La fulminea e repentina diffusione dello smart working durante la vissuta emergenza sanitaria ha fatto emergere talune criticità relative alla declinazione delle regole in materia di salute e sicurezza dei lavoratori. L’attuale disciplina normativa sembra essere inadeguata rispetto alla difficoltà oggettiva del datore di potere procedere a una preventiva valutazione dei rischi presenti all’interno dell’ambiente lavorativo, essendo quest’ultimo, nella maggior parte dei casi, sottratto alla sua disponibilità giuridica. Pertanto ricadrà sul lavoratore la determinazione di una postazione di lavoro “sicura”, dovendo egli evitare di svolgere la prestazione in luoghi che possano esporlo a rischi.
L’Autrice suppone la possibilità di ricorrere ad una logica precauzionale di prudenza che potrebbe regolare i comportamenti del datore rispetto (soprattutto) a quei rischi, connessi a tale tipo di prestazione, che non sono facilmente valutabili in quanto ancora ignoti in termini di ricadute sulla persona del lavoratore e sulla sua personalità, nonché nei confronti dei terzi presenti all’interno del luogo di lavoro prescelto.
The rapid and sudden diffusion of smart working during the experienced health emergency has highlighted certain critical issues regarding the implementation of rules concerning the health and safety of workers. The current regulatory framework appears inadequate in relation to the objective difficulty faced by employers in conducting a preliminary assessment of the risks present within the work environment, as the latter is often beyond their legal control. Consequently, it will be the responsibility of the worker to determine a "safe" workstation, avoiding the performance of tasks in locations that may expose them to risks.
The author suggests the possibility of resorting to a precautionary logic of prudence that could govern the behaviors of employers, particularly regarding those risks associated with this type of employment that are not easily assessable due to being unknown in terms of their impact on the worker’s well-being and personality, as well as towards third parties present in the chosen workplace.
1. Smart working e indeterminatezza del luogo di lavoro - 2. La precauzione come strumento di realizzazione dell’obbligazione di sicurezza nel lavoro da remoto - 3. Il lavoro agile: moltiplicatore di fattori di rischio ignoti - 4. Il lavoratore agile e la precauzione nei confronti dei terzi - NOTE
Implementato dall’emergenza sanitaria, in particolare durante la prima drammatica fase in cui è stato necessario procedere alla chiusura di tutte le attività per evitare il diffondersi del virus Sars CoV-2, il lavoro agile [1] oggi rappresenta un elemento che ha destrutturato e profondamente trasformato il mercato del lavoro globale. I primi germi della sua evoluzione sono da ricercare nell’utilizzo massivo delle nuove tecnologie connesso al rapido incedere della quarta rivoluzione industriale. Che lo smart working fosse una fattispecie già nota prima della pandemia è testimoniato dall’esistenza del dato normativo che lo ha compiutamente regolamentato nel 2017 (d.lgs. n. 81). Ciononostante, il lavoro agile ha stentato ad affermarsi [2] finché non si è giunti a una sua sperimentazione forzata e fulminea con il primo lockdown [3]. E forse proprio la repentina diffusione dello stesso ha fatto emergere talune criticità con riferimento all’ambito della tutela della salute e sicurezza dei lavoratori. In realtà, va chiarito che la tipologia contrattuale utilizzata durante la lunga fase pandemica ha avuto soprattutto le caratteristiche dell’home working [4], giacché la prestazione lavorativa doveva essere circoscritta, per forza di cose, entro le mura domestiche [5]. La peculiarità dello smart working consiste invece proprio nella facoltà riconosciuta al lavoratore di determinare di volta in volta il luogo della prestazione; è proprio tale indeterminatezza della postazione lavorativa a rendere più complessa l’applicabilità dell’attuale regime regolatorio in materia di salute e sicurezza. Il d.lgs. n. 81/2017 si era dedicato in maniera molto sbrigativa alla tematica. All’interno di esso infatti sono contenute laconiche indicazioni al riguardo. La norma più significativa è l’art. 22, rubricato “sicurezza sul lavoro” secondo cui “Il datore di lavoro garantisce la salute e la sicurezza del lavoratore che svolge la prestazione in modalità di lavoro agile e a tal fine consegna al lavoratore e al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, con cadenza almeno annuale, un’informativa scritta nella quale sono individuati i rischi generali e i rischi specifici connessi alla particolare modalità di esecuzione del rapporto di lavoro. Il [continua ..]
Durante le fasi più acute della pandemia il lavoro agile è assurto a strumento di protezione della salute e della sicurezza dei lavoratori e, prima ancora, di tutela della salute pubblica rispetto a un rischio (epidemiologico) esterno imprevisto e imprevedibile ed è quindi lecito affermare che le misure governative, che di volta in volta lo hanno regolamentato, siano state ispirate da una logica di precauzione più che di prevenzione [20]. Attraverso il ricorso al lavoro agile è stato infatti possibile contenere i contagi, permettendo ai lavoratori, la cui prestazione fosse “telelavorabile”, di lavorare da casa. Ora che la pandemia volge al termine e che lo smart working ha perso la connotazione emergenziale e sta diventando un istituto strutturale all’interno del mercato del lavoro, il principio di precauzione [21] può ancora soccorrere a regolare i comportamenti del datore rispetto ai rischi connessi a tale tipo di prestazione, che non sono facilmente valutabili. Secondo tale principio l’insufficienza o l’assenza di certezza scientifica non possono costituire un valido motivo per la mancata o tardiva adozione delle misure adeguate al contenimento del rischio e all’eliminazione del pericolo. Più precisamente, la precauzione si sostanzia in un insieme di regole cautelative provvisorie deputate alla gestione del rischio di danni gravi a beni fondamentali quali l’ambiente e la salute, in condizioni di seria incertezza scientifica sull’an e sul quomodo del danno sospettato. L’indeterminatezza della postazione lavorativa nonché i confini sfumati della stessa comportano (come detto nel par. 1) la difficoltà del datore di lavoro di individuare, e dunque prevenire efficacemente, tutti i rischi (fisici e psichici) connessi allo svolgimento della prestazione in modalità agile. A ben vedere il TU n. 81/2008 non era stato insensibile all’esigenza di dovere tenere in considerazione il legame tra evoluzione tecnologica e lavoro sicuro [22], preannunciando che la valutazione dei rischi dovesse riguardare anche l’esposizione a pericoli non visibili, derivanti da modelli di organizzazione del lavoro diversi da quelli tradizionali, da fattori sociali o dall’uso di nuove tecnologie per le quali non è stata ancora varata alcuna norma tecnica di riferimento. Pertanto, anche nell’ambito del lavoro agile, [continua ..]
