Massimario di Giurisprudenza del LavoroISSN 0025-4959
G. Giappichelli Editore

indietro

stampa articolo indice fascicolo leggi articolo leggi fascicolo


Sulla pregiudiziale di incostituzionalità nel giudizio arbitrale (di Cosima Ilaria Buonocore, Avvocato e Professore a contratto di Diritto dell’esecuzione civile – Dipartimento jonico dell’Uni­versità degli Studi “Aldo Moro” di Bari)


Il contributo analizza il delicato tema del potere dell’arbitro di sollevare una questione di legittimità costituzionale, evidenziando le contraddizioni nella legislazione domestica e tra questa e quella europea.

Issue of the constitutional legitimacy and arbitration

The contribution analyzes the delicate issue of the arbitrator’s power to raise a question of constitutional legitimacy, highlighting the divergence in the domestic and european legislation.

SOMMARIO:

1. Premessa - 2. Il contesto giuridico e la dirompente sentenza della Corte cost. n. 376/2001 - 3. Il d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 e la ricerca (infruttuosa) del «bandolo della matassa» - 4. Divergenza tra legislazione domestica ed europea - 5. Conclusioni - NOTE -


1. Premessa

In un recente saggio sulle nuove frontiere dell’arbitrato una dottrina attenta all’i­stituto dell’arbitrato ha evidenziato «la particolare importanza che, per l’evoluzione dei rapporti dell’arbitrato con la giurisdizione statale, ha assunto l’orientamento della giurisprudenza costituzionale ed ordinaria» [1]. L’assunto coglie naturalmente nel segno visto che il legislatore sembra giuridificare l’elaborazione giurisprudenziale [2]; tuttavia, il percorso riformatore non può non tenere conto anche di quella dottrinale, sì da non correre il rischio di ingenerare ulteriori incertezze: emblematica è la «dibattutissima questione» [3] della legittimazione dell’arbitro a sollevare in via incidentale la questione di costituzionalità, sulla quale incidono due disposizioni di cui una contenuta in una legge costituzionale e l’altra in una ordinaria. L’art. 1, legge cost. 9 febbraio 1948, n. 1 dispone che «la questione di legittimità costituzionale di una legge o di un atto avente forza di legge della repubblica rilevata d’ufficio o sollevata da una delle parti nel corso di un giudizio e non ritenuta dal giudice manifestamente infondata, è rimessa alla Corte costituzionale per la sua decisione». La norma contenuta nella legge costituzionale menziona quindi in modo neutrale le parole «giudizio» e «giudice». L’art. 23, legge 11 marzo 1953, n. 87 prevede che la questione di legittimità possa essere sollevata «nel corso di un giudizio dinanzi ad una autorità giurisdizionale», che «l’autorità giurisdizionale» «ordina che a cura della cancelleria» vengano trasmessi gli atti alla Corte costituzionale e comunicati al p.m.: locuzioni tutte che, a differenza dell’espressioni generiche utilizzate dalla legge costituzionale cit., non lasciano il benché minimo spiraglio per tentare di ricavare un’apertura in favore di un “qualsivoglia giudice” non appartenente all’organizzazione giudiziaria, e quindi all’arbitro. Ciononostante la legittimazione dell’arbitro rituale è stata affermata: dapprima nel 2001, allorché la Corte costituzionale «ha affrontato il toro con le corna» [4] e ha riconosciuto expressis verbis agli arbitri rituali il [continua ..]


2. Il contesto giuridico e la dirompente sentenza della Corte cost. n. 376/2001

Prima di affrontare lo specifico tema relativo all’eventuale potere dell’arbitro irrituale di valutare la fondatezza e la rilevanza della questione nonché di sollevare la questione di legittimità costituzionalità alla Corte Costituzionale, appare utile ricordare il sistema vigente all’epoca della pronuncia della Corte cost. n. 376/2001, dal momento che i ragionamenti sviluppati dal Giudice delle leggi non erano fondati ex positivo iure; inoltre l’arbitrato rituale era pressoché collocabile nell’ambito della composizione negoziale della lite. Più precisamente, a seguito della riforma del 1994, veniva sì modificato l’art. 819 c.p.c., che disciplinava un procedimento ad hoc sulle questioni incidentali in generale, ma continuava a non operare alcun riferimento specifico alla pregiudiziale costituzionale [5]. Invece, per quel che riguarda la differentia specifica tra arbitrato rituale ed irrituale, la riforma è stata più incisiva [6], avendone accorciato le distanze [7]. In tale contesto, la dottrina individuava nella legge n. 25/1994 «il tramonto dell’arbitrato irrituale» nel senso di equiparazione dei due modelli di arbitrato [8], ed affermava che «sembra sia venuto meno ogni supporto, o indice normativo, della distinzione tra quello rituale ed irrituale» [9]. La concezione unitaria dell’arbitrato, inaugurata dal legislatore con la riforma del ’94, veniva suggellata dalla giurisprudenza di legittimità, la quale, dapprima in composizione semplice aveva affermato che «la nuova normativa ha riconosciuto il c.d. “diritto naturale” dell’arbitrato, cioè una giustizia cognitiva privata che si estrinseca in un dictum di uno o più privati, che non siano giudici, reso su richiesta di entrambe le parti, al termine di un procedimento in cui gli arbitri risolvono la controversia mediante una regolamentazione negoziale degli interessi in conflitto» [10]; di seguito riunita nella sua composizione più autorevole, aveva plasticamente consacrato, con la nota sentenza n. 527/2000, la natura privata dell’arbitrato rituale e del dictum che lo definisce: l’arbitrato è «un atto di autonomia privata, i cui effetti di accertamento conseguono ad un giudizio compiuto da un soggetto il cui potere ha fonte nell’investitura conferitagli [continua ..]


