Massimario di Giurisprudenza del LavoroISSN 0025-4959
G. Giappichelli Editore

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Il “blocco” dei licenziamenti: profili storici e sistematici (di Alessandro Garilli. Professore emerito di Diritto del lavoro – Università degli Studi di Palermo.)


Il saggio analizza le recenti disposizioni di legge che hanno introdotto il blocco temporaneo dei licenziamenti economici come misura congiunturale per fronteggiare l’emergenza pandemica. Nella prima parte l’articolo ricostruisce le analoghe misure vigenti in Italia nell’immediato dopoguerra; nella seconda sostiene come il blocco sia conforme al principio di ragionevolezza, in quanto tutela il diritto fondamentale al lavoro senza compromettere totalmente la libera iniziativa economica privata, in quanto accompagnato da misure di vario genere a favore delle imprese (sgravi fiscali, sospensione di pagamenti …).

The “block” of dismissals: historical and systematic profiles

The essay analyses the recent legislative measures introducing the block of economic dismissals to temporarily face the economic crisis generated by the pandemia. In the first part the work describes the similar measures in force in Italy in the aftermath of the second world war; in the second section it argues that the block is reasonable according to the constitutional principles: in fact, legislation grants protection to the right to work without cancelling the freedom of enterprise at all, as in the meanwhile it introduces several benefits on behalf of companies (tax relief, suspension of payments).

SOMMARIO:

1. Il quadro normativo - 2. Pandemia e crisi economico-occupazionale: cenni sulle prospettive di riforma del diritto del lavoro - 3. Il “blocco” nei provvedimenti del dopoguerra (1945-1947) - 4. Questioni di costituzionalità: a) diritto al lavoro, solidarietà e libertà d’impresa - 5. Segue: b) le disposizioni retroattive - 6. I nodi interpretativi dell’art. 46: campo di applicazione ed esclusioni - 7. La sospensione delle procedure anteriori all’entrata in vigore della norma - 8. Il “blocco” e la selezione delle ipotesi di giustificato motivo oggettivo - 9. Il regime sanzionatorio - 10. La partecipazione sindacale alla gestione dei livelli occupazionali - NOTE


1. Il quadro normativo

L’art. 46 del decreto legge 17 marzo 2020, n. 18 (conv. nella legge 24 aprile 2020, n. 27) – icasticamente chiamato «cura Italia» – ha introdotto per un periodo limitato quello che nel linguaggio dei media – e poi degli stessi giuristi – è stato definito blocco dei licenziamenti [1]. Si tratta di una misura che «preclude» le procedure di licenziamento collettivo a decorrere dall’entrata in vigore del provvedimento legislativo e dispone la «sospensione» di quelle avviate successivamente al 23 febbraio 2020 – cioè in coincidenza con l’entrata in vigore del decreto legge 23 febbraio 2020, n. 9, recante «misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19 [2] – ad eccezione del caso di successio­ne di appalti in cui il personale venga riassunto dall’appaltatore subentrante. Inoltre, il divieto è esteso ai licenziamenti per «giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3, della legge 15 luglio 1966, n. 604». Originariamente previsto per 60 giorni, il blocco è stato è stato esteso a un periodo complessivo di cinque mesi dall’art. 80 del decreto legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito nella legge 14 luglio 2020, n. 33 – intitolato «decreto rilancio» – il quale in tal senso ha modificato il testo dell’art. 46, ed ha inoltre introdotto altre due modifiche: la sospensione delle procedure di licenziamento per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 7, legge n. 604/1966 in corso alla data del 23 febbraio 2020; la possibilità per il datore di lavoro di revocare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato nel periodo dal 23 febbraio al 17 marzo 2020 – qualora la procedura non sia stata attivata – in deroga al termine indicato dall’art. 18, comma 10, Stat. lav., «purché contestualmente» venga fatta richiesta del trattamento di cig «a partire dalla data in cui ha efficacia il licenziamento». In sede di conversione del decreto rilancio è stato poi aggiunto che fino al 17 agosto 2020 – cioè fino alla data di scadenza del blocco – la procedura sindacale prevista per i trasferimenti d’azienda o di un suo ramo ai sensi del comma 2, art. 47, legge n. 428/1990, «nel caso in cui non sia stato raggiunto [continua ..]


