Il presente intervento rappresenta un breve commento riguardo i nuovi artt. da 441 bis a 441 quater c.p.c. che hanno sostituito, con contestuale abrogazione, la legge n. 92/2012 sul rito Fornero. Le disposizioni in esame attribuiscono una corsia preferenziale alle controversie aventi ad oggetto una richiesta di reintegrazione nel posto di lavoro, disciplinano il licenziamento del socio di cooperative, nonché il licenziamento discriminatorio. Le nuove norme, con particolare quella dell'art. 441 bis c.p.c. non sono, però, esenti da talune osservazioni critiche, soprattutto perché reiterano in parte, sia pure con adattamenti e semplificazioni opportuni, il precedente rito speciale mantenendone talune problematicità.
This intervention represents a brief commentary on the new articles from 441 bis to 441 quater of the Code of Civil Procedure which replaced, with simultaneous repeal, the law n. 92 of 2012 on the Fornero rite. The provisions in question give a preferential course to disputes concerning a request for reinstatement in the workplace, govern the dismissal of cooperative members, as well as discriminatory dismissal. The new rules, especially that of art. 441 bis c.p.c. however, they are not exempt from certain critical observations, above all because they partially reiterate, albeit with appropriate adaptations and simplifications, the previous special rite while maintaining certain problems.
1. Il superamento dello speciale rito Fornero - 2. Le nuove norme del capo I bis del c.p.c. - 3. Accertate criticità del processo ex lege n. 92/2012: i rimedi della nuova riforma - 4. È realmente scomparso il rito Fornero? Portata dell’art. 441 bis c.p.c. - 5. Scelta tra la trattazione congiunta, ovvero la separazione delle domande diverse - 6. Il licenziamento del socio di cooperativa - 7. Licenziamento discriminatorio - 8. Limiti dell’art. 441 bis c.p.c. e possibile revival dell’art. 700 c.p.c. - 9. Valutazioni conclusive - NOTE
Da tempo e da più voci era stata ventilata l’insistente (e pressante) sollecitazione di una non più procrastinabile abrogazione del rito speciale Fornero, sia per via del suo sostanziale fallimento e sia per i numerosi contrasti interpretativi riguardo la sua concreta applicazione [1]. Si è trattato di un refrain che ha aleggiato con inusitata frequenza nelle aule dei tribunali ed anche in occasione di numerosi convegni e incontri di studio di giuslavoristi e no. Per la verità, ciò accadeva già sin dai primi tempi della sua vigenza, in pratica a ridosso dell’ingresso nell’ordinamento giuridico del rito speciale, ed esattamente in occasione del Congresso degli avvocati giuslavoristi italiani a Bergamo (AGI), nell’ottobre del 2013 [2], cioè solo a poco più di un anno dell’entrata in vigore, in data 18 luglio 2012, della legge n. 92/2012. Parimenti perplessa si è mostrata anche la più attenta dottrina che, muovendo dall’accertato presupposto di una mancata copertura costituzionale della tutela reale ex art. 18 dello Statuto, criticava la soluzione legislativa del rito Fornero affidata ad una troppo ampia e incontrollata discrezionalità dei giudici del lavoro [3], con il pericolo di ripercussioni negative sulla certezza e stabilità dei giudizi che registravano oscillazioni interpretative a volte del tutto contrapposte. Medio tempore, poi, è qui appena il caso di ricordare le vicende legate ad una proposta di legge, datata 4 luglio 2014, decisamente più radicale e tranchant, inizialmente volta alla totale soppressione del rito speciale di cui ai commi da 47 a 69 dell’art. 1 disciplinante il rito Fornero, ma, in concreto, dalla valenza meramente residuale, perché in definitiva circoscritta ai soli contratti a tutele crescenti [4]. Infine, sempre a mero titolo riepilogativo, si accenni al fatto che la Consulta, con la decisione del 13 maggio 2015, n. 78, aveva “salvato” uno dei cardini del rito Fornero, vale a dire la legittima coincidenza tra il giudice che emette l’ordinanza decisoria, in via semplificata e sommaria, sull’originario ricorso del lavoratore e quello davanti al quale, nello stesso grado del giudizio, presentare l’opposizione avverso l’ordinanza. Il complessivo scenario che si venuto a delineare negli anni sull’argomento [continua ..]