3. Il d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 e la ricerca (infruttuosa) del «bandolo della matassa»

Il quadro normativo di riferimento è mutato per effetto della riforma del 2006, che, oltre ad aver legittimato, come si diceva, l’arbitro rituale a sollevare una questione di legittimità costituzionale (ex art. 819 bis, 1° comma, n. 3, c.p.c.), ha inserito nel codice di rito l’art. 808 ter. Le parti possono espressamente pattuire una deroga alla disciplina legale dettata in tema di efficacia del lodo (art. 824 bis) e optare per una definizione della controversia «mediante determinazione contrattuale», fermi restando a) il necessario rispetto del principio del contraddittorio (pertanto le parti possono svolgere le proprie attività asservite, di allegazione e di prova, possono formulare le reciproche conclusioni in vista della decisione dell’arbitro), b) la possibilità di servirsi della tutela cautelare garantita dall’art. 669 quinquies, c.p.c., nonché c) la sindacabilità del lodo da parte del giudice “statale” per vizi del procedimento. Ed è proprio nella suddetta sindacabilità che si riassumerebbe la struttura dell’arbitrato irrituale come un vero e proprio processo, seppur “privato”: alle ipotesi di «annullabilità» dei negozi giuridici si aggiungono infatti cinque vizi derivanti dalle violazione di regole processuali, che dunque riguardano il procedimento col quale si giunge alla sua formazione. Ora, in disparte le innumerevoli e intriganti implicazioni che germogliano nel­l’istituto dell’arbitrato irrituale, in questa sede ci si deve chiedere, ai fini della possibile legittimazione dell’arbitro irrituale ad adire la Corte Costituzionale, come si coniughino, da un lato, la differentia degli effetti tra i due lodi (rituale ed irrituale) e, dall’altro, l’identità della fonte, della rinunzia all’azione ordinaria, dei compiti dell’arbitro di giudicare e decidere con un comando imposto alle parti. Ci si chiede, in altri termini, come dovrebbe atteggiarsi l’arbitro irrituale qualora, nel giudicare e decidere una controversia a lui sottoposta, impatti su una norma sospettata di incostituzionalità o se siano le stesse parti a sollecitarlo a sollevare una questione di legittimità costituzionale, e non risulti possibile superare tale sospetto mediante l’o­pera interpretativa. Le strade percorribili per giungere ad una soluzione [continua ..]


4. Divergenza tra legislazione domestica ed europea

Sulla scia di tali riflessioni se ne può incasellare un’altra, relativa alla legittimazione dell’arbitro a sollevare la c.d. pregiudiziale comunitaria [43], in quanto anche nel giudizio arbitrale può sorgere una questione inerente l’applicazione o l’interpre­tazione di normative europee dalla cui risoluzione dipende la decisione della causa. Il legislatore domestico, nel riscrivere l’art. 819 bis c.p.c., non ha inteso prendere posizione sul punto. Per conseguenza, allo stato attuale, agli arbitri non resta che valutare incidenter tantum la pregiudiziale comunitaria e applicare ovvero disapplicare norme e provvedimenti europei, riservando al giudice dell’eventuale gravame la decisione se rimettere la questione alla Corte di Giustizia dell’Unione europea, ai sensi dell’art. 267 del Trattato FUE [44]. Dal dato normativo europeo non è evincibile alcun riferimento che possa ricondurre, in negativo o in positivo, all’istituto arbitrale domestico [45], né è ipotizzabile determinarlo secondo i criteri fissati dal diritto interno [46], per cui occorre tener conto dei requisiti individuati dalla Corte di Giustizia al fine di assicurare un’interpretazione uniforme dell’espressione «giurisdizione», richiamata dall’art. 267 del Trattato FUE: l’organo remittente per essere incluso nel novero delle giurisdizioni nazionali legittimate al preliminary ruling, deve a) trarre fondamento da una fonte legale (ed invece l’arbitrato ha fonte convenzionale), b) avere carattere obbligatorio (ed invece in Italia gli arbitrati obbligatori sono illegittimi), c) essere organizzato in modo permanente e stabile (ed invece l’organo arbitrale, ad eccezione di camere arbitrali istituite presso determinati enti, non ha il carattere della stabilità e permanenza) [47]. Con le successive pronunce la Corte di Giustizia ha arricchito i richiamati requisiti, aggiungendo quelli dell’indipendenza dell’organo [48], e del suo stretto collegamento con l’organo incardinato nell’organizzazione dello Stato ai fini impugnatori [49]. Sulla possibilità che l’organo, il quale voglia rimettere la questione, decida secondo diritto e non equità si è assistito ad un mutamento di orientamento, in quanto, secondo i giudici di Lussemburgo, è considerato organo giurisdizionale [continua ..]