2. Pandemia e crisi economico-occupazionale: cenni sulle prospettive di riforma del diritto del lavoro

È unanimemente riconosciuto e formalmente richiamato in tutti i documenti internazionali, dell’Unione europea e dell’Italia che la pandemia che sta colpendo duramente l’intero pianeta rappresenti un’emergenza sociale, i cui effetti sono stati paragonati ad una guerra [3] e i cui sviluppi sul piano economico-sociale dipendono soprattutto dall’evolversi della situazione sanitaria. Da qui la messa in campo da parte dei singoli Stati e dell’Unione di una serie di misure pluridirezionali, che accompagnano i mutamenti di scenario e che richiedono cospicue risorse finanziarie per sostenere le imprese e attenuare l’impatto negativo sulle famiglie e sul fronte occupazionale e del reddito dei lavoratori, autonomi e subordinati. Per questi ultimi il governo italiano ha agito facendo leva, da un canto, sull’istituto della cig, attraverso la specifica causale «covid 19» e l’estensione generalizzata della cassa in deroga, dal­l’altro, e correlativamente, dettando «disposizioni in materia di licenziamenti collettivi e individuali per giustificato motivo oggettivo» [4]. E mentre l’utilizzo del primo istituto è stato generalmente condiviso da imprese e lavoratori in quanto offre uno scudo economico per entrambi (sia pure da parte di alcuni mettendone in evidenza i limiti strutturali e gestionali che lo rendono non adeguato a fronteggiare una situazione eccezionale), non così l’intervento in materia di licenziamenti economici: bloccandone il legittimo ricorso per un determinato periodo esso infatti è stato percepito dalle associazioni datoriali come un pericoloso precedente che contraddice la linea neoliberista degli ultimi anni in materia di licenziamenti e che mina la libertà d’impresa. Tralasciando per il momento la critica – su cui si dirà in seguito – resta il fatto che tutti gli impegni del governo per alleviare le difficoltà in cui versa il tessuto produttivo e l’intero sistema economico nazionale, e che accompagnano la tutela degli strati deboli della popolazione, costituiscono la presa d’atto dell’imprescindi­bile ruolo cui è chiamato lo stato regolatore nella gestione della fase dell’emergenza e in quella successiva, che comunque avrà effetti di lunga durata. Si prospettano dunque significativi cambiamenti di scenario destinati ad incidere [continua ..]


3. Il “blocco” nei provvedimenti del dopoguerra (1945-1947)

L’accostamento della pandemia alla guerra quanto agli effetti nel tessuto produttivo è particolarmente calzante con riguardo al provvedimento in materia di licenziamenti. Questo, è stato ricordato da tutti i commentatori della disposizione, trova un remoto e calzante precedente in una serie di decreti – preceduti da un’ordinan­za [12] – che vennero emanati a far data dall’agosto 1945 e fino ai primi anni del 1947, e che quindi si dipanarono lungo le tormentate vicende politico-istituzionali che contrassegnarono l’immediato dopoguerra [13]. La linea politica in cui maturò la scelta di vietare i licenziamenti dei lavoratori a tempo indeterminato assunti prima del 25 aprile 1945 dalle imprese operanti nell’Alta Italia intendeva fronteggiare la grave situazione eccezionale del comparto industriale in fase di necessaria riconversione. Una linea chiaramente interventista e di sostegno al lavoro operaio, che si inquadrava nella politica dei governi di unità nazionale sostenuto da tutti i partiti antifascisti [14]. Questi provvedimenti furono accolti (anche allora) con ostilità dagli industriali, i quali sostennero che frenavano nuove assunzioni, e quindi ostacolavano la ripresa economica [15]. Il cambiamento del quadro politico (emerso già nel novembre 1945 quando liberali e democristiani tolsero la fiducia al governo Parri, ma definitivamente stabilizzatosi nel giugno 1947 con la formazione del IV governo De Gasperi nella cui compagine erano assenti i partiti comunista e socialista) rese sempre più incompatibile quel divieto con i principi liberisti e antistatalisti che si andavano affermando, e contrario all’economia di mercato in fase di consolidamento (sotto la spinta del Piano Marshall poi concretamente avviato nella primavera del 1948). Tant’è che negli ultimi decreti si cercarono soluzioni diverse, attraverso forme di intervento che vedessero il coinvolgimento delle parti sociali assieme al governo. Richiamare l’ambito di applicazione e le modalità tecniche introdotte con i decreti consente di trarre alcune considerazioni generali che, pur nelle diversità di contesto, possono essere estese alla vicenda in corso [16]. In primo luogo, erano esclusi dalla tutela i «licenziamenti per fatto del lavoratore» (previsti dalla legge e dalla contrattazione collettiva), i lavoratori che non [continua ..]


