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Dematerializzazione dell´unità produttiva e nozione di dipendenza aziendale ex art. 413 c.p.c.: brevi riflessioni a partire dal lavoro giornalistico
Matteo Turrin, Assegnista di ricerca in Diritto del lavoro – Università degli Studi di Bologna
Cassazione civile, Sez. Lav., ord. 22 aprile 2022, n. 12907 – Pres. Doronzo-Rel. Cinque
Competente a conoscere delle controversie relative al rapporto di lavoro di un giornalista corrispondente la cui attività, svolta presso la propria abitazione, integri lo svolgimento delle mansioni proprie di un ufficio di corrispondenza è il giudice del luogo ove tale abitazione insiste, la quale, costituendo nei fatti un’articolazione dell’organizzazione aziendale destinata al perseguimento degli scopi imprenditoriali, va ritenuta a tutti gli effetti una dipendenza aziendale ai sensi dell’art. 413, comma 2, c.p.c.
Sommario:
1. Il caso - 2. La decisione della Suprema Corte e l’implicita equivalenza tra ufficio di corrispondenza e dipendenza aziendale - 3. Segue: il concetto di dipendenza aziendale ai fini dell’art. 413 c.p.c. - 4. Segue: la nozione di ufficio di corrispondenza nel lavoro giornalistico - 5. Le (diverse) conclusioni del pubblico ministero - 6. Il concetto di dipendenza aziendale alla prova della digitalizzazione del lavoro - 7. Segue: lavoro agile e competenza territoriale - NOTE
1. Il caso
L’ordinanza in commento, pronunciata a seguito di regolamento necessario di competenza ex art. 42 c.p.c., offre l’occasione per svolgere alcune riflessioni in merito al concetto di dipendenza aziendale rilevante ai fini dell’art. 413, comma 2, c.p.c. in un’epoca in cui, in ragione della crescente digitalizzazione del lavoro, si assiste ad una progressiva “dematerializzazione” dell’unità produttiva. I fatti di causa dai quali origina l’ordinanza della Cassazione possono essere riassunti nei termini che seguono. T.J., giornalista alle dipendenze della Giornale di Sicilia Editoriale Poligrafica S.p.A. con la qualifica di corrispondente ex art. 12, lett. c), del Contratto Nazionale di lavoro giornalistico Fieg-Fnsi 26 marzo 2009, adiva il Tribunale di Enna al fine di ottenere il diritto alla qualifica di redattore ordinario ai sensi dell’art. 5 del medesimo CCNL e l’accertamento dell’illegittimità del licenziamento collettivo intimatogli. La società datrice di lavoro, nel costituirsi, sollevava in via preliminare eccezione di incompetenza per territorio del giudice adito ex art. 38 c.p.c., ritenendo competente a decidere della controversia il Tribunale di Palermo, foro presso il quale la stessa aveva la propria sede e nel cui circondario era stato concluso il contratto di lavoro oggetto del contendere. La Giornale di Sicilia Editoriale Poligrafica S.p.A., infatti, sosteneva di non aver istituito alcun ufficio di corrispondenza ex art. 5 del Contratto Nazionale di lavoro giornalistico nel territorio della provincia di Enna, territorio nell’ambito del quale non sarebbe stato dunque possibile individuare alcuna dipendenza aziendale che legittimasse ex art. 413, comma 2, c.p.c. la competenza del giudice adito dal lavoratore. Il giudice ennese, disattendendo la ricostruzione della società datrice di lavoro, respingeva l’eccezione di incompetenza, argomentando che l’abitazione del lavoratore – nel caso di specie – dovesse essere considerata un ufficio di corrispondenza a tutti gli effetti, ovvero una dipendenza aziendale rilevante agli effetti dell’art. 413, comma 2, c.p.c. Infatti, era proprio dalla sua abitazione che il lavoratore provvedeva alla raccolta ed al coordinamento del materiale trasmesso dai vari corrispondenti ed informatori, fornendo alla redazione notizie, informazioni, inchieste e servizi di cronaca locale relativi [continua ..]
