Massimario di Giurisprudenza del LavoroISSN 0025-4959
G. Giappichelli Editore

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Crisi, Costituzione, eterogenesi dei fini e reddito di cittadinanza (di Giuseppe Sigillò Massara)


L’Autore tratteggia la disciplina della crisi mostrando i limiti costituzionali dell’intervento delle istituzioni sia riguardo ai check and balance del sistema sia con riferimento agli istituti laburistici adottati, invitando al ritorno ad istituti universali per fare fronte ad una crisi dal carattere universale.

Crisis, consitution, heterogenesin of the purposes and basic income

The Author outlines the discipline of the crisis by showing the constitutional limits of the intervention of the institutions both with regard to the check and balance of the system and with reference to the adopted labor institutions, inviting the return to universal institutions to face a crisis with a universal character.

Keywords: COVID-19 – Constitution – basic income.

SOMMARIO:

1. Introduzione - 2. Fra diritto naturale e check and balance - 3. Organi tecnici e principi costituzionali: un conflitto (in)sanabile? - 4. I prodromi della legislazione emergenziale - 5. I limiti dei provvedimenti extra-ordinem - 6. Crisi e rapporti fra Stato-Regioni - 7. L'eterogenesi dei fini e l’insufficienza degli istituti adottati - 8. Una possibile risposta universale alla crisi universale: il fondamento costituzionale degli istituti presenti nell'Ordinamento - 9. Il corretto approccio ordinamentale - 10. Prime, possibili, conclusioni: dalla crisi sanitaria alla crisi istituzionale - NOTE


1. Introduzione

Appare impossibile negare come la pandemia dal COVID-19 stia sconvolgendo le nostre vite tanto da trasformarle in una opera teatrale dai contorni oscuri, resa tra­gica dalla quantità di perdite. Gli eventi che si sono abbattuti sul nostro Stato non solo hanno generato terribili sofferenze e drammi umani, ma hanno anche provocato uno tsunami senza precedenti nei rapporti fra i poteri costituzionali, con il progressivo trasbordare del potere esecutivo sul potere legislativo (prima) e su quello giudiziario (poi). L’emergenza legata al diffondersi del Coronavirus, sotto altro profilo, ha determinato l’emersione di una evidente graduazione fra i diritti fondamentali sanciti dal sistema tracciato dalla carta costituzionale. Abbiamo, infatti, dolorosamente appreso che la “classica” definizione di servizi pubblici essenziali [1] possa non coincidere con quella dei servizi indispensabili per la sopravvivenza stessa della nostra comunità [2] e che si sono rivelati assolutamente necessari per garantire la nostra convivenza. Anche il mondo del lavoro ha subito un pesante impatto ed ora rischia di essere (definitivamente) stravolto, con effetti profondi, alcuni ben visibili e percepibili im­mediatamente ed altri, di lungo periodo, che determineranno un radicale ripensamento del sistema produttivo, dell’organizzazione del lavoro, nonché la necessità di una profonda riflessione circa la scala valoriale che dovrà regolare la comunità civile nella quale viviamo, modificando definitivamente il modello economico che, dalla caduta del muro di Berlino al WTO del 2000 [3], ha permeato tutta la civiltà occidentale.


