Massimario di Giurisprudenza del LavoroISSN 0025-4959
G. Giappichelli Editore

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Controllo a distanza e tutela processuale del lavoratore: il dato inutilizzabile costituisce mezzo di prova illecito? (di Lucia D’Arcangelo, Ricercatrice di Diritto del lavoro – Università degli Studi di Napoli “Federico II”)


L' Autrice affronta il tema della tutela giurisdizionale del lavoratore in caso di controllo a distanza svolto in violazione della disciplina stabilita dal Codice privacy e dal Regolamento UE 2016/679, con riferimento all’(in)utilizzabilità nel processo civile della prova illecitamente acquisita dal datore di lavoro.

Remote control and worker’s judicial protection: does unusable data constitute unlawful evidence?

The author addresses the issue of the worker’s judicial protection in the case of remote control carried out in violation of the rules established by the Privacy Code and the EU Regulation 2016/679, with regard to the (in)usability in the civil process of evidence acquired unlawfully by the employer.

SOMMARIO:

1. Nota introduttiva - 2. La riforma dell’art. 4 dello Statuto dei lavoratori - 3. Il controllo a distanza (illecito) nel Codice privacy e la regola della inutilizzabilità dei dati - 4. I possibili riflessi della (in)utilizzabilità nel processo civile - 4.1. L’equivalenza tra dato inutilizzabile e prova illecita - NOTE


1. Nota introduttiva

L’ammissibilità in giudizio della prova costituita dalle informazioni riguardanti la persona del lavoratore raccolte durante lo svolgimento dell’attività lavorativa è terreno di confronto, nell’ambito del tema della protezione dei dati personali nel rapporto di lavoro, tra la disciplina sostanziale sul trattamento dei dati personali e il diritto processuale civile. Un trattamento non corretto (rectius: illecito) di dati, da un lato, legittima il lavoratore a chiedere il risarcimento del danno eventualmente prodotto [1], da un altro lato, non esime il datore di lavoro dal produrre le informazioni in suo possesso a fondamento delle proprie prerogative di tutela, pur allorquando la raccolta sia avvenuta in modo illegittimo. Il problema della liceità del trattamento di raccolta dei dati personali in pendenza del rapporto di lavoro, e più specificatamente, durante l’esecuzione della prestazione, a seguito dell’intervento della legge delega n. 183/2014 (c.d. Jobs Act) [2], ha assunto contorni delicati che riguardano non solo le forme di controllo procedimentalizzato del potere datoriale ma soprattutto quella sorveglianza silente che viene filtrata capillarmente attraverso l’utilizzo degli strumenti di lavoro. Vediamo, in sintesi, quali modifiche ha subito la fattispecie del controllo a distanza di cui all’art. 4 Stat. lav., e quali possono essere le conseguenze sul versante del processo civile.


2. La riforma dell’art. 4 dello Statuto dei lavoratori

L’art. 4 Stat. lav., è sopravvissuto integralmente sia alla prima legge emanata in materia di privacy (n. 675/1996, attuativa della direttiva 95/46/CE), sia al d.lgs. n. 196/2003 (d’ora in poi: Codice privacy). Tuttora, l’art. 114, Codice privacy, vi fa espresso rinvio, con l’intenzione di non invadere la “zona rossa” del controllo a distanza, da sempre tema delicato della materia giuslavorisitica [3]. Per effetto dell’art. 23, d.lgs. n. 151/2015, emanato in attuazione della legge delega n. 183/2014, la norma statutaria ha subito, invece, quasi una “inversione di rotta” rispetto al principio del controllo anelastico invocato nella Relazione ministeriale di accompagnamento alla legge n. 300/1970 [4]. È stato abrogato il primo comma che stabiliva il divieto generale del controllo a distanza ed è stato sostituito con la previsione della sua ammissibilità per ragioni di “tutela del patrimonio aziendale, organizzative e produttive, di sicurezza sul lavoro”, previa mediazione sindacale e/o autorizzazione amministrativa da parte della Direzione territoriale del lavoro [5]. La novità più significativa concerne l’introduzione di un nuovo secondo comma che esonera dai suddetti vincoli procedurali gli “strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa” e gli “strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze” (badge e modalità analoghe di timbrature delle entrate e delle uscite dal luogo di lavoro), nonché di un terzo comma, che definisce “le informazioni raccolte ai sensi dei commi 1 e 2 (…) utilizzabili a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro a condizione che sia data al lavoratore adeguata informazione delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli e nel rispetto di quanto disposto dal decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196” [6]. Dunque, la diposizione di cui al secondo comma dell’art. 4 Stat. lav., legittima l’attività di controllo che eventualmente derivi dagli strumenti di lavoro e di registrazione di accessi e presenze sul luogo di lavoro, mentre il terzo comma “autorizza” il datore di lavoro ad utilizzare le informazioni in questo caso raccolte per qualunque finalità inerente al rapporto di lavoro, purché – si tratta dell’unica [continua ..]


