Massimario di Giurisprudenza del LavoroISSN 0025-4959
G. Giappichelli Editore

indietro

stampa articolo indice fascicolo leggi articolo leggi fascicolo


Licenziamento per superamento del comporto: un “rebus” ancora da risolvere? (di Paolo Pizzuti, Professore associato di Diritto del lavoro – Università degli Studi del Molise)


Il saggio è volto ad analizzare le conseguenze del licenziamento intimato dal datore di lavoro nei confronti del lavoratore durante il periodo di comporto. L'analisi prende le mosse dal dettato normativo dell'art. 2110, comma 2, c.c., approfondisce i principali indirizzi giurisprudenziali e dottrinali in materia, soffermandosi sui cambiamenti che hanno interessato l'istituto e che sono intervenuti sia nel diritto vivente, con diverse pronunce della Corte di Cassazione, che in quello positivo, con la legge n. 92/2012 e, da ultimo, con il d.lgs. n. 23/2015.

Dismissal and respite period: is the “rebus” still to solve?

The essay deals with the dismissal of the employee during the so called “time of respite”, which is the length of time the worker can keep his job while he's off sick. The Author analyzes the several legal issues related with the topic, with special regard to the most influencing case law and the legal consequences of the unfair termination of the contract as they are described by the Fornero Act and the Jobs Act.

SOMMARIO:

1. Libera recedibilità e inefficacia del licenziamento intimato durante il periodo di comporto - 2. Principio di giustificazione necessaria del licenziamento e divaricazione delle tutele tra inefficacia e nullità - 3. Il quadro normativo dopo la modifica dell’art. 18 St. lav. e la riforma introdotta dal d.lgs. n. 23/2015 - 4. La Sezioni Unite confermano la tesi della nullità: le conseguenze sulla giurisprudenza successiva - 5. Conclusioni. Le aporie del sistema tra diritto positivo e diritto vivente - NOTE


1. Libera recedibilità e inefficacia del licenziamento intimato durante il periodo di comporto

Il licenziamento del lavoratore in malattia per molto tempo ha avuto come unico riferimento normativo l’art. 2110 del codice civile, sicché il compito di mettere a punto il funzionamento dell’istituto è stato via via svolto dalla dottrina e dalla elaborazione giurisprudenziale [1]. Alcune questioni hanno trovato ormai una soluzione definitiva, come ad esempio, tra le più importanti, la riconduzione della c.d. eccessiva morbilità nell’ambito del periodo di comporto [2]. Rimane tuttora controversa, invece, la questione delle conseguenze del licenziamento motivato dal superamento del periodo di comporto ma intimato prima del suo compimento [3]. Al riguardo, negli ultimi anni due avvenimenti hanno sconvolto il precedente quadro di riferimento: dapprima la riforma dei licenziamenti, cioè la modifica dell’art. 18 St. lav., seguita dal “silenzioso” (sul punto) d.lgs. n. 23/2015; e, dopo poco, l’intervento della Corte di Cassazione a Sezioni Unite del 2018 [4] che ha qualificato come nullo il licenziamento in questione. Il tema ci impone di tornare, seppur brevemente, su alcuni aspetti di fondo del­l’art. 2110 c.c., da cui occorre muovere per esaminare la problematica in esame. È in primo luogo opinione condivisa che l’art. 2110 c.c. realizza un contemperamento tra gli interessi coinvolti nel contratto di lavoro, garantendo la stabilità del rapporto durante l’assenza del lavoratore senza però che il rischio dell’impedimento ricada interamente sull’imprenditore. A tal fine, l’art. 2110 c.c., da un lato, preclude temporaneamente ogni valutazione in merito all’interesse creditorio, stante la situazione di malattia del dipendente, e, dall’altro lato, sostituisce la valutazione caso per caso degli effetti dell’assenza con una predeterminazione standard del sacrificio sopportabile dal datore di lavoro. La norma, in sostanza, conferma l’operatività del principio generale, tipico dei contratti di durata, secondo cui l’interruzione momentanea della prestazione non determina automaticamente una disfunzionalità causale del contratto [5]. L’effetto risolutivo, secondo le regole civilistiche in materia di impossibilità parziale e temporanea della prestazione (art. 1464 e art. 1256, comma 2, c.c.), si determina soltanto con il venir meno [continua ..]


