L'elaborato affronta la problematica della mancata tipizzazione della fattispecie penale di mobbing e dei tentativi della giurisprudenza di sussumere gli atti vessatori in danno del lavoratore all’interno delle fattispecie incriminatrici dei maltrattamenti in famiglia o degli atti persecutori. Ci si sofferma, in particolare, sul ruolo suppletivo della giurisprudenza dinanzi all'inerzia del legislatore e sui riflessi del diritto vivente sul principio di stretta legalità e sulla funzione di prevenzione generale della norma penale. In conclusione, una riflessione sull'ipotesi di mobbing come figura autonoma di reato.
The paper deals with the problem of the failure to typify the criminal case of mobbing and the attempts by the judges to subsume the vexatious acts against the worker within the incriminating cases of abuse in the family or persecutory acts. The author describes, in particular, the supplementary role of the judges resulting from the inertia of the legislator and the reflections of the living law on the principle of strict legality and on the general preventive function of the criminal law. In conclusion, a reflection about the hypothesis of mobbing as an independent figure of crime.
1. Abuso dei poteri datoriali e responsabilità penale - 2. Mobbing e delitto di maltrattamenti in famiglia - 3. Mobbing e stalking occupazionale - 4. La punibilità del mobbing nel quadro evolutivo del diritto penale - 5. Conclusioni: il mobbing come autonoma figura di reato - NOTE
La questione della repressione dell’abuso dei poteri datoriali attraverso la sanzione penale, volutamente ignorata da un legislatore costantemente “impantanato” in logiche lobbistiche ed incapace di operare scelte razionali, ancorché coraggiose, si presta sempre più all’intervento surrogatorio della giurisprudenza, il quale, anche laddove caratterizzato da razionalità e rigore giuridico, ha come effetto naturale quello di rendere incerti i confini di ciò che è penalmente rilevante, con buona pace dei principi di legalità e determinatezza della fattispecie penale, nonché della funzione di prevenzione generale, in termini di orientamento delle condotte dei consociati, propria della pena. Se è vero che la carenza di offerta di lavoro, che da sempre affligge alcune zone del Paese e che, a seguito della pandemia, si estende a tutto il territorio nazionale, è alla base di condotte datoriali che abusano della posizione di “minorata difesa” cui è sempre più esposto il lavoratore, è parimenti vero che l’abdicazione del legislatore in favore della discrezionalità giudiziaria rende sempre più incerto il confine di ciò che è penalmente rilevante e l’ambito di operatività del diritto penale del lavoro e finisce per attrarre nell’alveo dei reati comuni condotte del datore di lavoro le quali, ancorché caratterizzate da eccessi, traggono pur sempre origine da un rapporto sinallagmatico riconducibile all’autonomia privata che, in quanto tale, dovrebbe trovare tutela – almeno secondo una parte della dottrina giuslavoristica [1] – esclusivamente in ambito civilistico. Abbiamo così assistito, nell’arco di oltre un decennio, al consolidamento dell’opzione ermeneutica che riconduce alla fattispecie dell’estorsione gli abusi datoriali che ledono i diritti retributivi, anche di fonte contrattuale, dei lavoratori o le prerogative di mantenimento del posto di lavoro [2]; opzione che può considerarsi espressione della necessità del diritto del lavoro di avvalersi delle tutele del diritto penale anche se l’interazione tra i due sistemi risulta spesso non agevole e non priva di tensioni a causa di una latente incomunicabilità nella dialettica tra concezioni privatistiche e quelle criminali.
