La ripresa delle attività produttive varata con il decreto legge n. 34/2020 è caratterizzata da un robusto apparato normativo, oggetto di disamina, finalizzato a garantire il “lavoro in sicurezza”, nuovo dogma dopo quello del “lavoro dignitoso”, ma che rischia di disincentivare la ripresa stessa mancando totalmente misure che consentano di “fare impresa in sicurezza”.
Returning to normal business activities is the aim of the Decree Law n. 34/2020. The legal framework focused on working safely, a new dogma after the one of decent working. Unfortunately, this approach is likely to discourage the recovery, given the lack of measures focusing on “doing business safely”.
Keywords: Recovery – safety – production.
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1. Il significato di 'lavorare in sicurezza' in presenza del Covid-19 - 2. L'obbligo di sicurezza nei protocolli Governo-Parti sociali - 3.Il difficile raccordo tra la normativa emergenziale e il T.U. del 2008 - 4. La sorveglianza sanitaria e il ruolo del medico competente - 5. Tutela della salute versus tutela della privacy - 6. L'apparato sanzionatorio - 7. Le varie ipotesi di sospensione dell’attività - 8.La tutela antinfortunistica - 9. Qualche osservazione conclusiva - NOTE
Alla vigilia dell’ufficializzazione dell’arrivo nel nostro Paese del Covid-19 – la dichiarazione dello stato di emergenza risale al 31 gennaio 2020 – mentre ci accingevamo a celebrare solennemente il cinquantenario dello Statuto dei Lavoratori (o meglio di quel che resta di questo totem legislativo), il principio del “lavorare in sicurezza” non suscitava particolari riflessioni nella nostra comunità, interamente concentrata su fenomeni “quantitativamente” modesti ma di forte impatto mediatico (riders); al più si discuteva del diritto di lavorare in sicurezza di qualche migliaio di ciclofattorini, a margine del decreto legge n. 101/2019, convertito nella legge n. 128/2019. Con l’epidemia da Covid-19 c’è stato un vero e proprio ritorno di fiamma per questo tema: tutti i webinar organizzati a maggio, partita la c.d. “fase 2”, se ne sono occupati, anzi, sistematicamente, lo hanno richiamato nel titolo dell’iniziativa, incentrata sugli obblighi datoriali di protezione riguardati sotto tutte le angolature possibili, con una particolare attenzione alle responsabilità civile e penale del datore di lavoro e al danno differenziale come diretta conseguenza della (dubbia) scelta governativa di riconoscere l’infortunio sul lavoro da Covid-19. Per spazzare via questa nube che si andava addensando sulla testa della classe datoriale, indecisa se ripartire o meno correndo tale rischio, l’INAIL, su “suggerimento” del Governo, si è affrettato, con circolare, a ricordare che vanno tenuti nettamente distinti il riconoscimento dell’origine professionale del contagio da ogni valutazione in ordine alla imputabilità di eventuali comportamenti omissivi in capo al datore di lavoro che possono essere stati causa del contagio. Parallelamente a questo dibattito sul “lavorare in sicurezza” scorrono le immagini in diretta o televisive sullo “svago in libertà”, senza precauzione alcuna, per cui ciò che non è consentito per lavorare, produrre e andare a scuola o all’università, è ampiamente tollerato per tutto il resto, perché l’attentato alla salute del lavoratore e della collettività va contrastato in azienda o nei tribunali ma ineluttabilmente accettato nel tempo di non lavoro. Sulla sicurezza dei lavoratori non si [continua ..]