Nonostante le palesi reiterazioni di soluzioni legislative già avanzate in passato, non compiutamente attuate e miranti all’abrogazione del rito speciale Fornero, è decisamente di maggior rilievo e di sicuro interesse evidenziare, a questo punto dell’analisi in corso, talune e ricorrenti incongruenze che hanno finito con il riproporre, nell’attualità, ben note criticità del precedente rito speciale, ora allocate nel corpo delle nuove disposizioni del capo I bis del codice di procedura. Il problema di fondo riguarda i contenuti della novella legislativa in discorso: vale a dire se costituiscono o no le nuove disposizioni adeguata risposta ai numerosi dilemmi innescati dal precedente rito speciale. Le norme di nuova introduzione, numerate da 441 bis a 441 quater del c.p.c., prendono vita, sotto i profili sostanziali e processuali, in forza di un’abrogazione, disposta dall’art. 37 del d.lgs. n. 149/2022, lett. e), come abbiamo già avvertito prima, dell’intero rito Fornero, il cui spettro, però, continuerà ad aleggiare nelle aule dei tribunali del lavoro. Ciò avverrà, non già soltanto per via delle controversie in corso di definizione, problematica che attiene coerentemente alla disciplina transitoria preliminare al pieno avvio del nuovo regime processuale, bensì per un’altra e inquietante ragione che è qui il caso di evidenziare nell’immediato: e cioè per i contenuti – e sarà questo il tema di maggior approfondimento della presente riflessione – espressi dalle stesse norme del nuovo capo I bis che, specie per quanto riguarda la disposizione dell’art. 441 bis c.p.c., sembrerebbe reiterare, anche sotto il profilo meramente lessicale e semantico, sia pure sotto mentite spoglie, la peculiare struttura edificata con l’avvento del rito speciale Fornero. Prima fra tutte si accenni alla perplessità che ha lasciato insoluti strascichi sul piano della frequente (e allarmante) evenienza della duplicazione dei giudizi. Ed ancor più, nel particolare, i negativi esiti del c.d. “binario” privilegiato del rito Fornero in materia di licenziamenti, contrassegnato da un corpo normativo denso di evidenti contraddizioni e decisamente impotente “a realizzare le finalità strutturali prefissate” [10]. Si tratterà, pertanto, di approfondire [continua ..]
È di fondamentale rilievo premettere, però, sempre come incipit dell’indagine in corso di svolgimento, un aspetto decisivo e irrinunciabile, da considerare ogni qual volta si voglia intervenire in materia di tutele contro i licenziamenti illegittimi. Si tenga conto, infatti, che, a proposito di tale argomento, occorre sempre rispettare una precondizione necessaria e vincolante riguardo il corretto approccio metodologico: la precedenza da attribuire a tali controversie rispetto a tutte le altre. La questione, in altre parole, attiene alle praticabili opzioni giuridico-culturali che devono tenere conto del preminente carattere prioritario di tale tipologia di cause, quindi alle possibili scelte da compiere necessariamente funzionali alle peculiarità delle fattispecie, e ciò in aderenza alle potenziali soluzioni regolative della nuova disciplina ispirata alle circostanze particolarmente meritevoli di tutela. Si tratta di una via obbligata, cioè quella dell’inderogabile veicolazione di tale tipologia di controversie all’interno di un canale privilegiato (e riservato), una sorta di vera e propria corsia preferenziale che anticipi gli esiti di tali giudizi rispetto alle altre cause di lavoro. Sostanziale obbiettivo è quello di mantenere, sotto il profilo della celerità, semplificazione e speditezza delle procedure, un alto livello regolativo che sia in grado di coniugare insieme i fondamentali principi del contraddittorio con quelli della rapidità dei provvedimenti. L’intreccio, ma solo in apparenza, sembrerebbe configurare una contrapposizione tra opposte (e inconciliabili) necessità: diversamente trattasi un’esigenza insopprimibile nel nostro ordinamento giuridico e cioè quella, da tempo collaudata, di valorizzare e velocizzare il contenzioso che abbia per oggetto una richiesta di reintegrazione nel posto di lavoro. Sin d’ora, però, è possibile mettere a punto una prima osservazione critica: tutte le controversie di lavoro, rispetto al rito civile ordinario, sono meritevoli di essere trattate e decise con maggiore rapidità, valutando la diversa posizione economica tra le parti contrapposte. In disparte ogni considerazione che le disposizioni contente all’interno del Titolo IV del II libro del codice di procedura civile, non costituiscono un sistema normativo autosufficiente, ma sono funzionali – pur nel segno di un [continua ..]