2. Fra diritto naturale e check and balance

Peraltro numerosi dubbi di costituzionalità si addensano sul modello di intervento adottato dal Governo. In merito, pare opportuno prendere le mosse dal provvedimento che ha dato il via agli interventi normativi emergenziali, rappresentato dalla proclamazione dello stato di emergenza posta in essere dal Governo ai sensi dell’art. 24 del d.lgs. 2 gennaio 2018, n. 1 [4], la quale attiva i poteri di intervento dell’esecutivo, sostanziati nell’ema­nazione delle ordinanze di protezione civile (art. 25) da parte del Presidente del Con­siglio dei Ministri (art. 7), soggette ai limiti tradizionali delle ordinanze contingibili e urgenti [5]. Nel quadro ed in conseguenza a questa originaria dichiarazione si sono susseguiti un complesso di provvedimenti che hanno avuto una pervasiva incidenza sui diritti dei cittadini, oltre a regolare i poteri straordinari conferiti alle pubbliche amministrazioni ed alla protezione civile. Il complesso di tali provvedimenti, è sorretto, in ultima analisi, dall’assunto che la tutela del diritto alla salute debba risultare prevalente rispetto alla garanzia delle altre libertà costituzionali, nonché a qualsivoglia altro diritto, economico o addirittura personale. Se appare di tutta evidenza che tale posizione, sul piano emozionale, sia difficil­mente confutabile (anche perché richiama i principi di diritto naturale e, fra questi, la innata aspirazione dell’essere umano alla sopravvivenza), permane l’obbligo, morale oltre che di correttezza scientifica, di verificare se il principio “salute über alles” [6] sia compatibile con il quadro costituzionale di riferimento, nonché, soprattutto, se gli strumenti normativi utilizzati per perseguire tale principio siano coerenti con il sistema di check and balances che permea la nostra Legge fondamentale.


3. Organi tecnici e principi costituzionali: un conflitto (in)sanabile?

Quanto al primo profilo di indagine, da una semplice verifica della sistematica della nostra Costituzione – con la quale si è forse voluta esprimere, sia pure in modo implicito e programmatico, una scala di rilevanza tra diversi diritti fondamentali – emerge che se la garanzia della libertà personale è oggetto della norma di apertura della Parte Prima della Legge fondamentale (l’art. 13), alla disciplina del diritto alla salute è dedicato il più distante art. 32. Esplicitando tale distanza (forse non solo testuale, ma valoriale), Alessandro Pace, nella voce dell’Enciclopedia del Diritto Libertà personale, rilevava proprio che «va subito affermato che non sembra che l’art. 13 possa cedere all’art. 32; pertanto tutte le restrizioni coattive per motivi di sanità devono di necessità seguire la via giurisdizionale prevista da quell’articolo» [7], sostenendo altresì – sebbene in un clima assai differente da quello odierno e correlato al periodo storico di riflessione (siamo nel 1974) – che «d’altro canto mai potrebbe, dall’autorità pubblica, essere invocato l’art. 32 Cost. per derogare, per motivi di salute, alla portata e alle garanzie dell’art. 13» [8]. È certo che, nel disegno tracciato, Alessandro Pace non avrebbe potuto immaginare il disastroso scenario pandemico cui stiamo assistendo, ma non vi è dubbio, parimenti, che tali riflessioni pongano un interrogativo di principio: ovvero se sia corretto concentrare in un provvedimento soggettivamente imputabile al solo Presidente del Consiglio dei Ministri (sia pure in modo del tutto astratto normativamente delegato dal citato d.lgs. n. 1/2018) le misure restrittive dei diritti fondamentali dei cittadini. Da qui, secondariamente, occorre chiedersi se possa essere corretto che il baricentro decisorio circa il contenuto dei provvedimenti restrittivi dei principi costituzionali ed, in primis, della libertà personale, possa essere spostato a favore di transeunti organismi tecnici [9], estranei tanto agli organi costituzionali, quanto alle esistenti (e tecnicamente solide) pubbliche amministrazioni competenti.