3. Il controllo a distanza (illecito) nel Codice privacy e la regola della inutilizzabilità dei dati

A questo riguardo, mentre l’art. 171 del Codice privacy prevede che nei casi in cui il datore di lavoro violi le disposizioni di cui agli artt. 4, comma 1, e 8 della legge 20 maggio 1970, n. 300, si applicano le sanzioni pecuniarie di cui all’art. 38 Stat. lav., nulla stabilisce per l’ipotesi – in oggetto – di un controllo effettuato nell’inot­temperanza di quanto prescritto dall’art. 4, comma 3. Molto probabilmente, il silenzio legis trova spiegazione nel rinvio dell’art. 4, comma 3, alla normativa sul trattamento di dati personali, da cui è ragionevole desumere che il datore di lavoro che svolge il controllo sui lavoratori senza aver a­dempiuto agli obblighi sanciti dalla disciplina sulla protezione dei dati – ivi compresa l’informativa – incorrerà nelle conseguenze previste dal Codice privacy in caso di trattamento illecito di dati. Il rispetto, in generale, della normativa sul trattamento di dati personali, condiziona ex ante, sotto il profilo della legittimità, la raccolta e l’eventuale utilizzo dei dati sull’attività dei lavoratori, con la conseguenza che “i dati personali trattati in violazione della disciplina rilevante in materia di trattamento dei dati personali non possono essere utilizzati, salvo quanto previsto dall’articolo 160-bis” (art. 2 decies, d.lgs. n. 101/2018). È bene precisare che la regola della inutilizzabilità si configura come conseguenza giuridicamente rilevante di qualsiasi trattamento svolto in violazione della legge sulla protezione dei dati [10]. Ciò può desumersi sia dalla collocazione sistematica del menzionato art. 2 decies nell’articolato del Capo II del Codice privacy dedicato ai “Principi” che regolamentano la materia, sia dal rinvio dello stesso art. 2 decies al successivo art. 160 bis del Codice privacy medesimo, che ribadisce con estrema chiarezza la competenza della legislazione processuale in materia civile e penale per ogni valutazione, ai fini probatori, che concerne la validità, l’effica-cia e l’utilizzabilità di documenti riguardanti trattamenti di dati personali svolti in difformità alla disciplina sulla privacy [11]. Esemplificando, nelle ipotesi di raccolta illecita di dati e di successivo utilizzo per fini disciplinari (il più delle volte a scopo di licenziamento), il [continua ..]