4. Questioni di costituzionalità: a) diritto al lavoro, solidarietà e libertà d’impresa

L’esame dettagliato della vigente disciplina deve essere preceduto dalla questione della sua costituzionalità. Entrano qui in gioco alcuni principi fondamentali della Costituzione: da una parte il complesso dei diritti sociali con riguardo al lavoro, inquadrati nella cornice dell’eguaglianza sostanziale, e in particolare gli artt. 4 e 35; dall’altra la libertà di iniziativa economica e il suo limite dell’utilità sociale. Que­st’ultimo sintagma rappresenta un principio valvola e un concetto di valore [24]: da una parte, essendo assimilabile alle clausole generali che regolano i rapporti interprivati, essa apre al nuovo, è cioè in grado di permettere il costante adeguamento dell’ordinamento al mutare dei tempi, una sorta di «organo respiratorio», per usare un’immagine tratta dal corpo umano; dall’altra esprime il riferimento all’interesse della società nel suo complesso a realizzare il processo di trasformazione politica, culturale economica e appunto sociale prefigurato dall’art. 3, comma 2, Cost. In questo senso l’utilità sociale svolge un ruolo «pivotale» nell’edificio costituzionale rappresentando il «regolatore dei rapporti tra politica ed economia» [25]. Accanto alla prospettiva valoriale volta a realizzare la «Costituzione promessa» [26], è stato osservato che, più pragmaticamente, le diverse espressioni utilità sociale, fini sociali, fun­zione sociale, utilizzate dal costituente negli artt. 41 e 42 Cost. assolvono alla medesima finalità (unitamente al principio che subordina le libertà economiche alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana): che è quella di prevenire o, eventualmente, di reprimere casi di “fallimento del mercato”, cioè possibili pregiudizi recati dalle spontanee dinamiche del mercato a carico di beni di sicuro rilievo costituzionale [27]. E tra questi si colloca appunto il lavoro nelle sue dimensioni individuale – come tutela del posto – e collettiva come tendenziale pieno impiego o quanto meno mantenimento dei livelli occupazionali. Ma l’utilità sociale, attraverso cui si intende assicurare la tutela del lavoro, segna la frontiera della libertà di impresa, che può essere limitata, ma mai negata; ma è una frontiera [continua ..]