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2. La decisione della Suprema Corte e l’implicita equivalenza tra ufficio di corrispondenza e dipendenza aziendale
La Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi sul ricorso per regolamento di competenza presentato dalla società datrice di lavoro [1], ha risolto la questione in favore del lavoratore, disattendendo le conclusioni del pubblico ministero (v. infra, par. n. 5). Il giudice di legittimità è pervenuto a tale decisione seguendo un ragionamento a prima vista semplice e lineare, ritenendo che per la soluzione della controversia non potesse prescindersi dal corretto significato da attribuire al concetto di dipendenza aziendale e alla nozione di ufficio di corrispondenza. Tuttavia, come si avrà modo di dimostrare (v. infra, par. n. 4), l’argomentazione del Collegio nasconde qualche incongruenza.
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3. Segue: il concetto di dipendenza aziendale ai fini dell’art. 413 c.p.c.
Il primo dei due concetti sui quali la Corte ha ritenuto doveroso soffermarsi è quello di dipendenza aziendale. In proposito, è bene anzitutto ricordare come, per le cause di lavoro subordinato privato [2], l’art. 413, comma 2, c.p.c., preveda tre fori speciali, esclusivi ed alternativamente concorrenti: il foro ove è sorto il rapporto di lavoro, il foro dell’azienda ed il foro della dipendenza aziendale [3], «senza che gli ultimi due possano intendersi compendiati unitariamente in quello di svolgimento della prestazione lavorativa» [4]. Venendo al concetto che ci interessa, il Collegio ha ritenuto opportuno precisare come lo stesso vada inteso in senso lato [5] – cioè «come articolazione della organizzazione aziendale nella quale il dipendente lavora» [6] – e che, per verificare se nel caso concreto ci si trovi davvero di fronte ad una dipendenza aziendale, «sia necessario tanto avere riguardo alla esigenza di favorire il radicamento del foro speciale del lavoro nel luogo della prestazione lavorativa, da un punto di vista processuale, quanto valutare la prestazione lavorativa effettivamente espletata, da un punto di vista sostanziale». Così, in primo luogo, occorre tenere conto di quale sia la ratio dell’art. 413 c.p.c., la quale, secondo costante giurisprudenza, «è quella di rendere più funzionale e celere il processo, radicandolo nei luoghi normalmente più prossimi alla residenza del lavoratore, nei quali sono più agevolmente reperibili gli elementi probatori necessari al giudizio» [7]. La disposizione in parola, infatti, è «segnata dal favor per una più effettiva ed efficace tutela giurisdizionale del ricorrente, che nelle controversie individuali di lavoro è di norma il prestatore, ossia la parte debole del rapporto sostanziale» [8], elemento che non è possibile trascurare nella sua interpretazione. In secondo luogo, proprio perché uno dei parametri dei quali bisogna tener conto al fine di valutare se ci si trovi o meno in presenza di una dipendenza aziendale è costituito dalla prestazione di lavoro effettivamente resa, il Collegio ha ritenuto indispensabile proseguire il proprio iter argomentativo soffermandosi sulla nozione di ufficio di corrispondenza rilevante nell’ambito del lavoro giornalistico. Tuttavia, prima [continua ..]