4. I prodromi della legislazione emergenziale

Orbene, nel tentare di dare una risposta ai suddetti quesiti, non possiamo negare che la nostra Costituzione prenda in considerazione, all’art. 78, solo lo «stato di guerra» e non lo «stato di emergenza», che, infatti, come anticipato è stato dichiarato in forza degli artt. agli artt. 7, comma 1, lett. c), e 24, comma 1, d.lgs. n. 1/2018, cioè sul­la base di un atto avente forza di legge ordinaria. Sul punto, dobbiamo considerare che, sotto il profilo genetico, la disciplina oggetto di tale decreto ha visto come presupposti concreti eventi sì catastrofici, ma concentrati in aree limitate del Paese (si pensi ai terremoti, che, a partire da quello del­l’Irpinia, sono stati la ragione storica della nascita del Dipartimento della Protezione Civile) e, comunque, caratterizzati da una pervasività che non è in alcun modo paragonabile a quella in corso a causa della pandemia. Tanto premesso, deve rammentarsi che l’art. 24, comma 1, d.lgs. n. 1/2018 stabilisce che, nei casi di cui all’art. 7, il Consiglio dei Ministri autorizza «l’emanazio­ne delle ordinanze di protezione civile di cui all’articolo 25» – adottate nel «nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico e dell’Unione europea»; e che dette ordinanze, ai sensi del comma 2 dello stesso art. 25, devono essere finalizzate: «a) all’organizzazione ed all’effettuazione degli interventi di soccorso e assistenza alla popolazione interessata dall’evento; b) al ripristino della funzionalità dei servizi pubblici e delle infrastrutture di reti strategiche, alle attività di gestione dei rifiuti, delle macerie, del materiale vegetale o alluvionale o delle terre e rocce da scavo prodotti dagli eventi e alle misure volte a garantire la continuità amministrativa nei comuni e territori interessati, anche mediante interventi di natura temporanea; c) all’attivazio­ne di prime misure economiche di immediato sostegno al tessuto economico e sociale nei confronti della popolazione e delle attività economiche e produttive direttamente interessate dall’evento, per fronteggiare le più urgenti necessità; d) alla realizzazione di interventi, anche strutturali, per la riduzione del rischio residuo nelle aree colpite dagli eventi calamitosi, [continua ..]


5. I limiti dei provvedimenti extra-ordinem

Peraltro – anche a voler superare l’argomento della legge ordinaria quale fonte della normazione di urgenza – appare di tutta evidenza che, nell’adottare i provvedi­menti emergenziali, il Governo non possa considerarsi legibus solutus, in quanto lo stesso art. 25 del già citato d.lgs. n. 1/2018 stabilisce espressamente che i provvedimenti emergenziali debbano essere adottati «nel rispetto dei principi generali del­l’ordinamento giuridico e dell’Unione europea». In questo senso, i limiti della fonte normativa extra ordinem (i noti “d.P.C.M.”) [12] rispetto al quadro di riferimento, ha portato lo stesso Esecutivo a “supportare” gli stessi con fonti di rango primario – chiaramente nella forma del decreto legge, qui giustificato (correttamente) in relazione alla straordinarietà e all’urgenza del momento – seppur anch’esse caratterizzate da alcune rilevanti criticità (anche dal punto di vista redazionale) [13]. La realtà con la quale ci stiamo dolorosamente confrontando, dunque, è che la convergenza del timone dell’esercizio del potere normativo sull’“uomo solo al comando” [14], lungi dal conseguire efficacia ai provvedimenti e resilienza al sistema, si concretizza, soprattutto e superata la fase appena iniziale della crisi, in una complessiva insufficienza del modello regolativo prescelto, dimostrato dall’utilizzo “disinvolto” degli strumenti che l’ordinamento ha predisposto al fine di disciplinare (rectius governare) la fase emergenziale. Tali criticità si riscontrano sicuramente in riferimento ai provvedimenti extra ordinem (i già richiamati d.P.C.M., che, rincorrendosi di giorno in giorno, hanno dato luogo a correzioni di rotta improvvise e contraddittorie tra loro, come avvenuto con la c.d. “epopea dei congiunti”), ma anche relativamente alla decretazione di urgenza ai sensi dell’art. 77 Cost., per la quale, complice la situazione di emergenziale, deve concordarsi con quanti hanno rilevato la ricorrenza di vizi generatori di una «serie di norme incomprensibili, scritte male, contraddittorie, piene di rinvii ad altre norme» [15]. Di talché, se la pandemia avrebbe potuto costituire la finest hour di tali strumenti e, soprattutto, dei decreti [continua ..]