2. Principio di giustificazione necessaria del licenziamento e divaricazione delle tutele tra inefficacia e nullità

La situazione è mutata profondamente con l’avvento del principio di giustificazione necessaria del licenziamento (legge n. 604/1966), il quale ha sollevato diversi interrogativi sull’art. 2110 c.c., alcuni tuttora irrisolti. In primo luogo, ci si è chiesti se alla fine del periodo di interdizione il licenziamento dovesse seguire la regola codicistica della libera recedibilità ovvero se fosse applicabile il regime ormai vigente, cioè appunto quello che prevede la giustificazione del licenziamento. Come è noto, si è ben presto radicata l’idea secondo cui l’art. 2110 c.c. costituisce un’ipotesi speciale di recesso, nella quale il superamento del limite del comporto supporta il licenziamento a prescindere dalla disciplina delle obbligazioni e dal sistema speciale della legge n. 604/1966, compreso il c.d. repechage. L’art. 2110 c.c., dunque, limita cronologicamente la possibilità di disporre il licenziamento e, allo stesso tempo, crea una distinta e autonoma ipotesi di recesso esercitabile per il solo fatto che la malattia del dipendente si protragga oltre il periodo di comporto [12]. Con questa impostazione, il superamento del comporto – che in precedenza determinava semplicemente il ritorno al regime di libera recedibilità – è assurto invece a vero e proprio motivo autonomo di licenziamento, esterno e non contemplato dalla legge n. 604/1966, tant’è che, ove in realtà il comporto non sia stato superato, la giurisprudenza parla di un licenziamento sostanzialmente ingiustificato, cioè di un provvedimento che “all’atto della sua intimazione, è ancora sprovvisto di giusta causa o giustificato motivo” [13]. Un recesso, dunque, non più viziato (soltanto) per violazione del periodo di interdizione, come avveniva all’epoca della libera recedibilità, ma radicalmente privo del suo presupposto sostanziale e giustificativo, cioè appunto il superamento del comporto [14]. Anzi, secondo un’affermazione ricorrente, su cui torneremo più avanti, sarebbe proprio questa carenza di motivazione a determinare l’invalidità di esso, “non essendo logicamente configurabile un diritto datoriale di recesso anteriore al realizzarsi della relativa situazione giustificativa” [15]. Quanto alle conseguenze di tale vizio, nelle aziende [continua ..]


3. Il quadro normativo dopo la modifica dell’art. 18 St. lav. e la riforma introdotta dal d.lgs. n. 23/2015

Dopo diversi decenni di silenzio, il licenziamento per superamento del comporto è stato nuovamente preso in considerazione dal legislatore nella riforma dell’art. 18 St. lav., intervenuta con la legge n. 92/2012. La norma statutaria, nella sua versione attuale, ha codificato le varie ipotesi di nullità del licenziamento, confermando quella tendenza legislativa che sembra volta a limitare, o a superare definitivamente, le ipotesi di nullità di diritto comune [26]. Essa, in particolare, assoggetta alla sanzione della reintegrazione situazioni già in precedenza colpite da nullità, come il licenziamento per causa di matrimonio o di maternità, ma anche tutte le ipotesi riconducibili ad altri casi di nullità previsti dalla legge o determinati da un motivo illecito determinante ai sensi dell’art. 1345 c.c., nonché il licenziamento intimato in forma orale. A fronte di ciò, il licenziamento illegittimo per violazione dell’art. 2110 c.c. non è stato inserito tra le ipotesi di nullità, bensì trattato alla stregua di un licenziamento ingiustificato, anche se di tipo “grave”, in base al combinato disposto dei commi 4 e 7 dell’art. 18 St. lav., cioè con la reintegrazione ed il risarcimento del danno sino ad un massimo di 12 mensilità di retribuzione. Il legislatore, dunque, ha stabilito di non assegnare al recesso per superamento del periodo di comporto lo “scudo della nullità” [27], previsto invece per altri casi apparentemente analoghi [28]. Non solo, a distanza di tre anni dalla riforma dell’art. 18 St. lav., la materia del licenziamento è stata profondamente innovata dal d.lgs. n. 23/2015, il quale nuovamente non contempla il licenziamento in esame nella disposizione relativa ai licenziamenti nulli (l’art. 2). La scelta sembra consapevole, poiché l’ipotesi di licenziamento per la sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore, prevista dal comma 7 dell’art. 18, è stata contestualmente rimossa dall’area della ingiustificatezza e collocata, anche se in forma diversa, nell’area delle nullità mediante il riferimento alla disabilità fisica o psichica [29]. Rimane dunque la sensazione, in un contesto normativo come quello che si è descritto, che se il legislatore avesse voluto inserire il licenziamento per [continua ..]