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4. Segue: la nozione di ufficio di corrispondenza nel lavoro giornalistico
Detto questo in merito al concetto di dipendenza aziendale, pare si possa ora passare alla nozione di ufficio di corrispondenza, forma di decentramento organizzativo assai diffusa nell’ambito del lavoro giornalistico ed indispensabile allo scopo di acquisire e trasmettere notizie ed informazioni provenienti da una determinata area geografica. Ebbene, proprio perché uno dei parametri dei quali bisogna tener conto al fine di valutare se ci si trovi o meno in presenza di una dipendenza aziendale è costituito dalla prestazione di lavoro effettivamente resa dal lavoratore, la Corte ha ritenuto che nel caso di specie fosse indispensabile far luce sulla nozione di ufficio di corrispondenza. A questo proposito, il giudice di legittimità ha sostenuto senza esitazioni che la nozione di cui si sta discorrendo andrebbe definita a partire dal contenuto dell’art. 5 del Contratto Nazionale di lavoro giornalistico 10 gennaio 1959, accordo reso efficace erga omnes per effetto del d.P.R. 16 gennaio 1961, n. 153, a sua volta adottato ai sensi della legge 14 luglio 1959, n. 741, nota anche come legge Vigorelli [20]. Il riferimento ai contenuti del Contratto Nazionale di lavoro giornalistico 10 gennaio 1959, evidentemente, sarebbe imprescindibile proprio in ragione dell’efficacia di legge attribuitagli dal d.P.R. n. 153/1961, circostanza che – oltretutto – attribuisce alla Corte il potere di leggerne direttamente il testo. Tuttavia, a ben vedere, la versione del Contratto Nazionale di lavoro giornalistico risalente al 1959 non conteneva ancora una definizione di ufficio di corrispondenza, definizione invece data da versioni successive dell’accordo, ma prive di efficacia generalizzata. Così, secondo l’art. 5 del Contratto Nazionale di lavoro giornalistico applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame, «per uffici di corrispondenza si intendono quelli istituiti in località diverse dalla sede della redazione centrale o delle redazioni decentrate che, nell’ambito delle direttive ricevute, provvedono alla raccolta ed al coordinamento del materiale trasmesso dai vari corrispondenti ed informatori e che forniscono alla redazione centrale o alle redazioni decentrate notizie, informazioni, servizi ed inchieste». Una simile definizione non è ravvisabile all’interno del Contratto Nazionale di lavoro giornalistico reso efficace erga omnes dal d.P.R. n. 153/1961, [continua ..]
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5. Le (diverse) conclusioni del pubblico ministero
Di diverso avviso le conclusioni rassegnate dal pubblico ministero, le quali, seppur disattese dal Collegio, meritano in ogni caso di essere esaminate [28]. Nelle sue conclusioni, infatti, il pubblico ministero si è espresso a favore della competenza territoriale del Tribunale di Palermo, richiamando a sostegno della propria tesi numerosi precedenti del giudice di legittimità inerenti alla nozione di dipendenza aziendale. Secondo il pubblico ministero, sarebbe sì possibile qualificare l’abitazione del lavoratore come dipendenza aziendale, a condizione però che «presso l’abitazione si trovano beni forniti, direttamente o indirettamente, dal datore di lavoro per essere utilizzati in quello stesso luogo per prestare l’attività lavorativa; così che si possa concludere che lo svolgimento di tutta o parte dell’attività lavorativa nell’abitazione dipenda da una scelta aziendale di carattere organizzativo». Di conseguenza, nel caso di specie non sarebbe possibile identificare nell’abitazione del lavoratore una dipendenza aziendale, non avendo egli presentato elementi di fatto utili a dimostrare che presso la sua dimora vi fosse «quel nucleo minimo di beni organizzati per l’esercizio dell’impresa richiesto per la configurazione di una “dipendenza aziendale”». Secondo il pubblico ministero, in altre parole, il lavoratore non avrebbe fornito prove sufficienti a dimostrare che nella sua abitazione fossero presenti dei beni organizzati dalla società datrice di lavoro [29], eventualmente appartenenti anche a terzi, funzionalmente collegati allo svolgimento dell’attività lavorativa [30], né – pertanto – l’esecuzione della prestazione di lavoro presso la dimora del T.J. potrebbe essere imputata ad una scelta organizzativa adottata dalla Giornale di Sicilia Editoriale Poligrafica S.p.A. L’abitazione del giornalista, dunque, non costituirebbe «una articolazione della organizzazione aziendale destinata al conseguimento degli scopi propri dell’imprenditore». Inoltre, pur avendo rilevato come il prestatore abbia eccepito di aver lavorato presso la propria abitazione, la quale – nelle sue prospettazioni – avrebbe dunque assunto la funzione di ufficio di corrispondenza, il pubblico ministero si è espresso nel senso che il fatto sarebbe del [continua ..]