Per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro sono stati sottoscritti vari Protocolli tra Governo e Parti sociali, diversificati per periodo e per settore. Al primo, del 14 marzo 2020 – siglato nell’immediatezza del blocco quasi totale di ogni attività produttiva, ad eccezione di quelle connesse a servizi pubblici essenziali – ne sono seguiti altri tre: quello per il settore del trasporto e della logistica siglato dal Ministero delle infrastrutture e trasporti con le Parti sociali in data 20 marzo 2020; quello del 24 aprile 2020, di carattere generale; e quello per i cantieri siglato da Ministero delle infrastrutture e trasporti, Ministero del Lavoro, Parti sociali, ANCI, UPI, ANAS sempre in data 24 aprile 2020. Sulla natura ed efficacia dei Protocolli si è subito acceso un dibattito, soprattutto ai fini della individuazione delle conseguenze (sanzionatorie) in caso di condotte non conformi ai relativi contenuti sia per le attività che sarebbero riprese il 4 maggio sia per quelle già consentite. A legittimare l’efficacia di tali Protocolli ha provveduto l’art. 2, comma 6, del d.P.C.M. 26 aprile 2020, prevedendo l’obbligo (“Le imprese … rispettano”) per le imprese le cui attività non sono sospese, di rispettare i contenuti dei Protocolli allegati al d.P.C.M., ed ove non assicurati adeguati livelli di protezione, la sospensione dell’attività fino al ripristino delle condizioni di sicurezza. Obbligo poi ribadito nel successivo comma 10. Quindi, ai contenuti dei Protocolli il d.P.C.M. 26 aprile 2020 ha conferito natura di misure di contenimento, la cui violazione è sanzionabile ai sensi dell’art. 4, decreto legge 25 marzo 2020, n. 19 nonché delle disposizioni del d.lgs. n. 81/2008 in relazione alla specifica misura di prevenzione violata. In altre parole, i protocolli, pur dettando linee guida per il contenimento del virus nei luoghi di lavoro, avrebbero natura diversa dalle linee guida ex art. 2, lett. u) e v), d.lgs. n. 81/2008. Tale interpretazione ha ricevuto l’avallo dapprima della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Genova, che ha fornito indicazioni operative agli organi di vigilanza con nota del 28 aprile 2020 e, di seguito, dal Ministero degli Interni con la circolare del 2 maggio 2020. Venuta meno, a partire dal 18 maggio 2020, la [continua ..]
Superato in qualche modo il problema della natura e dell’efficacia della normativa emergenziale è prepotentemente emerso quello del raccordo tra quest’ultima e il T.U. del 2008, ovviamente anche in proiezione sanzionatoria, ponendosi quello dell’incidenza della normativa anti contagio sui vari obblighi disseminati nel T.U.; raccordo reso ancor più problematico dalla ristrettezza dei tempi a disposizione per gli eventuali adeguamenti. 3.1. L’adeguamento o l’integrazione del DVR Il primo problema, seguendo la logica del T.U del 2008., è quello della necessità o meno di provvedere all’adeguamento/integrazione del DVR. Secondo la circolare del Ministero della Salute del 29 aprile 2020, in ragione della definizione di valutazione dei rischi di cui all’art. 28, d.lgs. n. 81/2008 e dell’obbligo di rielaborazione del documento di cui all’art. 29, comma 3, d.lgs. n. 81/2008, il DVR deve essere integrato con le misure e le indicazioni contemplate dai protocolli recepiti nel d.P.C.M. 26 aprile 2020 [2]. Di opinione decisamente contraria è Paolo Pascucci secondo cui non vi sarebbe un obbligo di adeguamento del DVR in quanto il fatto che il coronavirus si insinua nelle organizzazioni produttive in cui operano persone che lavorano, non lo tramuta in un rischio professionale specifico (salvo che per alcune attività lavorative, come quelle sanitarie e ospedaliere) e pertanto rimane un rischio generico che non nasce dall’organizzazione produttiva posta in essere dal datore. Del resto, si sostiene, il coronavirus è un agente biologico “esterno” e integra ipotesi diversa da quelle regolate dalla specifica disciplina in materia contenuta nel d.lgs. n. 81/2008. La valutazione di quel rischio è stata effettuata a monte dall’autorità pubblica che ha imposto al datore di lavoro di modificare la propria organizzazione, pertanto, le misure previste dai protocolli recepiti nel d.P.C.M. e le conseguenti modifiche che il datore apporta alla propria organizzazione non sono il frutto di una sua libera determinazione, ma rispondono all’obbligo di ottemperare a un ordine della pubblica autorità, mentre la valutazione dei rischi e i relativi obblighi di adeguamento /rielaborazione sono intimamente collegati al fatto che il datore di lavoro è colui che esercita i poteri decisionali e di spesa [3]. 3.2. [continua ..]