5. Conclusioni

Si ha la sensazione che la Corte Costituzionale del 2001 ed il legislatore del 2006 siano, in parte qua, “usciti fuori strada”. In riferimento all’arbitrato rituale un’altra dottrina particolarmente sensibile all’istituto dell’arbitrato è arrivata alla conclusione che quella scelta dalla Corte cost. n. 376/2001 cit. sia una «soluzione [che] non ci convinceva, nonostante l’autorevolezza della fonte, né ci convince tuttora» [52]. A fortiori tale constatazione non può non essere mutuata, e condivisa, anche in riferimento all’arbitrato irrituale. L’arbitrato libero, irrituale, se lo fosse veramente, dovrebbe restar fuori dagli schemi del processo: coglie nel segno la dottrina quando afferma che «il legislatore, nello stesso momento in cui ha voluto dare sugello formale all’arbitrato irrituale, ne ha per questo solo fatto decretato la fine» [53]. Nel gioco di luci e ombre, l’art. 808 ter sembra aver alimentato più le seconde, come ne dà conferma una recente questione di legittimità costituzionale sollevata da un arbitro irrituale [54]. In conclusione, l’attenzione del legislatore rivolta all’arbitrato sembra dare ragione alla più autorevole dottrina, la quale ammoniva che «l’arbitrato, come manifestazione dell’autonomia privata, resta un insopprimibile istituto che il legislatore e gli operatori del diritto farebbero bene a favorire» [55], con l’auspicio, però, che gli interventi del riformatore valgano realmente a favorire l’arbitrato, sì da ridurre i dubbi ed aumentare le certezze.


NOTE

[1] C. Punzi, Le nuove frontiere dell’arbitrato, in Riv. proc., 2015, p. 1 ss. [2] Circa quarant’anni fa appariva sulle colonne di questa Rivista il contributo di Virgilio Andrioli sul rapporto tra l’istituto dell’arbitrato e gli artt. 25 e 102 Cost.: V. Andrioli, L’arbitrato rituale e la Costituzione, in questa Rivista, 1963, p. 95 ss., in nota a Corte cost. 12 febbraio 1963, n. 2. [3] L’espressione è di L. Montesano, Questioni incidentali nel giudizio arbitrale e sospensione dei processi, in Riv. proc., 2000, p. 5. [4] Così A. Briguglio, La pregiudizialità costituzionale nell’arbitrato rituale e la efficacia del lodo, in Riv. arb., 2000, p. 657. [5] L’art. 819 c.p.c. rubricato Questioni incidentali, ante riforma ex art. 10, legge 5 gennaio 1994, n. 25, disponeva che, «se nel corso del procedimento sorge una questione che a norma dell’articolo 806 non può costituire oggetto del giudizio arbitrale, gli arbitri, qualora ritengano che la decisione di tale questione abbia rilevanza per il giudizio ad essi affidato, sospendono il procedimento e dispongono che le parti propongano domanda davanti al giudice competente». All’indomani della riforma, l’ultima parte (evidenziata in corsivo) veniva eleminata. [6] In generale, nel senso che la riforma del 1994, rispetto a quella del 1983, «ha rappresentato l’intervento più incisivo», v. G. Balena, Istituzioni di diritto processuale civile, V ed., vol. III, Bari, 2019, p. 351. [7] La riforma del 1994 ha tracciato un solco sul ridimensionamento della differentia specifica tra arbitrato rituale ed irrituale; e lo ha fatto operando essenzialmente sull’art. 825: a) eliminando il termine decadenziale di un anno per il deposito del lodo (comma 2); b) espungendo la previsione contenuta nel 5° comma in cui si configurava l’acquisto dell’«efficacia di sentenza» quale ulteriore effetto che il lodo rituale poteva conseguire in conseguenza del deposito e dell’omologazione del lodo; c) sostituendo negli artt. 825-831, c.p.c. la locuzione «sentenza arbitrale» con la parola «lodo». Con la riforma del 1994 la vita del lodo rituale era quindi, al pari dell’irrituale, disancorata dal deposito. Si aggiunga che la previsione dell’art. 823, ult. comma, c.p.c. introdotta con la riforma del 1983, [continua ..]