5. Segue: b) le disposizioni retroattive

Un altro aspetto in punto di legittimità costituzionale della disciplina del blocco riguarda la sua retroattività. Come riportato retro nel par. 1, l’art. 46 del decreto legge 17 marzo 2020, n. 18 – nel testo modificato dalla legge di conversione e dal decreto legge 19 maggio 2020, n. 34 – produce taluni effetti anche per il periodo precedente alla sua entrata in vigore. Infatti non solo sono sospese le procedure di licenziamento collettivo e individuale avviate successivamente al 23 febbraio 2020 e fino al 17 marzo, data da cui entra in vigore il blocco; ma sempre retroattivamente – con il decreto di maggio – si modifica la durata del blocco dagli originari sessanta giorni a cinque mesi. Le obiezioni sollevate hanno riguardato soprattutto il gap temporale di due giorni tra lo spirare del termine di divieto dei licenziamenti inizialmente previsto e l’entrata in vigore del decreto successivo, con la conseguenza che sarebbero travolti gli eventuali recessi intimati legittimamente dal datore di lavoro [39]. Vi sarebbe quindi un’ingiustificata compressione dell’autonomia privata che ha già esplicato i propri effetti. Ma anche questo rilievo non è fondato. È anzitutto principio consolidato che la Costituzione consente la retroattività delle leggi civili e che l’art. 11 delle disposizioni preliminari al codice civile contiene solo un canone di interpretazione [40]. E la retroattività ben può riguardare leggi «destinate ad incidere nella sfera degli interessi privati, sacrificandoli, o nella sfera dell’autonomia privata, comprimendola» [41]. Ov­viamente, come precisa la stessa Corte in numerose sentenze, l’intervento del ‘legislatore retroattivo’ sul libero esplicarsi dell’autonomia privata incontra una serie di limiti che, riassuntivamente, attengono alla salvaguardia di fondamentali valori di civiltà giuridica posti a tutela dei destinatari della norma e dello stesso ordinamento, tra i quali vanno ricompresi il rispetto del principio generale di ragionevolezza e di eguaglianza, e la tutela dell’affidamento legittimamente sorto nei soggetti quale principio connaturato allo Stato di diritto. Secondo la consueta tecnica argomentativa della Corte il principio di irretroattività si traduce dunque nel bilanciamento tra le finalità di volta in volta perseguite dal [continua ..]


6. I nodi interpretativi dell’art. 46: campo di applicazione ed esclusioni

Sgombrato il campo dalle questioni di costituzionalità, soffermiamoci su alcuni nodi interpretativi dell’art. 80 del decreto legge n. 18/2020, che, almeno in parte, avrebbero potuto essere risolti dal legislatore sia nella fase di conversione sia nelle modifiche apportate successivamente dal decreto legge n. 34. a) Anzitutto, l’ambito di applicazione è individuato mediante il rinvio alla disciplina dei licenziamenti collettivi e del giustificato motivo oggettivo di cui alla legge n. 604/1966. Pertanto restano esclusi dal blocco, oltre ai rapporti a tempo determinato, i casi in cui vige il licenziamento individuale ad nutum: dirigenti[46] (a cui si applica però la disciplina dei licenziamenti collettivi), lavoratori domestici[47], che hanno maturato il diritto alla pensione, che stanno svolgendo il periodo di prova. Ciò vale anche per il recesso al termine del periodo di apprendistato (art. 42, comma 4, d.lgs. n. 81/2015), mentre qualche dubbio può sollevarsi per il periodo di svolgimento del piano formativo, durante il quale l’apprendista è tutelato «dalla normativa vigente per il licenziamento illegittimo» e, tranne che per il tipo di alta formazione e ricerca, «costituisce giustificato motivo di licenziamento il mancato raggiungimento degli obiettivi formativi». Se questa ipotesi dovesse sussumersi nel giustificato motivo oggettivo, dovrebbe ritenersi applicabile ad essa il blocco. Ma, per quanto sarà argomentato in relazione alla portata della nozione di giustificato motivo oggettivo richiamata dalla norma, ritengo che il divieto non possa riguardare questa fattispecie. b) Altro punto riguarda il lavoro etero-organizzato di cui all’art. 2, d.lgs. n. 81/2015. La Cassazione, pronunciandosi sul noto caso Foodora[48] ha applicato la prospettiva rimediale nell’interpretazione della norma, qualificata perciò «di disciplina» e non contenente una «nuova fattispecie». Ne consegue, secondo i giudici, un’applica­zione ampia dell’etero-organizzazione (anche con riferimento al testo anteriore alla novella di cui al decreto legge 101/2019, conv. nella legge n. 128/2019): quando questa, «accompagnata dalla personalità e dalla continuità della prestazione, è marcata al punto da rendere il collaboratore comparabile ad un lavoratore dipendente, si impone una protezione equivalente e, quindi, [continua ..]