Il lavorare in sicurezza a fronte di una epidemia porta in primo piano due capisaldi della normativa prevenzionale, quali il ruolo del medico competente e la sorveglianza sanitaria, ampliando il primo e richiedendo una rimodulazione della seconda. Si ripropone ancora una volta l’interazione tra la normativa emergenziale anti contagio e quella generale incidendo la prima sulla seconda in senso sia limitativo sia ampliativo. Partendo dal ruolo del medico competente, il suo compito principale è quello di supportare il datore di lavoro nella attuazione delle misure di prevenzione e di protezione individuate dai Protocolli recepiti nel d.P.C.M. 26 aprile 2020 [11]. In particolare, secondo il Ministero della Salute, il medico competente deve collaborare nell’attività di informazione e formazione dei lavoratori, anche al fine di evitare la diffusione di fake news nonché collaborare con il datore di lavoro nella valutazione del rischio, e dunque nella integrazione del DVR (supra), per l’attuazione delle misure idonee a prevenire il rischio di infezione da Covid-19. Va ricordato che l’adempimento ex art. 40, comma 1, d.lgs. n. 81/2008 (comunicazione annuale dei lavoratori sottoposti a sorveglianza sanitaria) è slittato dal 31 marzo al 31 luglio 2020, salvo ulteriori rinvii [12]. Più complesso è il discorso sulla sorveglianza sanitaria e sulle visite mediche per la rilevanza che esse hanno in funzione della prevenzione del contagio. Il Dicastero della Salute, nella richiamata circolare del 29 aprile 2020, ha chiarito che alcune visite mediche devono essere garantite e non si può prescindere dal contatto diretto tra medico competente e lavoratore in quanto devono essere realizzate in presenza e non a distanza. A tale riguardo viene operato un distinguo, ritenendosi differibili la visita medica periodica e quella di fine rapporto; viceversa, sono qualificate come prioritarie la visita mediche preventiva, anche in fase preassuntiva, quella su richiesta del lavoratore e, infine, quella in occasione di cambio mansione e per quest’ultima il medico competente deve valutarne l’urgenza e l’indifferibilità anche alla luce dello stato di salute del lavoratore all’epoca dell’ultima visita effettuata nonché dei rischi specifici connessi alla futura mansione. Imprescindibile è poi la visita [continua ..]
Gli accertamenti sanitari aziendali in funzione di contrasto al contagio, ma anche di tutela del singolo lavoratore, non possono prescindere dai pregnanti limiti posti dalla tutela della privacy, in ragione dei dati sensibili trattati e delle misure, a volte invasive, previste. Il protocollo 24 aprile 2020 (par. 2) disciplina le modalità di ingresso in azienda, prevedendo che debba essere effettuato il controllo della temperatura e se questa risulta superiore a 37.5° debba essere inibito l’accesso ai locali aziendali. Inoltre, bisogna informare il personale che ha avuto contatti con soggetti positivi o provenga da zone a rischio; per lavoratori positivi occorre il certificato medico di avvenuta negativizzazione; ed infine nelle zone più esposte a rischio occorre il tampone da parte dell’autorità sanitaria competente. A fronte di tali misure il Comitato europeo per la protezione dei dati ha adottato il 19 marzo 2020 il Documento EDPB per la protezione dei dati rilevati per il contenimento del contagio, statuendo che “i datori di lavoro possono ottenere informazioni personali nella misura necessaria ad adempiere i loro obblighi e ad organizzare l’attività lavorativa conformemente alla legislazione nazionale”. Poiché può ricondursi alla legislazione nazionale quanto previsto dal protocollo (supra), è da ritenersi legittima la raccolta delle informazioni testé richiamate, col doppio limite della non diffusione dei dati e del rispetto della posizione del lavoratore ai fini della tutela della dignità della persona. Sulla misurazione della temperatura dei lavoratori, ma anche per l’acquisizione dei dati di carattere sanitario, si è sviluppato un ampio dibattito in ordine alla loro legittimità alla luce della normativa a tutela della privacy (Reg. (UE) n. 679/2016 GDPR) [18]. Tenendo conto che la base giuridica, sia per la misurazione della temperatura, sia per l’acquisizione dei dati di carattere sanitario, è rappresentata dai Protocolli di sicurezza (della cui efficacia si è detto), l’orientamento prevalente è quello di ritenere entrambe queste precauzioni legittime ma garantendo la non divulgazione dei dati raccolti e il trattamento circoscritto alle finalità connesse al contrasto dell’epidemia, escludendosi qualsiasi ulteriore [continua ..]