Più complessa o, se si preferisce, sfuggente appare invece la questione della rilevanza penale del mobbing, che nella giurisprudenza più recente sta assumendo una nuova connotazione. Sebbene concetto “inflazionato” quantomeno a livello di percezione sociale, il mobbing manca tuttora di una definizione normativa e di una strategia legislativa di contenimento, ma può essere riassunto in un insieme di atti o comportamenti vessatori, reiterati e duraturi, rivolti nei confronti di un lavoratore, finalizzati a ledere la sua integrità psicofisica o ad estrometterlo dall’azienda o dall’ente in cui svolge la propria attività lavorativa. Il tratto che caratterizza il mobbing è rappresentato dalla sussistenza di una condotta, protratta nel tempo, volutamente prevaricatoria da parte del datore di lavoro che mira ad emarginare/estromettere il lavoratore dalla struttura organizzativa [3]. Una serie di comportamenti ostili, di prevaricazione o persecuzione psicologica, caratterizzati dalla sistematicità e protrazione nel tempo e unificati da un intento persecutorio nei confronti del dipendente [4]. Concetto spesso abusato e citato impropriamente nell’ambito della percezione sociale dei limiti del potere datoriale, ma ancorato ad un onere probatorio complesso a carico del prestatore di lavoro che si estende all’elemento soggettivo sotteso alla condotta, unitariamente considerata [5], il mobbing risulta sprovvisto di una tutela penale ad hoc. Una tutela penale che, come accennato, dinanzi all’inerzia del legislatore si è evoluta nel tempo attraverso un ruolo di supplenza della giurisprudenza, che inevitabilmente ha reso incerti i confini tra ciò che è penalmente rilevante e le condotte che invece rimangono relegate nell’alveo della responsabilità civile, mettendo in crisi quella funzione di orientamento delle condotte dei consociati sulla quale poggia il diritto penale della libertà. Va ricordato, infatti, che è dovere precipuo dell’ordinamento delimitare con chiarezza il fatto penalmente rilevante e consentire al cittadino, dinanzi a definizioni ambigue od oscure, di opporre, con efficacia liberatoria, l’ignoranza scusabile e il dubbio sulla ragionevole esistenza del divieto e la sua interpretazione giudiziale. La tendenza di ricondurre singole condotte mobbizzanti nelle fattispecie della violenza [continua ..]
La strenua ricerca dei giudici di individuare una figura di reato entro la quale ricondurre il mobbing nella sua dimensione unitaria e non limitata a specifiche realtà aziendali è approdata in tempi più recenti – pioniere di tale indirizzo ermeneutico il tribunale di Taranto [15] – al c.d. stalking occupazionale, ricondotto al delitto previsto dall’art. 612 bis c.p., il quale punisce chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringerlo ad alterare le proprie abitudini di vita. Un reato punito con la pena detentiva da un anno a sei anni e sei mesi, aumentata fino alla metà se il fatto è commesso a danno di un minore, di una donna in stato di gravidanza o di una disabilità ex art. 3 della legge n. 104/1992. Il delitto di atti persecutori è un reato abituale a struttura causale che si caratterizza per la produzione di un evento di “danno” consistente nell’alterazione delle abitudini di vita del soggetto passivo o in un perdurante e grave stato di ansia o di paura, ovvero, alternativamente, di un evento di “pericolo”, consistente nel fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva [16]. Quello che rileva per l’integrazione del reato è la reiterazione dei comportamenti descritti dalla norma incriminatrice ed il loro effettivo inserimento nella sequenza causale che porta alla determinazione dell’evento, che deve essere il risultato della condotta persecutoria nel suo complesso. La condotta può, quindi, esplicarsi anche con modalità atipica, ricomprendendo anche le condotte “grigie” del mobbing, purché – valutata nel suo complesso – sia idonea a ledere la libertà morale della persona, mentre nessuna rilevanza assume il contesto entro il quale si colloca la condotta persecutoria, che, pertanto, può ben essere costituito dall’ambiente di lavoro [17]. Secondo il nuovo orientamento della Corte di Cassazione, esplicato nelle sentenze (sez. V) 14 settembre 2020, n. 31273, e 18 gennaio 2022, n.12827 [18], integra il delitto di [continua ..]