La risposta, rispetto all’interrogativo titolo qui in epigrafe, è certamente affermativa sotto il profilo formale e della volontà abdicativa di cancellare l’esperienza giuridico-processuale del rito Fornero dalle aule dei nostri tribunali, al fine di portare a compimento quel superamento già preconizzato con il d.lgs. n. 23/2015. Tuttavia, è pur vero, però, che l’interprete non deve limitarsi al solo dato formale dell’abrogazione ed è diversamente tenuto a cogliere, sotto il profilo pragmatico e concreto, le effettive conseguenze che l’operazione ha ingenerato nell’ambito delle modifiche recentemente introdotte. Ed infatti, a mio giudizio, il risultato sostanziale (e finale) dell’operazione legislativa de qua non è, con tutta evidenza, quello – come poco sopra brevemente evidenziato – espresso in termini di un apprezzamento positivo e lineare, dai toni del tutto tranquillizzanti riguardo un affrancamento rispetto alle criticità del precedente rito. Sotto tale profilo, l’operazione di soppressione del rito speciale Fornero, sollecitata da più voci e da più tempo [17], non è certamente esente da taluni rilievi perplessi che riguardano soprattutto il dato di un suo surrettizio mantenimento, e ciò attraverso l’adozione di modalità similari a quelle già adottate con la legge n. 92/2012. Ed infatti, tale dato è dimostrato dal fatto che la nuova riforma, avviata dal 2023, non abbia del tutto abbandonato lo schema giuridico-culturale tipico del rito Fornero – nell’evidenza che non ne abbia interamente dismesso le vesti, come si tenterà di dimostrare qui di seguito –. Si citi, in prima battuta, l’avvenuto richiamo alle note regole legali appositamente adottate e sperimentate dalla legge n. 92/2012 ed ora adattate – con un’operazione di maquillage improntato ad esigenze sceniche – per il nuovo corso e che presentano sicure assonanze lessicali (e sostanziali) che ne tradiscono le scaturigini. Veniamo, pertanto, all’esame della disposizione centrale del nuovo corso e, cioè, come già si è anticipato prima, alla norma di cui all’art. 441 bis c.p.c. La norma in argomento non sembra possa definirsi “rivoluzionaria”, e ciò rispetto al precedente assetto delineato dal rito Fornero, atteso che [continua ..]
L’esame della disposizione conduce, poi, al comma 4, ove è previsto che, nel corso dell’udienza di discussione il giudice disponga, “in relazione alle esigenze di celerità anche prospettate dalle parti, la trattazione congiunta di eventuali domande connesse e riconvenzionali, ovvero la loro separazione, assicurando in ogni caso la concentrazione della fase istruttoria e di quella decisoria in relazione alle domande di reintegrazione nel posto di lavoro”. A ben vedere, si tratta della più penetrante e incisiva novità, oggi introdotta rispetto al pregresso rito Fornero, ove invece potevano solo essere attratte le domande risarcitorie legate al licenziamento ed erano state ritenute ammissibili dalla giurisprudenza le domande di risarcimento dei danni ulteriori, quali quelli alla salute e/o all’onore, ed anche, in via subordinata, la tutela obbligatoria, il tfr e l’indennità di mancato preavviso [20]. In verità, la soluzione contenuta nella novella del 2022 supera questi originari limiti, nonché i rigidi steccati della pregressa formulazione, consentendo, anche nel contesto di cause aventi ad oggetto la reintegra nel posto di lavoro, la trattazione delle domande connesse, di quelle riconvenzionali, oppure del tutto diverse, pur con l’eventuale possibilità che il giudice possa disporre, a sua scelta, la separazione delle domande. Non è affatto chiaro se il giudice a questo punto, ricorrendo una tale evenienza, assegni al ricorrente un termine per la riassunzione in altro giudizio, oppure – forse più plausibilmente – espunga le ulteriori domande temporaneamente dall’istruttoria tutta incentrata sulla priorità di cui al comma 1, per poi deciderle successivamente alla pronuncia sulla reintegrazione. Ed è quest’ultimo il profilo di maggiore criticità e delicatezza emergente dal nuovo corso: vale a dire l’opzione accordata al giudice che ha il potere di disporre la separazione delle domande che non le ritenga di immediata soluzione, in quanto è solo tenuto ad assicurare la concentrazione della fase istruttoria limitatamente alla domanda di reintegrazione nel posto di lavoro. Non è pacifica, a causa di una manifesta cripticità testuale, la via attraverso la quale possa essere adottata la scelta della separazione dei giudizi. Certamente non è invocabile il disposto di cui [continua ..]