7. La sospensione delle procedure anteriori all’entrata in vigore della norma

Alcuni problemi di applicazione temporale del divieto attengono al regime delle sospensioni delle procedure di licenziamento collettivo e per giustificato motivo oggettivo avviate (attraverso la comunicazione ai soggetti sindacali o alla direzione territoriale del lavoro) «successivamente alla data del 23 febbraio 2020». Quindi – secondo il testo – quelle iniziate in precedenza potrebbero essere concluse e dare luogo ai licenziamenti collettivi. Occorre però tenere conto di quanto già detto in precedenza sulla sospensione dei termini di tutti i procedimenti amministrativi, sem­pre con decorrenza 23 febbraio. Il che comporta che se a tale data non è iniziata o è ancora in corso la fase amministrativa, che eventualmente segue quella sindacale ai sensi dell’art. 4, comma 7, legge n. 223/1991, o se è pendente il tentativo di conciliazione presso la direzione provinciale del lavoro ex art. 7, legge n. 604/1966, opera parimenti la sospensione [57]. C’è però una differenza nella sua durata: infatti i procedimenti sospesi ex art. 46 perché successivi al 23 febbraio potranno riprendere solo al termine del blocco dei licenziamenti, e cioè dopo il 17 agosto (o successivamente se ci sarà una nuova proroga), mentre per quelli iniziati in precedenza il termine è del 15 maggio, e quindi già da tale data avrebbe potuto riattivarsi la procedura, che però al netto del periodo di sospensione non può superare i centoventi giorni come previsto dall’art. 24, legge n. 223/1991 [58].


8. Il “blocco” e la selezione delle ipotesi di giustificato motivo oggettivo

L’interrogativo più spinoso riguarda la nozione di g.m.o, che, nell’elaborazione giurisprudenziale e a seguito della riforma del 2012 dell’art. 18 Stat. lav., copre un’area vasta, che supera gli stessi confini del campo originariamente segnato dal­l’art. 3, legge n. 604/1966. Non è qui in discussione la vexata questio della discrezionalità del datore di lavoro sulle scelte economiche e organizzative che, secondo le decisioni più recenti, consente la soppressione del posto non solo per una migliore e più economica gestione, ma anche per perseguire un incremento del profitto [59]. Il problema, nel caso che ci occupa, è un altro, e riguarda le ipotesi che, se pur sempre collegate alle esigenze dell’impresa, sono ascrivibili alla persona del lavoratore: la carcerazione preventiva, la sopravvenuta inidoneità alle mansioni, la perdita dei requisiti professionali o personali, il superamento del periodo di conservazione del posto di lavoro in caso di malattia o infortunio (art. 2110 c.c.). Deve peraltro osservarsi che la legge non è univoca sulla qualificazione delle ipotesi riconducibili al­l’impossibilità oggettiva della prestazione (art. 1256 cc.), e sulle sue conseguenze sul piano sanzionatorio: infatti l’art. 18, comma 7, sussume nel g.m.o. l’inidoneità fisica o psichica del lavoratore, prevedendo la reintegrazione attenuata in caso di accertato difetto di giustificazione; l’art. 2, d.lgs. n. 23/2015 invece parifica alla discriminazione e ai casi di nullità, con applicazione della reintegrazione piena, «il difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore» (discutendosi se questa sia un’ipotesi più circoscritta della precedente o se la ricomprenda). Ed inoltre mentre l’art. 18 include nello stesso regime sanzionatorio della reintegrazione attenuata anche il licenziamento in violazione dell’art. 2110, comma 2, c.c., il d.lgs. n. 23/2015 è al riguardo silente; sicché deve trovare applicazione il regime della nullità, «atteso il carattere imperativo della norma, in combinata lettura con l’art. 1418 stesso codice», che persegue l’obiettivo di tutelare la salute, valore «sicuramente prioritario all’interno dell’ordinamento – atteso che l’art. 32 [continua ..]