Alla violazione delle disposizioni di cui ai d.P.C.M. 26 aprile 2020 (applicabile dal 4 al 17 maggio 2020) e 17 maggio 2020 (applicabile dal 18 maggio al 14 giugno 2020) consegue l’applicabilità delle sanzioni introdotte con il decreto legge n. 19/2020, confermate dal successivo decreto legge n. 33/2020 [20], salvo che il fatto non costituisca reato (art. 4, comma 1), in caso di violazione di norme specifiche in materia di salute e sicurezza (v. infra). Il profilo più problematico in tema di sanzioni riguarda senza dubbio il riparto di competenze con riferimento sia all’accertamento sia all’irrogazione delle sanzioni. 6.1. La competenza in tema di accertamenti Il Prefetto, a cui è demandato il compito di assicurare e monitorare l’applicazione delle misure stabilite dai d.P.C.M., si avvale per la salute e sicurezza nei luoghi di lavoro del personale dell’INL e del Nucleo Carabinieri per la Tutela del Lavoro (ex NIL, ora NCTL operante comunque nell’ambito dell’INL) [21]. Questa collaborazione tra Prefetture e INL realizza un sistema “ibrido” di controlli e determina la necessità che l’attività dell’INL si attenga alla finalità perseguita, che è quella di vigilare sullo svolgimento in sicurezza delle attività produttive, dovendosi, pertanto, escludere ambiti di intervento ultronei. Tale limitazione non esclude, ovviamente, che ove emergano nel corso dell’ispezione irregolarità riconducibili alla vigilanza ordinaria questa possa avere corso in momenti sfalzati [22]. 6.2. La competenza per irrogare le sanzioni Non meno complesso è il riparto di competenza per irrogare le sanzioni previste dall’art. 4, decreto legge n. 19/2020, confermate dall’art. 2. decreto legge n. 33/2020. Se la violazione riguarda al contempo misure previste dai Protocolli e misure di prevenzione specifiche del d.lgs. n. 81/2008, la competenza a irrogarle segue il riparto stabilito dall’art. 13, e, dunque, INL e NCTL vigilanza per l’inosservanza della normativa in materia di salute e sicurezza prevalentemente nel settore dell’edilizia e dei cantieri mobili, mentre la competenza in via generale spetta al personale di vigilanza delle ASL. In simili casi si procede con il provvedimento di prescrizione previsto per i reati di natura contravvenzionale dall’art. [continua ..]
L’art. 2, comma 6, d.P.C.M. 26/4/2020, e di seguito l’art. 1, comma 15, decreto legge n. 33/2020, dispongono che in caso di violazione delle misure di contenimento previste dai tre protocolli allegati al d.P.C.M. di aprile (applicabili dal 4 maggio al 17 maggio 2020), riproposte dal d.P.C.M. 17 maggio 2020 (per il periodo dal 18 maggio al 14 giugno 2020), l’attività sia sospesa sino al ripristino delle condizioni di sicurezza. La previsione di tale sospensione nel decreto legge n. 33/2020 ha risolto il dubbio sollevato sulla sanzione ex art. 2, comma 6, d.P.C.M. 26 aprile 2020 che, pur apprezzabile per le finalità perseguite, non poteva essere applicata in quanto trovava la sua fonte in un atto amministrativo che, come tale, non può derogare a una norma legale, facendosi specifico riferimento alla sospensione di cui all’art. 4, commi 1 e 2, decreto legge n. 19/2020 (che, peraltro, rende non necessaria la previsione sanzionatoria introdotta in via amministrativa) [26]. In ogni caso tale sospensione non va confusa con quella di cui all’art. 14, d.lgs. n. 81/2008 e va, altresì, tenuta distinta dalla sanzione di cui all’art. 4, decreto legge n. 19/2020 (sospensione da 5 a 30 giorni) La sanzione amministrativa accessoria della chiusura dell’esercizio, di cui agli artt. 4, comma 2, decreto legge n. 19/2020 e 2, comma 1, decreto legge n. 33/2020, si applica “salvo che il fatto costituisca reato” diverso da quello ex art. 650 c.p. (incipit dell’art. 4, comma 1), vale a dire che essa è applicabile ove l’omissione delle misure di contenimento previste dai protocolli non costituisca al contempo violazione di misure specifiche stabilite dal d.lgs. n. 81/2008 (che, nella gran parte dei casi riconduce tali omissioni nell’alveo dei reati contravvenzionali) [27]. A tale soluzione interpretativa potrebbe obiettarsi che il “salvo” si riferisca solo alle sanzioni pecuniarie, ma la evidente connessione tra i due commi e soprattutto il carattere di accessorietà della sanzione della chiusura rende tale obiezione priva di fondamento. Ai fini dell’applicabilità della sanzione della sospensione di cui all’art. 4, comma 2, occorre tenere presente quanto stabilito dal comma 4 della medesima disposizione, in virtù del quale l’autorità procedente può [continua ..]