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6. Il concetto di dipendenza aziendale alla prova della digitalizzazione del lavoro
Nonostante siano state disattese dal giudice di legittimità, le conclusioni del pubblico ministero rivestono ugualmente un certo interesse, se non altro perché ben hanno messo in evidenza come – in ragione della digitalizzazione del lavoro – si stia assistendo ad una progressiva “dematerializzazione” del luogo di lavoro [34], fenomeno certo non privo di implicazioni anche per quanto attiene alla nozione di dipendenza aziendale, nozione che si sta infatti facendo sempre più “liquida”. Infatti, nelle sue conclusioni, il pubblico ministero – in maniera del tutto condivisibile – osserva come «ormai da tempo l’evoluzione dell’organizzazione del lavoro tende a rendere elastico il rapporto tra lavoro e luoghi e strutture materiali. Molti lavori, specie nei servizi, vengono svolti fuori dai luoghi tradizionali (l’azienda agricola, la fabbrica, l’ufficio, ecc.) e vengono svolti con l’ausilio di pochi mezzi e strumenti materiali. Molte persone – e il numero è destinato ad aumentare a seguito dell’entrata in vigore della disciplina del lavoro agile e della sua presumibile, consistente diffusione – lavorano a casa propria e solo con un pc e tuttavia lavorano alle dipendenze di una organizzazione aziendale, flessibile ma non per questo evanescente, anche considerate le penetranti possibilità di controllo dei tempi e dei contenuti della prestazione che un collegamento informatico consente» [35]. Significativo che a dare origine a queste riflessioni sia stata una controversia relativa al lavoro giornalistico [36], non a torto recentemente definito una forma di smart working ante litteram [37], essendo infatti caratterizzato al pari di quest’ultimo dal riconoscimento in capo al prestatore di una spiccata autonomia nello svolgimento dell’attività lavorativa. Tant’è che – secondo costante giurisprudenza – nell’ambito di tale rapporto “speciale” [38] tempi e luoghi di esecuzione della prestazione lavorativa non assumono un rilievo decisivo ai fini della qualificazione del rapporto come di lavoro autonomo o subordinato [39], essendo piuttosto rilevante – in ragione della natura prettamente intellettuale dell’attività svolta, nonché dell’autonomia riconosciuta al lavoratore nell’esecuzione della [continua ..]
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7. Segue: lavoro agile e competenza territoriale
Detto questo, alla luce delle significative e repentine trasformazioni che stanno attualmente interessando i modi di lavorare e di produrre, nonché la stessa organizzazione del lavoro, occorre chiedersi se il concetto di dipendenza aziendale di cui all’art. 413, comma 2, c.p.c. non corra il rischio di andare incontro ad un processo di “parcellizzazione” che ne dilati eccessivamente la portata, pericolo che in qualche modo sembrerebbe paventare anche il pubblico ministero nelle sue conclusioni. La domanda è d’obbligo, attesa infatti la progressiva “dematerializzazione” dell’unità produttiva e dei luoghi di lavoro [45], fenomeno emblematicamente rappresentato dal lavoro agile, ma che investe l’intero mondo del lavoro [46]. Allo stesso tempo, tuttavia, va riconosciuto come il problema non sia affatto nuovo, essendosi posto in maniera pressoché analoga già con riferimento al telelavoro. Infatti, benché risalente, va perlomeno menzionato un precedente del giudice di legittimità in cui si dibatteva proprio circa la possibilità di identificare nell’abitazione di una telelavoratrice una dipendenza aziendale [47]. In quel caso, la Corte aveva escluso che la dimora della lavoratrice potesse essere considerata una dipendenza aziendale, non potendo la competenza territoriale del giudice del lavoro radicarsi nel mero luogo di svolgimento della prestazione. Tuttavia, attenta dottrina non mancò di osservare come la Suprema Corte avesse «tralasciato di esaminare un’ulteriore prospettazione interpretativa, a ben vedere di particolare rilievo, che le avrebbe consentito di giungere ad una diversa configurazione del problema: quella di ritenere competente il giudice del luogo di svolgimento della prestazione di telelavoro, ricostruendo la nozione di dipendenza dell’azienda in termini di intelligente elasticità e garantendo, in tal modo, una più adeguata e meno costosa tutela giurisdizionale ai telelavoratori a domicilio. Conclusione che sarebbe risultata decisamente più in armonia con i “processi di flessibilità delle organizzazioni produttive”, di cui il telelavoro è un importante strumento attuativo» [48]. In una pronuncia di poco successiva, seppur in un obiter dictum, la Cassazione ebbe invece modo di ammettere come anche l’abitazione del telelavoratore possa [continua ..]
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NOTE