4. I possibili riflessi della (in)utilizzabilità nel processo civile

La domanda che ci si pone riguarda il valore dimostrativo – nell’eventuale giudizio di licenziamento – di documenti contenenti informazioni raccolte in violazione delle prescrizioni indicate dal comma 3 dell’art. 4, ovvero inutilizzabili secondo il più volte menzionato art. 2 decies, Codice privacy. Quid juris sul piano processuale per i dati inutilizzabili? Equivalgono a prove illecite, per le quali, come noto, nel processo civile non esiste un divieto di utilizzazione in sede probatoria? [13] Il già menzionato art. 160 bis Codice privacy rimanda il problema delle prove illecite a “disposizioni processuali” che nel processo civile non esistono, diversamente dal diritto processuale penale dove l’art. 191 c.p.p. stabilisce il divieto di utilizzo delle prove illecite. Il rinvio alle regole del rito mette in evidenza, ad ogni modo, il rapporto di autonomia e indipendenza tra la disciplina sostanziale della tutela della riservatezza e le regole che disciplinano lo svolgimento del processo civile. Il vuoto normativo è stato in parte colmato dall’interpretazione della dottrina più sensibile al tema della protezione dei dati. Secondo un primo orientamento, è efficace, sul piano probatorio, ogni documento o provvedimento relativo ad un trattamento di dati personali, ancorché illegittimo, che rispetti le norme di rito che governano il processo [14]. Nel senso indicato si esprime anche un orientamento giurisprudenziale formatosi nella vigenza del codice di rito del 1940-42 [15] secondo cui, non esistendo nel processo civile un divieto esplicito di utilizzo delle prove illecite (come, appunto, l’art. 191 c.p.p.) ed essendo il documento affetto da un vizio (solo) preprocessuale, questo ultimo è comunque utilizzabile come prova (salve le conseguenze extraprocessuali, civili e penali, del comportamento illecito). Secondo questa impostazione, per rifiutare l’ingresso nel processo di un documento ottenuto illecitamente, sarebbe necessaria una specifica regola processuale di esclusione probatoria (come l’art. 222 c.p.c., che dispone l’inutilizzabilità di un documento, se, proposta la querela di falso, la parte dichiari di non volersene avvalere, e l’art. 216 c.p.c., che impedisce di utilizzare la scrittura privata disconosciuta, ma non seguita da richiesta di verificazione). In assenza di una norma processuale, che [continua ..]


4.1. L’equivalenza tra dato inutilizzabile e prova illecita

Facendo un passo in avanti, può dirsi che, nel caso di specie, siamo al cospetto non solo di una norma meramente sostanziale che si assume violata (quella di cui all’art. 4 cit.) [26], ma anche di una prova venuta in possesso di una parte (il datore di lavoro) in violazione di una posizione giuridica soggettiva protetta (i.e., il diritto alla protezione dei dati personali come diritto fondamentale dell’individuo ai sensi dell’art. 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea), con modalità del tutto incompatibili con la protezione costituzionale dei diritti inviolabili dell’uomo [27]. Non è difficile, perciò, affermare che la prova formata nell’inosservanza delle norme sulla privacy è una prova affetta da vizi extraformali rispetto ai quali non può valere il regime di tassatività e dunque la disciplina posta dall’art. 156 c.p.c. per i (soli) vizi formali [28]. Questa constatazione consente di ritenere applicabile alla prova illecita civile in senso sostanziale il regime di inutilizzabilità stabilito nel processo penale (art. 191 c.p.p.), in virtù del c.d. fenomeno della circolazione tra processi [29] che finisce per far convergere (assicurando, peraltro, la c.d. armonia assiologica [30]) le strade della prova illecita, nel processo civile e nel processo penale, in un’unica direzione orientata a dare rilievo alla efficacia non solo verticale (nei rapporti tra autorità e cittadino) ma anche orizzontale (nelle relazioni interprivate) delle prescrizioni costituzionali [31]. I vizi extraformali, consentendo l’emersione in ambito processuale di vizi che possono non derivare dalla violazione della legge processuale, finiscono dunque per obbedire anche a criteri peculiari di altri rami dell’ordinamento per darne un assetto tendenzialmente unitario [32]. La duplice premessa di questo ragionamento è costituita dal fatto che: a] i divieti probatori sottesi alle garanzie costituzionali dei diritti di libertà individuale (ex artt. 14-15 Cost.) sono in grado di operare direttamente con effetti preclusivi anche nei confronti di altre situazioni di peculiare “intrusione” nella sfera di riservatezza privata [33]; b] la diretta ricavabilità di divieti probatori dalle norme costituzionali a tutela dei “diritti inviolabili dell’uomo” [continua ..]


NOTE