Il composito sistema regolatorio della sicurezza per i lavoratori agili non appare sufficiente a garantire agli stessi la protezione da tutti i rischi derivanti da tale modalità lavorativa. Se è vero che durante la fase pandemica il lavoro da remoto è divenuto strumento elettivo per la tutela della salute pubblica, non si può negare che esso abbia fatto emergere nuovi e specifici rischi per la salute dei lavoratori [31]. Tali rischi non sono collegati solo alle patologie fisiche, tipiche del lavoro al videoterminale (quali l’affaticamento della vista, la postura non corretta, la scarsa illuminazione), ma si riferiscono altresì alle peculiarità dei contesti organizzativi in cui gli smart workers operano. Grazie alla recente implementazione del lavoro agile è stato possibile valutare concretamente gli effetti distonici dello stesso. Tale modalità lavorativa ha il merito di ridurre taluni rischi, affievolendone l’impatto sia sulla persona del lavoratore – si pensi ad esempio a quelli relativi a malattie psicosomatiche, da esposizione ad ambienti insalubri, o a quelli legati agli spostamenti verso i luoghi di lavoro – che sull’ambiente sociale, dal momento che diminuisce le emissioni di Co2, proprio grazie alla limitazione degli spostamenti [32]. Ma è stata evidente anche l’insorgenza (o l’acutizzazione) di fattori di rischio ancora ignoti, strettamente dipendenti dalle specifiche modalità, spaziali e temporali, di esecuzione della prestazione. Il lavoratore agile appare particolarmente esposto all’intensificazione dei ritmi (iper connessione, overworking, dipendenza tecnologica, assenza di tempi di recupero), all’isolamento e alla confusione dei confini tra spazi/tempi lavorativi e non lavorativi. La combinazione tra ambiente professionale e ambiente personale, l’assenza di interazione con i colleghi di lavoro, con il datore e con i superiori gerarchici contribuiscono alla comparsa di patologie inedite come il workaholism [33] e il tecnostress [34]. Per proteggere i lavoratori dai pericoli dell’always-on che li espone ad «uno stato permanente di allerta reattiva circa il soddisfacimento delle richieste del datore di lavoro», già il legislatore del 2017 si era preoccupato, in un’ottica solo apparentemente preventiva, di affidare all’accordo tra le parti il compito di [continua ..]
Analogamente allo svolgimento delle attività lavorative presso la sede aziendale, lo smart worker deve osservare una regola di prudenza nei confronti dei terzi che gravitano nell’ambiente in cui sceglie di svolgere la propria prestazione lavorativa. La giurisprudenza di legittimità più in generale estende l’applicabilità delle norme in materia di salute e sicurezza anche a tutela dei terzi, cioè di tutti coloro che, per una qualsiasi legittima ragione, accedono presso un "luogo di lavoro", che debba essere munito, anche in relazione alla specifica attività praticata in detto luogo, dei presidi antinfortunistici voluti dalla legge, in mancanza dei quali possono verificarsi eventi dannosi [43]. La responsabilità del datore di lavoro nei confronti dei terzi oltre a trovare un sicuro fondamento nell’art. 2049 c.c., scaturisce dalla posizione di garanzia che il t.u. n. 81/2008 attribuisce appunto al datore di lavoro e ai dirigenti. Tale responsabilità, che in precedenza si limitava ai casi di danni provocati a terzi dall’attività lavorativa (ad esempio i danni da inquinamento o quelli causati a soggetti terzi presenti all’interno del luogo di lavoro), ora viene contestata sempre più di frequente a causa del diffuso utilizzo di manodopera dipendente da soggetti terzi (ad esempio nei casi di appalto e subappalto di lavoro, lavoro interinale, contratti di somministrazione di lavoro, ecc.). Proprio la presenza sul luogo di lavoro di lavoratori non dipendenti da un’unica impresa ha fatto emergere un’ulteriore categoria di responsabilità, quella da rischio interferenziale. E, in effetti, un rischio da interferenza potrebbe ravvisarsi anche nei confronti di quei soggetti che entrano in contatto con l’ambiente di lavoro in cui sceglie di svolgere la propria attività uno smart worker. In questo caso, la posizione di garanzia sarebbe traslata dal datore al lavoratore non solo in forza di quanto disposto dall’art. 20 del TU n. 81/2008 [44], quanto piuttosto sulla scorta di una regola di generale prudenza dettata dal documento stilato dall’INAIL [45] all’interno del quale vengono indicati, tra gli altri, i seguenti obblighi specifici per lo smart worker: non adottare condotte che possano generare rischi per la propria salute e sicurezza o per quella di terzi; in ogni caso, evitare luoghi, [continua ..]