Le ricadute dell’epidemia sui datori di lavoro in termini di oneri economici ed organizzativi aumentano con riferimento alla tutela antinfortunistica, in quanto il Governo ha inteso riconoscere a chi contrae il virus in occasione di lavoro la tutela prevista per l’infortunio, equiparandosi la causa virulenta alla causa violenta [28]. Ai fini della prova della occasione di lavoro si distingue tra il rischio da infezione generico e quello specifico. Quello specifico ricorre in relazione a particolari tipi di attività, specie in ambito sanitario o nelle attività che richiedono il contatto col pubblico. La presunzione dell’origine professionale (operando il meccanismo presuntivo tipico delle malattie professionali), si ritiene sussistere in 4 casi, di cui 2 riferiti a rischio specifico e due a rischio generico; quest’ultimo ricorre per contatti con colleghi di lavoro infetti o per l’utilizzo di mezzi di trasporto pubblico (trattandosi, in questi casi di infortunio in itinere). La tutela è accordata anche ai parasubordinati. Inoltre, gli eventi non incidono sul tasso medio di premio (art. 42, comma 2, decreto legge n. 18/2020). Anticipandolo con un comunicato stampa del 15 maggio 2020, l’INAIL ha ritenuto opportuno escludere ogni ipotesi di automatismo ai fini dell’ammissione a tutela dei casi denunciati, ribadendo l’operatività dei consueti oneri probatori, ma soprattutto evidenziando che il riconoscimento dell’origine professionale del contagio è totalmente avulso da ogni valutazione in ordine alla imputabilità di eventuali comportamenti omissivi in capo al datore di lavoro che possano essere stati causa del contagio. Non possono, perciò, confondersi i presupposti per il riconoscimento della tutela con quelli per la responsabilità civile e penale, che devono essere rigorosamente accertati con criteri diversi, occorrendo a tal fine la prova dell’imputabilità quanto meno a titolo di colpa della condotta tenuta da datore di lavoro. L’Istituto conclude affermando che, pertanto, la responsabilità del datore di lavoro è ipotizzabile solo in caso di violazione della legge o di obblighi derivanti dalle conoscenze sperimentali o tecniche, che nel caso dell’epidemia da Covid-19, si possono rinvenire nei protocolli e nelle linee guida governative o [continua ..]
Un datore di lavoro, terminata la lettura di queste brevi riflessioni, potrebbe legittimamente fare la seguente considerazione: il legislatore e l’Esecutivo hanno predisposto un articolato e completo apparato che garantisce ai lavoratori di “lavorare in sicurezza” e, in mancanza, di godere della tutela antinfortunistica, dimenticando però di fare altrettanto per consentire a lui di “fare impresa in sicurezza”, come se di tutti i problemi connessi alla ripresa debba farsi carico solo l’impresa e non anche i lavoratori; questi ultimi mal che vada, terminato il blocco dei licenziamenti, saranno sempre tutelati da un ammortizzatore sociale o dal reddito di cittadinanza. Se questa è la premessa, si fa davvero fatica a pensare ad una ripresa che consenta di recuperare la perdita dei 13 punti di PIL realisticamente prevista per il 2020 dal Governatore della Banca d’Italia; se per recuperare uno striminzito punticino rispetto alla crisi del 2008 ci sono voluti 12 anni, per recuperarne 13 ci vorrà un secolo e mezzo! Circoscrivendo la riflessione finale al tema esaminato del “lavorare in sicurezza”, occorre un immediato ed incisivo adeguamento del quadro normativo di riferimento alla nuova e non transitoria condizione economica del nostro Paese, già auspicato da tutti i commentatori qui citati, che senza alcun disegno preordinato hanno all’unisono, ciascuno per il profilo esaminato, invocato un intervento legislativo sulla normativa prevenzionale [32], sull’art. 5, legge n. 300/70 [33] e sul T.U. in tema di infortuni sul lavoro e malattie professionali [34].