Di ben altra (e minor) portata rispetto alla precedente è, invece, la norma di cui all’art. 441 ter c.p.c., avente ad oggetto il licenziamento del socio lavoratore di cooperativa. In tal caso le controversie sono assoggettata all’art. 409 c.p.c. e ciò anche per via del richiamo operato nel comma 2 del precedente art. 441 bis c.p.c. “salvo quanto stabilito nel presente articolo, le controversie di cui al comma 1°, sono assoggettate alle norme del capo primo”, nell’evidenza che non vi sarebbe, per i soci lavoratori di cooperative, alcuna corsia preferenziale, nell’implicita esclusione delle priorità di cui si è discusso prima. Tale interpretazione nasce dalla lettura della norma del 441 ter c.p.c. che, a giudicare il suo contenuto, non sembra possa essere intesa diversamente. Si precisa solo che il giudice del lavoro è autorizzato dalla norma a decidere “anche sulle questioni relative al rapporto associativo eventualmente proposte”, in uno a quella sull’impugnativa di licenziamento, nel segno di una sostanziale omologazione alle tutele del diritto del lavoro. Peraltro, in tema di società cooperativa di produzione e lavoro, la giurisprudenza della Suprema Corte, aveva statuito che “l’onere di comunicazione della delibera di esclusione del socio, in un contenuto minimo necessario a specificarne le ragioni, è imposto, come per il licenziamento, a pena d’inefficacia, sia dalla disciplina generale di cui all’art. 2533 cod. civ., ai fini della decorrenza del termine per l’impugnazione, sia, per la gravità degli effetti che ne discendono, dalla disciplina speciale di cui alla legge n. 142 del 2001 che la rende idonea ad estinguere contemporaneamente il rapporto associativo e quello lavorativo” [25]. La norma, dunque, di cui all’art. 441 ter c.p.c. conferma gli orientamenti giurisprudenziali che hanno ribadito la competenza del giudice del lavoro a valutare in merito all’(il)legittimità dell’esclusione del socio lavoratore, decretando la fine della dicotomia in cui sino ad ora hanno versato i soci di cooperative [26], afflitti da una sostanziale crisi di identità e disorientati sul piano della competenza funzionale del giudice. Si tratta, dunque, di una scelta che consolida gli orientamenti espressi dal diritto vivente, confermando che, per una tale tipologia di [continua ..]
Non può tacersi, a commento dell’ultima norma qui in esame, che l’art. 441 quater c.p.c. rappresenta, a ben vedere, una vera e propria superfetazione, perché del tutto ridondante e pleonastica. L’osservazione, pesantemente critica, prende le mosse dal sistema vigente nel nostro ordinamento giuridico, ampiamente collaudato e definito sull’argomento specifico, ed anche decisamente completo ed esaustivo sotto il profilo della pluralità degli strumenti normativi da tempo approntati dal legislatore. È appena il caso di ricordare, infatti, che il licenziamento discriminatorio è nullo in forza dell’art. 4 della legge n. 604/1966 ed anche in ragione dell’opportuno coordinamento con l’art. 15 della legge n. 300/1970 che stigmatizza qualsiasi patto o atto, ivi compreso il licenziamento, volto a discriminare il lavoratore inibendogli, a titolo meramente esemplificativo, l’adesione o meno ad un’associazione sindacale. Vi è, poi, il richiamo all’art. 3 della legge n. 108/1990 che, nel ribadire la nullità del licenziamento discriminatorio, statuisce l’applicazione delle conseguenze previste dall’art. 18 legge n. 300/1970 (rectius: reintegra nel posto di lavoro), a prescindere dal numero di dipendenti occupati dal datore di lavoro. Gli strumenti rimediali, oltre a quelli previsti dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, potrebbero essere quelli – ma solo se ne ricorrano i presupposti –, dell’art. 28 sempre dello Statuto ed anche le procedure contemplate dai riti speciali come l’art. 38 del d.lgs. n. 198/2006 e l’art. 28 del d.lgs. n. 150/2011 che dispone un rito semplificato in argomento che si riporta in nota con le più recenti modifiche e integrazioni [28]. Si tratta di un imponente apparato normativo, a corollario di una tutela realmente esaustiva ed esauriente nell’evenienza negativa che si verificassero licenziamenti discriminatori. Orbene, la norma dell’art. 441 quater c.p.c. non dice nulla di nuovo, ricordando solo che le azioni di nullità dei licenziamenti discriminatori, ove non proposte ex art. 414 c.p.c. possono essere introdotte con i riti speciali. In disparte, si ripete, propone la mera reiterazione di principi già sufficientemente somatizzati nel nostro ordinamento giuridico, in perfetta sintonia con le direttive comunitarie in ordine al regime [continua ..]