9. Il regime sanzionatorio

La conseguenza della violazione del divieto è, oggi come negli anni 1945-47, la nullità del recesso ai sensi dell’art. 1418, comma 1, c.c. per contrarietà dell’atto a una norma imperativa [63], che persegue finalità non solo economico-sociali, ma anche di ordine pubblico in quanto in assenza del blocco il prevedibile ingente numero di licenziamenti avrebbe potuto provocare forti tensioni sindacali e moti di piazza. Occorre precisare che ci si trova davanti a una previsione sanzionatoria che è estranea alla disciplina di tutela nei licenziamenti collettivi illegittimi: non ricorre infatti nessuna delle ipotesi regolate dalla legge n. 223/1991 (carenza di forma scritta, violazione dei criteri di scelta e della procedura); e pertanto la sanzione è quella propria della nullità c.d. di diritto comune e non la reintegrazione piena [64] (quindi diritto alle retribuzioni perdute, ma non alla garanzia del risarcimento nella misura minima), che trova invece applicazione per i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015 ai sensi dell’art. 18, comma 1, trattandosi di licenziamento «riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge». Si torna invece alla nullità di diritto comune nel caso di licenziamento di lavoratori assunti dal 7 marzo 2015, poiché l’art. 2 del d.lgs. n. 23/2015 esclude la c.d. nullità virtuale richiedendo che la sanzione sia prevista «espressamente» dalla legge, e non è il nostro caso.


10. La partecipazione sindacale alla gestione dei livelli occupazionali

Come si è detto nell’incipit di quest’analisi, la pandemia da Covid-19 non è certo una guerra, ma alla guerra è stata accostata per i suoi effetti: della guerra infatti condivide la causa violenta e la situazione di emergenza assoluta in una prima fase, a cui fa seguito un periodo di congiuntura economica negativa e di ristrutturazione e riorganizzazione delle imprese. Il blocco dei licenziamenti è misura adeguata all’e­ccezionalità del primo tempo, anche perché gli interventi di ausilio finanziario alle imprese e di cig per i lavoratori – che bilanciano il vulnus alla libertà d’impresa – hanno necessariamente durata limitata in quanto muovono una massa monetaria il cui impegno non è a lungo sostenibile dallo Stato, anche se supportato dagli aiuti dell’Unione europea. Superata (auspicabilmente) l’emergenza anche il blocco dovrà rientrare – perché difficilmente potrà trovare ragionevole giustificazione qualora venisse prolungato indiscriminatamente senza distinzioni tra tipologie ed esigenze organizzative e strutturali delle imprese, e senza una revisione delle stesse causali giustificatrici del divieto [65] – e lasciare il posto ad altre azioni. Una potrebbe essere del tipo di quella appena adombrata nel decreto legge 8 aprile 2020, n. 23 (art. 1, comma 2), in cui le garanzie statali di accesso al credito alle imprese in difficoltà sono rilasciate a determinate condizioni, tra le quali l’impegno delle imprese «a gestire i livelli occupazionali attraverso accordi sindacali». L’indicazione è però generica vuoi sul senso del lemma ‘gestire’, vuoi sotto il profilo della mancata individuazione dei soggetti sindacali. L’impegno potrebbe infatti essere letto come una pura e semplice reiterazione dell’obbligo di informazione e consultazione prodromico ai licenziamenti collettivi e del rispetto della procedura di cui all’art. 7, legge n. 604/1966 per quelli individuali per giustificato motivo oggettivo, e quindi come una disposizione apparente; anche se potrebbe stimolare le parti ad introdurre una forma più incisiva di partecipazione sindacale [66], richiedendo accordi che, in attuazione di quanto disposto dall’art. 4, legge n. 223/1991, individuino in concreto le «misure programmate per fronteggiare le conseguenze sul [continua ..]


NOTE