La nuova prospettiva di “criminalizzazione” del mobbing, riguardante qualsiasi contesto produttivo, può connotarsi indubbiamente come strumento efficace di tutela della parte debole del rapporto di lavoro se si considera l’entità della sanzione detentiva massima prevista dall’art. 612 bis c.p., la quale, nella sua concreta applicazione, potrebbe anche precludere al reo di beneficiare della sospensione condizionale della pena o delle misure alternative alla detenzione contemplate dall’ordinamento penitenziario. Tale prospettiva potrebbe anche risultare ragionevole, in considerazione della significativa dannosità e del disvalore della condotta persecutoria, nell’ambito di un diritto penale che, pur sempre ispirato al principio di ultima ratio di matrice illuminista, si orienta sempre più verso la tutela di beni giuridici che costituiscono la premessa indispensabile per il benessere e lo svolgimento della personalità dell’individuo; beni suscettibili di essere lesi o messi in pericolo dalle emergenti forme di criminalità economica. Non va, peraltro, escluso che – almeno in teoria – l’art. 612 bis c.p. potrebbe risultare applicabile anche a fenomeni di mobbing orizzontale non sussumibili nel delitto di maltrattamenti, anche se si è osservato che ciò che rende difficile l’estensione di tale fattispecie non sono tanto gli effetti che possono cagionarsi al soggetto passivo (che, anzi, nella variante del “grave stato d’ansia”, si verificano in numerosi casi di persecuzione), ma la necessità che le condotte si sostanzino in violenze o minacce [22]. Molto spesso, invero, le condotte mobbizzanti si estrinsecano attraverso atti di vessazione, di arbitrarietà o di disprezzo che non rientrano nelle categorie concettuali della violenza o della minaccia (es. demansionamento, isolamento del lavoratore). L’attrazione del mobbing nell’alveo dello stalking occupazionale potrebbe, però, determinare lo sconfinamento del diritto penale verso profili patologici del rapporto sinallagmatico tra datore di lavoro e lavoratore che l’ordinamento ha inteso mantenere nell’alveo della tutela civilistica: abusi datoriali che, stando al quadro normativo vigente, dovrebbero trovare la loro sede di composizione nel processo del lavoro, ma che, attraverso una sussidiarietà attuata non per [continua ..]
Dinanzi al diritto penale giurisprudenziale, la tradizionale avversione di parte della dottrina giuslavoristica verso l’introduzione di una fattispecie incriminatrice ad hoc per il mobbing [26], in quanto non adattabile all’ampiezza della definizione dello stesso, non appare condivisibile. L’incertezza di una sua definizione e la difficoltà di individuarne gli elementi costitutivi non possono più giustificare l’inerzia del legislatore. Come giustamente rilevato in dottrina, le legittime preoccupazioni inerenti alla tipizzazione di una nuova figura di reato non possono prevalere sulle esigenze di giustizia sostanziale che legittimano e rendono necessaria una forma di risposta penale [27]. Invero, proprio la “connotazione liquida” del mobbing, quale cornice che consente di unificare e collegare le diverse condotte in un unicum connotato da disvalore e rilevanza giuridica autonoma, richiederebbe l’introduzione di una specifica figura di reato in grado di orientare i comportamenti datoriali e di assicurare la certezza del diritto, recuperando il modello di regolazione del potere di punire fondato sulla funzione civilizzatrice della democrazia parlamentare, ritenuta strumentale alla salvaguardia delle libertà individuali. Si tratterebbe di una ipotesi che si inserirebbe all’interno di un percorso di recupero della legalità penale che muove da un ripensamento dei rapporti tra la legalità legislativa e le prerogative ermeneutiche che si dispiegano nelle dinamiche dell’attività giurisdizionale. Un percorso delineato dalla recente giurisprudenza costituzionale secondo la quale le scelte di diritto penale sostanziale, che permettono all’individuo di conoscere in anticipo le conseguenze della sua condotta, devono incarnarsi «in testi legislativi offerti alla conoscenza dei consociati. Rispetto a tale origine nel diritto scritto di produzione legislativa, l’ausilio interpretativo del giudice penale non è che un posterius incaricato di scrutare nelle eventuali zone d’ombra, individuando il significato corretto nell’arco delle sole opzioni che il testo autorizza e che la persona può raffigurarsi leggendolo» [28]. Ciò significa che l’eventuale originaria carenza di precisione del precetto penale, da intendersi come disposizione caratterizzata dall’uso di clausole generali, o [continua ..]