Volendo, a questo punto dell’analisi fin qui svolta, trarre le fila del discorso è fondamentale richiamare un’osservazione, peraltro già implicitamente svolta nelle pagine precedenti: la norma di maggior spessore e rilievo nella riforma commentata e che indubbiamente inciderà nello scenario futuro delle controversie in materia di licenziamenti, è decisamente quella dell’art. 441 bis del c.p.c. che ha decretato la fine del rito speciale delineato dalla legge n. 92/2012. Le altre due norme in esame non solo rimangono estranee al precedente circuito del rito Fornero, ma rappresentano una semplice presa d’atto degli arresti giurisprudenziali nel caso di licenziamenti del socio di cooperative e di reiterazione di regole e principi già collaudati nel nostro ordinamento giuridico in tema di licenziamento discriminatorio. Pertanto appare, quindi, una vera e propria scelta obbligata quella limitare opportunamente le argomentazioni conclusive alla prima delle norme inserite nel nuovo capo 1 bis del codice di rito. Fatta la necessaria premessa di cui sopra, è il caso di ulteriormente chiarire e richiamare che lo scenario delineato dalla nuova norma dell’art. 441 bis c.p.c. non rappresenta, però, un radicale e totale abbandono delle modalità alle quali ci aveva abituato il rito Fornero. Già in un breve precedente intervento [31] ho avuto modo di esprimente talune perplessità sul modus operandi del legislatore delegato, nonché l’avvertimento che l’operazione di restyling, da tempo auspicata ma solo in parte riuscita, ha finito per consolidare contraddittoriamente la scelta, in precedenza adottata, di una corsia privilegiata e prioritaria per le cause nelle quali è proposta una domanda di reintegrazione nel posto di lavoro. Altro elemento di criticità emerge, sempre dall’attenta lettura della norma di cui all’art. 441 bis c.p.c., dall’evidenza che si sia ulteriormente rafforzato e accresciuto il già ampio potere discrezionale del giudice del lavoro, rispetto ai canoni delineati dalla legge n. 533/1973. Quest’ultimo, come si è già detto, ha il potere di ridurre i termini del procedimento e di disporre l’eventuale separazione delle domande, trattenendo nell’immediato quelle attinenti alla richiesta di reintegrazione. Ma, vi è di più. Nello spirito della [continua ..]
In conclusione, quindi, sarebbe stato più logico, nell’operazione di cancellazione del rito Fornero, tornare allo spirito originario del processo del lavoro, con l’aggiunta di semplice corollario che avrebbe offerto al ricorrente la possibilità – si ripete sussistendo i presupposti del fumus boni iuris e del periculum in mora – di richiedere, contestualmente ad una cognizione piena su tutte le domande, un provvedimento anticipatorio idoneo, nell’evenienza di un documentato e prossimo pregiudizio imminente e irreparabile, al fine di “assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione sul merito”. Si sottolinei con forza che una tale soluzione non avrebbe certamente configurato un arretramento delle tutele, bensì la consapevole scelta di chiudere definitivamente con le ambiguità semantiche di un recente passato, oggi riproposte nella nuova veste del d.lgs. n. 149/2022 (riduzione dei termini del procedimento, potere del giudice di trattare congiuntamente le domande oppure disporne la separazione), superando la più vistosa della censure al precedente rito Fornero: “la frammentazione sul piano processuale rispetto alle domande non strettamente connesse con il licenziamento, con conseguente duplicazione di cause” [36]. Senza poter mancare di ricordare che l’adozione della misura cautelare richiesta ricorre quando il diritto azionato sia minacciato, per via del decorso del tempo necessario a farlo valere in via ordinaria, da un pericolo imminente e non riparabile in seguito. Non si trascuri, però, che esiste un’ulteriore norma di salvaguardia: l’art. 669 decies, comma 1, prevede, salvo il caso che sia stato proposto reclamo, la possibilità di modifica e/o revoca del provvedimento cautelare che può essere legittimamente richiesta “se si verificano mutamenti nelle circostanze o se si allegano fatti anteriori di cui si è acquisita conoscenza successivamente al provvedimento cautelare. In tal caso l’istante deve fornire la prova del momento in cui ne è venuto a conoscenza”. La tesi ventilata, sia pure implicitamente e in via trasversale, è stata avallata dalla Corte costituzionale che, con una decisione sostanzialmente additiva, nel dichiarare la parziale illegittimità costituzionale dell’art. 6, comma 2, della legge 15 luglio 1966, n. 604, “ha di fatto affermato [continua ..]