Corte costituzionale, 4 ottobre-24 novembre 2022, n. 234 – Pres. Sciarra – Rel. Sciarra
< >Non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 14, comma 3, del d.l. 28 gennaio 2019, n. 4 (Disposizioni urgenti in materia di Reddito di Cittadinanza e di pensioni), convertito, con modificazioni, nella legge 28 marzo 2019, n. 2, (sollevata in riferimento all’art. 3 Cost.) che prevede la non cumulabilità della pensione anticipata – c.d. “quota 100” – (a far data dal primo giorno di decorrenza della pensione e fino alla maturazione dei requisiti per l'accesso alla pensione di vecchiaia) con i redditi da lavoro dipendente o autonomo, ad eccezione di quelli derivanti da lavoro autonomo occasionale, nel limite di 5.000 euro lordi annui. E ciò in ragione della particolarità di tale ultimo genere di lavoro rispetto alle altre tipologie, con la conseguente non comparabilità delle situazioni.
< 1. Con la sentenza in commento, la Corte costituzionale torna a ribadire come le prestazioni previdenziali “speciali” e, in senso lato, “privilegiate”, si sottraggono alla possibilità di divenire termine di paragone tra situazioni simili ma, di fatto, disomogenee[1]. Il pronunciamento della Consulta trae origine dal dubbio di compatibilità costituzionale avanzato dal Tribunale di Trento [2], che aveva ipotizzato una possibile lesione del principio di uguaglianza formale di cui all’art. 3, Cost., da parte dell’art. 14, comma 3, d.l. 28 gennaio 2019, n. 4 (convertito in legge 28 marzo 2019, n. 26), che ha escluso ogni possibilità di cumulare il trattamento pensionistico in cd. quota 100 con altri redditi da lavoro dipendente e autonomo, fatta eccezione per quanto percepito a titolo di lavoro autonomo occasionale, nel limite di 5.000 euro lordi annui. 2. La disposizione oggetto di scrutinio fa latamente parte di quel complesso normativo di “reazione” all’inasprimento dei requisiti di accesso alla pensione operato dalla cd. riforma Fornero (art. 24, d.l. 6 dicembre 2011, n. 201, convertito in legge 22 dicembre 2011, n. 214). E, in effetti, già all’indomani dell’adozione delle nuove e più stringenti regole di accesso alla pensione di vecchiaia e anticipata, erano state introdotte numerose ipotesi di deroga e anticipazione, a volte giustificate in ragione di esigenze “sociali” [3]; altre in relazione alla traslazione dei relativi costi in capo alle imprese o ai beneficiari, anche in chiave di “staffetta generazionale” [4]; altre ancora, al di fuori di qualunque logica di equità intergenerazionale, in ragione di mere battaglie elettorali e ideologiche [5]. In questo ultimo gruppo si collocano gli interventi pensionistici di cui al d.l. 8 gennaio 2019, n. 4 (convertito in legge 28 marzo 2019, n. 26) e, in particolare la pensione in quota 100, le cui finalità – al pari di quelle della sospensione del meccanismo di adeguamento automatico dei requisiti di accesso alla (sola) pensione anticipata sino al 31 dicembre 2026 (art. 15, d.l. n. 4/2019) – ben presto e nonostante i roboanti proclami circa il carattere “occupazionale” dell’anticipo [6], si sono palesate come unicamente collegate a intenti captatori di consenso politico [7]. La relativa disciplina, in estrema sintesi, ha consentito (e in parte consente ancora) l’accesso anticipato alla pensione alla maturazione (entro il 31 dicembre 2021) di almeno 38 anni di contribuzione e 62 anni di età, senza che al soggetto beneficiario siano richiesti sostanziali sacrifici (come avviene, invece, ad esempio con l’opzione donna) [8]. Gli unici “paletti”, in effetti, sono stati la (re)introduzione di una finestra per l’effettiva liquidazione del trattamento di 3/6 [continua..]