essendo ipotizzabile – in assenza di un provvedimento legislativo in materia – che si debba attendere il pronunciamento delle [continua ..]


NOTE
Fascicolo 4 - 2023