Massimario di Giurisprudenza del LavoroISSN 0025-4959
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Falsa attestazione della presenza in servizio e danno all´immagine della pubblica amministrazione: i rischi della superfetazione legislativa (di Francesca Chietera, Avvocata giuslavorista e Presidente del Centro Studi di Diritto del lavoro “Domenico Napoletano” – Sezione Lucana)


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Corte Costituzionale 10 aprile 2020, n. 61

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Falsa attestazione della presenza in servizio e danno all’immagine della pubblica amministrazione ex art. 55 quater d.lgs. n. 165/2001, comma 3 quater, inserito dall’art. 1, comma 1, lett. b), del d.lgs. 20 giugno 2016, n. 116 – violazione dell’art. 76 Cost. – Illegittimità costituzionale.

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È costituzionalmente illegittimo il secondo, terzo e quarto periodo del comma 3-quater dell’art. 55 quater del d.lgs. n. 165/2001, come introdotto dall’art. 1, com­ma 1, lett. b), del d.lgs. n. 116/2016.

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SOMMARIO:

1. La legislazione in tema di danno all’immagine della pubblica amministrazione e l’inadeguata visione sistemica del problema - 2. La questione sottoposta alla Corte - 3. La tecnica legislativa “additiva” in materia di licenziamento disciplinare dalla riforma Brunetta alla riforma Madia - 4. Una riflessione conclusiva - NOTE


1. La legislazione in tema di danno all’immagine della pubblica amministrazione e l’inadeguata visione sistemica del problema

Il danno all’immagine della pubblica amministrazione costituisce una particolare categoria del danno erariale che trova copertura costituzionale negli artt. 2 e 97 Cost. e si realizza quando la pubblica amministrazione, all’esito della condotta illecita dei suoi dipendenti, perde credibilità ed affidabilità all’esterno, ingenerando la convinzione che “i comportamenti patologici posti in essere dai propri lavoratori siano un connotato usuale dell’azione dell’amministrazione” [1], con conseguente incrinazione del senso di appartenenza alle istituzioni della collettività [2]. Di origine pretoria, il danno all’immagine della pubblica amministrazione ha trovato una prima disciplina nell’art. 17, comma 30 ter, del decreto legge 1 luglio 2009, n. 78 [3], convertito, con modificazioni, nella legge 3 agosto 2009 n. 102 [4], secondo il quale le procure della Corte dei Conti potevano esercitare l’azione per il risarcimento del danno all’immagine “nei soli casi e nei modi previsti dall’art. 7, della legge 27 marzo 2001, n. 97”, ovverossia nelle ipotesi di condanna irrevocabile pronunciata nei confronti dei dipendenti di amministrazioni o di enti pubblici ovvero di enti a prevalente partecipazione pubblica, per i delitti contro la pubblica amministrazione previsti negli artt. da 314 a 335 bis c.p. Tale originario nucleo di disciplina ha subito una profonda, quanto contorta, trasformazione all’esito dell’entrata in vigore del codice della giustizia contabile. Ed infatti, l’art. 51, comma 7, d.lgs. 26 agosto 2016, n. 174, ha abrogato l’art. 7 della legge n. 97/2001, che come innanzi detto limitava l’azione del PM contabile ad un circoscritto numero di reati, prevedendo senza alcun richiamo a specifici reati che la sentenza irrevocabile di condanna è comunicata al competente procuratore regionale della Corte dei Conti, per l’eventuale avvio del procedimento di responsabilità per danno erariale nei confronti del condannato [5]. All’esito di tale intervento normativo, si è posto quindi il problema di verificare se, fermo restando il presupposto della condanna in sede penale con sentenza irrevocabile, il danno all’immagine della pubblica amministrazione potesse essere perseguito dalla magistratura contabile in presenza di qualsivoglia tipo di reato commesso in danno della [continua ..]


2. La questione sottoposta alla Corte

Con sentenza non definitiva e ordinanza del 9 ottobre 2018 la Corte dei conti, Sez. Umbria, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 55 quater, comma 3 quater, ultimo periodo, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, inserito dall’art. 1, comma 1, lett. b), d.lgs. 20 giugno 2016, n. 116, in riferimento all’art. 76 della Costituzione, nonché all’art. 3 Cost., anche in combinazione con gli artt. 23 e 117, comma 1, Cost. in relazione all’art. 6 CEDU e all’art. 4 del Protocollo n. 7 di detta Convenzione, fatto a Strasburgo il 22 novembre 1984, e reso esecutivo con legge 9 aprile 1990, n. 98. La questione riguardava una pubblica dipendente che aveva falsamente attestato la propria presenza in servizio in quattro giornate, anticipando l’uscita di un’ora rispetto all’orario dichiarato e successivamente accertato mediante strumenti di sorveglianza e registrazione. Con riferimento a detta falsa attestazione, la Procura regionale aveva contestato alla dipendente un danno patrimoniale pari a 64,81 euro, derivante dalla indebita percezione della retribuzione nei periodi per i quali era mancata la prestazione lavorativa, chiedendola condanna della stessa al pagamento del danno all’immagine dell’amministrazione di appartenenza, da determinarsi in via equitativa, per un importo ritenuto congruo pari a 20.000,00 euro, ai sensi dell’art. 55 quater, comma 3 quater, d.lgs n. 165/2001. Il Collegio, con sentenza non definitiva, riteneva fondata l’azione risarcitoria con riferimento alla percezione indebita della retribuzione in mancanza di prestazione lavorativa e, limitatamente all’an debeatur, riteneva tenuta l’incolpata a risarcire il pregiudizio arrecato all’immagine della pubblica amministrazione di appartenenza. Condannata al pagamento del danno patrimoniale, pari alle retribuzioni indebitamente percepite in assenza di prestazione lavorativa, il Collegio, ritenuti sussistenti nella fattispecie tutti gli elementi oggettivi e soggettivi della posta risarcitoria relativa al danno all’immagine della pubblica amministrazione, in quanto la vicenda aveva avuto risonanza sulla stampa locale, osservava tuttavia che la quantificazione di tale posta di danno, come introdotta dalla riforma del 2016, renderebbe sospetta di costituzionalità la disposizione: a) in relazione all’art. 76 Cost. posto che la norma scrutinata è stata [continua ..]