4. La Sezioni Unite confermano la tesi della nullità: le conseguenze sulla giurisprudenza successiva

Come si è visto, l’interpretazione giurisprudenziale del licenziamento per superamento del comporto non è stata costante nel tempo, anche in virtù dei mutamenti intervenuti nel diritto positivo. Inizialmente, per un principio di conservazione degli atti giuridici (art. 1367 c.c.), qualunque licenziamento intimato durante il periodo di comporto era considerato valido e provvisoriamente inefficace, fino alla guarigione del lavoratore o fino alla scadenza del comporto. Dopo l’emanazione della legge n. 604 del 1966, è invece divenuta dominante l’idea di distinguere tra il licenziamento intimato per motivi diversi dalla malattia, considerato pacificamente inefficace, e quello connesso al superamento del comporto, per il quale la giurisprudenza ha oscillato tra l’inefficacia e il vizio di nullità [40]. La questione veniva rimessa alle Sezioni Unite della Cassazione [41], le quali hanno optato decisamente per la tesi della nullità. In particolare, i precedenti favorevoli a tale tesi, richiamati nella sentenza delle Sezioni Unite [42], si basavano sostanzialmente sul fatto che al momento del recesso il presupposto giustificativo di esso, cioè il superamento del comporto, non è ancora del tutto maturato: tale circostanza avrebbe segnato la differenza tra il licenziamento intimato durante il comporto ma per altre ragioni (inefficace) e quello motivato dal superamento del comporto (nullo). A ben vedere, però, la mancata maturazione del comporto non attiene logicamente alla nullità del licenziamento, ma ne costituisce piuttosto un requisito di motivazione, astrattamente collegato, quindi, più alla annullabilità che alla nullità del provvedimento [43]. D’altro canto, anche il recesso motivato da ragioni diverse dal comporto colpisce potenzialmente il bene protetto dall’art. 2110 c.c., cioè la stabilità del posto di lavoro, eppure la semplice inefficacia del provvedimento riesce adeguatamente a realizzare il corretto meccanismo di funzionamento della norma. La sentenza delle Sezioni Unite, invece, opera un cambio di passo, fondando la propria decisione direttamente sulla natura di norma imperativa dell’art. 2110 c.c., il quale, letto in combinato disposto con l’art. 1418 c.c., non consentirebbe soluzioni diverse dalla nullità. L’imperatività della norma deriva, secondo la [continua ..]


5. Conclusioni. Le aporie del sistema tra diritto positivo e diritto vivente

Per quanto si è visto, l’apparato sanzionatorio relativo al licenziamento per superamento del comporto può essere definito ormai come un vero e proprio “rebus” destinato “a solutori assai abili” [56]. Emerge in particolare una divaricazione tra l’ordito normativo, che non cataloga espressamente il licenziamento in esame tra le ipotesi di nullità, e il diritto vivente giurisprudenziale [57], ormai dominante, che invece lo considera nullo per contrasto con l’art. 2110 c.c. e con l’art. 32 Cost. (anche se, come si è visto, con soluzioni applicative non sempre univoche). In particolare, il disegno del legislatore sembra tendere ad una certa modulazione delle garanzie, in un’ottica di bilanciamento degli interessi coinvolti nel rapporto di lavoro, utilizzando sia la tutela ripristinatoria che quella di tipo indennitario [58]. L’operazione è stata messa in atto, o almeno tentata, in cinque mosse: la mancata inclusione del licenziamento per superamento del comporto tra le ipotesi di nullità, di cui al comma 1 dell’art. 18; la espressa inclusione di esso nel comma 7 della norma, che (rinviando al comma 4) sanziona il recesso (gravemente) ingiustificato; nuovamente, la mancata inclusione del licenziamento in questione nella disposizione sulle nullità del d.lgs. n. 23/2015; il riferimento ai soli casi di nullità “espressamente” previsti dalla legge inserito nel primo comma dell’art. 2 del decreto; la previsione tra le nullità del (solo) licenziamento per disabilità, e non di quello per superamento del comporto, sempre per i nuovi assunti. Si aggiunga poi che lo stesso legislatore, e ancor prima la Corte Costituzionale, ha dichiarato nullo il licenziamento intimato alla donna lavoratrice nel periodo di gestazione e di puerperio, segnando così la differenza tra quella ipotesi e il recesso in esame. Tuttavia, proprio l’avvento delle c.d. “tutele crescenti” ha reso concreta per la prima volta (nelle aziende grandi) [59] la possibilità di una tutela meramente economica, dato che nel d.lgs. n. 23/2015 l’ingiustificatezza del licenziamento comporta l’applicazione di una indennità ma non la reintegrazione in servizio (fatto salvo il caso, non pertinente, di insussistenza del fatto disciplinare). Una possibilità che, invece, in passato era [continua ..]


NOTE