6. Crisi e rapporti fra Stato-Regioni

È proprio con riferimento a tale ultimo tema, che si colloca l’ulteriore profilo di criticità del processo regolativo sin qui descritto. E cioè la circostanza che mentre ordinariamente l’iter normativo, anche emergenziale, prevede il coinvolgimento diretto delle singole amministrazioni destinatarie, i cui organi di indirizzo politico sono legati al Parlamento da un vincolo fiduciario e che sono, inoltre, dotate al loro in­terno di organici con ampie e consolidate esperienze (anche in materia di drafting normativo), la scelta del decisore (politico?) è stata quella di affidarsi a “comitati di crisi”, che non richiamano in alcun modo i war ministry di britannica memoria, i cui componenti erano, appunto, politici (eventualmente, anche di opposizione) posti a capo di dicasteri strategici, come Clement Attlee e Ernest Bevin. Questi comitati, da semplici ausiliari della politica, ne sono quindi divenuti il motore immobile determinando le scelte di un decisore, non solo slegato da un concreto controllo parlamentare, ma dimentico di valorizzare i soggetti ordinariamente deputati a svolgere il ruolo di supporto tecnico con riferimento alle scelte strategiche, da cui dipende la sopravvivenza dei cittadini, nonché l’economia italiana. Vero è, peraltro, che la situazione ora descritta appare in corso di miglioramento, atteso che lo stesso Esecutivo pare essersi deciso a coinvolgere le valide e competenti risorse interne presenti nell’amministrazione, facendo registrare, almeno in questa fase di ripartenza, un deciso miglioramento, anche redazionale, di cui sono evidenti esempi i protocolli tecnici per la riapertura delle imprese redatti non da una delle tante “task force”, bensì da una eccellenza italiana, l’INAIL, i cui “umili” medici legali e tecnici ambientali, hanno prodotto modelli regolatori utili a coniugare l’esigenza di riattivare le attività produttive con la garanzia della salute e della sicurezza dei lavoratori e dei cittadini. Peraltro la condizione emergenziale ha messo in luce le criticità nel rapporto tra Stato e Regioni, ed i rispettivi poteri di intervento. Sul punto, peraltro, non può non sottolinearsi che in occasione della riforma del riforma del Titolo V, è stato espressamente attribuito allo Stato, il potere sostitutivo di cui [continua ..]


7. L'eterogenesi dei fini e l’insufficienza degli istituti adottati

Peraltro, la tendenza ad una regolamentazione caratterizzata da numerose criticità, ha coinvolto anche gli interventi in materia di ammortizzatori sociali. Alla ricerca di uno strumento di natura universale per fronteggiare un’emergen­za sociale innescata da provvedimenti di natura universale (il “lock down” decretato con gli ormai tristemente celebri d.C.P.M. del 4, 8, 9 e 11 marzo 2020, che, in rapidissima successione, hanno trasformato l’intero Paese in una grande “zona rossa”, nella quale sono stati sospesi gli spostamenti non necessitati, le attività didattiche, le attività commerciali e di vendita al dettaglio, salvo poche eccezioni gli eventi culturali e sportivi, e, più in generale, ogni momento di aggregazione che avrebbe potuto comportare una più ampia diffusione del contagio) il legislatore auto-delegato ha fatto ricorso ad una pluralità di strumenti che, purtroppo, hanno, una volta di più, mostrato la debolezza di un sistema orientato verso la tutela della grande azienda post-fordista [18], tutto fondato sulla ibridazione dello strumento classico della CIG. Si è assistito, infatti, alla liberalizzazione dei requisiti e delle procedure di accesso per l’erogazione delle prestazioni di integrazione salariale, che, in combinazione con il FIS, i Fondi di Settore e la reintroduzione della cassa integrazione guadagni in deroga (per la quale è stato mantenuto, pur nell’evidente estrema urgenza causata dalla emergenza e dalla universalità dei soggetti protetti, il discutibile sistema di liquidazione su base regionale) avrebbe dovuto consentire la copertura della quasi totalità dei lavoratori subordinati. A ciò ha fatto da “contraltare” l’imposizione per legge di un divieto – originariamente per soli sessanta giorni decorrenti 17 marzo 2020, in seguito prorogato sino al 17 agosto 2020 dall’art. 80 del decreto legge n. 34/2020 (il c.d. “decreto rilancio”) – dell’avvio di nuove procedure di licenziamento collettivo e dei recessi individuali per giustificato motivo oggettivo. Poi, per la prima volta nella storia italiana, il legislatore dell’emergenza ha previsto l’erogazione di un trattamento anche a favore dei lavoratori autonomi, calcolato in cifra fissa e condizionato al mancato superamento di una determinata soglia [continua ..]