3. La tecnica legislativa “additiva” in materia di licenziamento disciplinare dalla riforma Brunetta alla riforma Madia

L’incedere bulimico del legislatore in materia di danno all’immagine della pubblica amministrazione è andato di pari passo – e con analoga tendenza “torsionistica” – alla disciplina del licenziamento disciplinare del dipendente pubblico. Come è noto, con la riforma Brunetta il legislatore delegato – sovvertendo il previgente sistema delle fonti in materia di responsabilità disciplinare del dipendente pubblico ed assegnando alla fonte contrattuale una funzione residuale – ha previsto che, ferma la disciplina in tema di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo e salve ulteriori ipotesi previste dal contratto collettivo, si applica “comunque” la sanzione disciplinare del licenziamento in determinati casi, evidentemente ritenuti di massima riprovazione sociale. Tale intervento, sorretto da evidenti finalità propagandistiche, ha prodotto una “tendenziale oggettivizzazione delle responsabilità” [15] disciplinari del pubblico dipendente, generando perplessità di vario ordine. In primo luogo, si è censurata l’esasperata tipizzazione dei comportamenti disciplinarmente rilevanti e ritenuti idonei a risolvere il rapporto di lavoro del dipendente pubblico in un sistema caratterizzato dalla presenza di norme elastiche in tema di giusta causa e giustificato motivo soggettivo, che in quanto tali consentono di collegare la sanzione espulsiva alla gravità dell’inadempimento posto in essere ed alla conseguente lesione del vincolo fiduciario. Peraltro, la mutevolezza ed imprevedibilità dell’agere umano induce a ritenere che sia impossibile individuare in via preventiva ed astratta tutti i comportamenti disciplinarmente rilevanti ritenuti idonei a risolvere il rapporto di lavoro e tale assunto è dimostrato dal fatto che, paradossalmente, anche alcune ipotesi tipizzate di licenziamento “automatico” introdotte dalla riforma Madia scontano un “deficit di tassatività” [16] per la loro generica formulazione. In ogni caso, le “strette legislative” sul tema del Governo Renzi non hanno condotto ai risultati sperati [17]; ragione per la quale da ultimo si è ritenuto di risolvere il problema “a monte”, mediante l’introduzione di sistemi di rilevazione che escludano in radice comportamenti di falsa attestazione della presenza, [continua ..]


4. Una riflessione conclusiva

Proprio su detta nuova ipotesi potrebbero residuare dubbi di costituzionalità in relazione all’art. 76 Cost. A differenza di quanto avvenuto con la riforma Brunetta, in cui la legge delega espressamente facultava il legislatore delegato a modificare la disciplina delle sanzioni disciplinari e della responsabilità dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche al fine di potenziare il livello di efficienza degli uffici pubblici, contrastando i fenomeni di scarsa produttività e di assenteismo [27], con la riforma Madia il legislatore delegante si è limitato a facultare il Governo ad adottare disposizioni finalizzate ad “accelerare e rendere concreto e certo nei tempi di espletamento e di conclusione l’esercizio dell’azione disciplinare” [28], non autorizzando, pertanto, l’introdu­zione di nuove ipotesi di licenziamento disciplinare [29]. Ed infatti, i criteri direttivi sub art. 16, legge n. 124/2015, espressamente circoscrivono la delega ad un’attività di restyling del materiale normativo già esistente, con espresse finalità di riordino della disciplina e con autorizzazione ad apportare “le modifiche strettamente necessarie per garantire la coerenza giuridica, logica e sistematica della normativa e per adeguare, aggiornare e semplificare il linguaggio normativo”. Se questo è il perimetro della delega, è ben sostenibile che contrasti con l’art. 76 Cost., l’art. 55 quater, comma 1, lett. f-quater) [30], che introduce una nuova ipotesi di licenziamento disciplinare correlata alla reiterata violazione di obblighi concernenti la prestazione lavorativa, che abbia determinato l’applicazione, in sede disciplinare, della sospensione dal servizio per un periodo complessivo superiore a un anno nell’arco di un biennio. Per quanto si escluda che le funzioni del legislatore delegato “siano limitate ad una mera scansione linguistica delle previsioni dettate dal delegante” [31], l’espresso riferimento ad un riordino della disciplina affidato al legislatore delegante, come peraltro confermato dalla sentenza in commento [32], rinvia ad un’attività di mera sistematizzazione di disposizioni normative già esistenti e non di creazione di nuove ipotesi di licenziamento disciplinare, posto che l’uso del potere normativo del Governo, in quanto [continua ..]


NOTE