8. Una possibile risposta universale alla crisi universale: il fondamento costituzionale degli istituti presenti nell'Ordinamento

La conferma della matrice occupazionale della nostra Costituzione nulla toglie al fatto che, di fronte alla crescente dimensione della povertà e dell’e­sclusione sociale, l’ordinamento debba avvertire l’esigenza di orientare il sistema di welfare verso un modello di protezione sociale di stampo maggiormente universalistico [21]. Anzi, l’esigenza di un intervento in tal senso è divenuta di scottante attualità per «la legittimazione degli stessi sistemi di protezione sociale», al fine di riequilibrare «le impressionanti disuguaglianze nella distribuzione del reddito e della ricchezza, anche oltre alla dimensione minimale del mero contrasto delle situazioni di esclusione sociale e di povertà» [22]. Sicché, individuando una nuova, necessaria, tendenza dell’Ordinamento, appare possibile affermare, pur con tutte le resistenze del caso [23] che il sistema debba, inevi­tabilmente, muovere, verso un ridimensionamento della sua anima assicurativo/pre­videnzialistica a favore di quella universalistica/assistenziale [24]. Peraltro – prima di addentrarsi nell’esplorazione dei referenti “costituzionali” – occorre ricordare che lo scivolamento nella direzione appena prospettata impone due considerazioni: la prima relativa alla potenziale concorrenzialità tra il lavoro (e la connessa tutela previdenziale, in particolare, pensionistica [25]) e la misura del basic income. La seconda considerazione, invece, riguarda la sostanziale precarizzazione del­l’an e del quantum della protezione, che, in un’ottica assistenziale, restano necessariamente ancorati alle valutazioni discrezionali – espressamente condizionate da vin­coli di bilancio [26] – del legislatore, al quale compete l’identificazione del livello della sufficienza al raggiungimento del quale si realizza la liberazione dal bisogno e dalla povertà, cui è finalizzata la garanzia costituzionale di cui all’art. 38 Cost. [27]. Ciò che appare necessario ricordare è che l’anima “laburista” della Costituzione diviene il parametro fondamentale per il corretto inquadramento, anche costituzionale, del Reddito di Cittadinanza. Nella Carta fondamentale, infatti, la persona umana, titolare di [continua ..]


9. Il corretto approccio ordinamentale

In coerenza con il quadro di riferimento costituzionale, appare evidente che pur nell’attuale condizione emergenziale, l’approccio adottato, dunque, sarebbe dovuto essere improntato ad un’ottica di universalità delle tutele, non solo alla ibridazione di strumenti pensati per sostenere la posizione dei soggetti occupati. Al contrario, appare evidente che dallo schema protettivo siano rimasti esclusi, almeno inizialmente e salvo ulteriori aggiustamenti da parte del legislatore, quanti non percepiscono alcun reddito da lavoro autonomo e subordinato che rischiano di scivolare verso situazioni di povertà e di bisogno non facilmente governabili. Non sono mancati, invero, interventi sperimentali e temporanei da parte del Governo e delle amministrazioni locali, che, però, appaiono ancora oggi insufficienti e comunque costruiti secondo una logica che resta ancorata alla “beneficienza pubblica”, senza la possibilità di identificare un chiaro disegno di fondo. Peraltro il paventato reclutamento di sessantamila “assistenti civici” tra gli stessi disoccupati è stato funestato da conflitti all’interno dello stesso Governo in ordine alle relative funzioni (tra vigilanza e mera assistenza alla popolazione) e pare articolarsi in assenza del­l’imposizione di cogenti obblighi di condizionalità. Eppure, proprio lo strumento del Reddito di Cittadinanza potrebbe rappresentare una efficace risposta alla esigenza di tutela a favore di quanti non sono protetti dal sistema di previdenza pubblica, a cominciare proprio dai soggetti inoccupati che rischiano di subire la riduzione di quello che tradizionalmente è il primo ammortizzatore sociale: la rete di protezione familiare e comunitaria; nonché di quei lavoratori che hanno forme di occupazione saltuarie o irregolari, che, se ne impediscono l’ac­cesso agli ammortizzatori sociali tradizionali, non consentono loro di fruire, appunto, della prestazione universale. Per questi soggetti, quindi, l’espansione del Reddito di Cittadinanza (eventualmente anche in forma di sussidio temporaneo e condizionato al bisogno e all’attiva­zio­ne) potrebbe rappresentare uno strumento utile per impedire quell’impoveri­mento, che, come prima ricordato, già soffrono di una forma di inabilità al lavoro. Un analogo discorso, poi, potrebbe essere affrontato in riferimento ai [continua ..]


10. Prime, possibili, conclusioni: dalla crisi sanitaria alla crisi istituzionale

Le prime conclusioni, necessariamente parziali e rivedibili, sono amare. Il dramma collettivo ha determinato la trasformazione della crisi sanitaria in potenziale crisi fra istituzioni, con il rischio di incrinare il sistema di pesi e contrappesi su cui si fonda la nostra democrazia [48]. La preoccupante tendenza alla preponderanza del Potere Esecutivo sugli altri poteri dello Stato [49], rischia di determinare una pericolosa assuefazione al superamento dei ruoli istituzionali determinati dall’adozione di atti amministrativi non “giustiziabili” dal Parlamento che la Costituzione, saggiamente, riferisce esclusivamente a situazioni assolutamente straordinarie e comunque “istantanee” in cui il bilanciamento dei valori impone finanche la sospensione di primari diritti previsti dalla stessa Carta fondamentale. Per questa via permane il rischio di una deriva extracostituzionale, idonea a determinare una distorsione degli equilibri fra poteri previsti dalla Costituzione, che ha avuto riflessi assai rilevanti sulla disciplina laburistica e, segnatamente, quella relativa agli strumenti preposti alla lotta contro la povertà ed agli ammortiz­zatori sociali. Ne è prova, da un lato, la sorprendente sottovalutazione di istituti a carattere universale [50], già presenti nell’Ordinamento, che avrebbero potuto, a fronte di una minima manutenzione, rispondere alle situazioni di bisogno effettivo, avendo fra i destinatari l’universalità dei potenziali aventi diritto [51]; istituti ai quali è stata preferita la reiterazione dell’utilizzo di strumenti in deroga che, oltre a manifestare la loro limitatezza quanto all’an ed al quando del sostegno, mostrano la loro debolezza quanto alla capacità di reggere alla prova dei fatti, a fronte di una complessa macchina burocratica che rischia di rivelarsi, oltre che autoreferente, anche inadeguata [52]. Dall’altro lato, la ricerca della efficace tutela del bisogno effettivo scema dietro alle endemiche pastoie burocratiche, rinunciando all’utilizzo di strumenti operativi adeguati [53] per affidarsi alla “generosità” [54] di istituzioni strutturalmente inadatte e non sufficientemente pronte ad assolvere alle nuove funzioni loro affidate dall’Or­dinamento [55]. Per non dire che, forse, sarebbe stato possibile – con [continua ..]


NOTE