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Principio di tempestività e licenziamento per superamento del periodo di comporto: massime stereotipe per fattispecie diverse
Silvia Leggeri, Dottoranda di ricerca in Diritto del lavoro – Università degli Studi di Roma Tre
Cassazione civile, Sez. lav., ord. 11 settembre 2020, n. 18960 – Pres. Raimondi-Rel. Garri
A differenza del licenziamento disciplinare, che postula l’immediatezza del recesso a garanzia della pienezza del diritto di difesa all’incolpato, nel licenziamento per superamento del periodo di comporto per malattia, l’interesse del lavoratore alla certezza della vicenda contrattuale va contemperato con quella del datore di lavoro a disporre di un ragionevole “spatium deliberandi”, in cui valutare convenientemente la sequenza di episodi morbosi del lavoratore, ai fini di una prognosi di sostenibilità delle sue assenze in rapporto agli interessi aziendali; ne consegue che, in tale caso, il giudizio sulla tempestività del recesso non può conseguire alla rigida applicazione di criteri cronologici prestabiliti, ma costituisce valutazione di congruità che il giudice deve compiere caso per caso, apprezzando ogni circostanza al riguardo significativa
Sommario:
1. Massime e fattispecie - 2. Il licenziamento intimato prima del rientro in servizio - 3. Il licenziamento intimato dopo un periodo non continuativo di ripresa del servizio - 4. Il licenziamento intimato dopo un periodo ininterrotto di ripresa del servizio - NOTE
1. Massime e fattispecie
Nel caso di specie, i giudici di merito avevano ritenuto illegittimo il licenziamento intimato dal datore di lavoro a distanza di circa cinque mesi dalla data in cui il comporto non era stato superato. La Suprema Corte, nel confermare tale decisione, ha ribadito principi da tempo elaborati, che possono riassumersi nelle seguenti massime: a) «il giudizio sulla tempestività del recesso non può conseguire alla rigida applicazione di criteri cronologici prestabiliti, ma costituisce valutazione di congruità che il giudice deve compiere caso per caso, apprezzando ogni circostanza al riguardo significativa»; b) «l’interesse del lavoratore alla certezza della vicenda contrattuale» – che il principio di tempestività mira a tutelare – «va contemperato con quello del datore di lavoro a disporre di un ragionevole “spatium deliberandi”, in cui valutare convenientemente la sequenza di episodi morbosi del lavoratore, ai fini di una prognosi di sostenibilità delle sue assenze in rapporto agli interessi aziendali». Sembra, però, utile osservare come si tratti di massime stereotipe, che vengono richiamate ed utilizzate in relazione a fattispecie tra loro molto diverse. Ne deriva, così, non solo il rischio di ingenerare possibili confusioni, ma anche e soprattutto di eludere l’approfondimento che sarebbe invece utile al fine di una più corretta articolazione e specificazione dei principi di diritto applicabili per risolvere ciascuna di quelle, diverse, fattispecie. A questo fine, a mio avviso, è opportuno operare una distinzione, quantomeno, tra le tre seguenti fattispecie: la fattispecie in cui, esaurito il periodo di comporto, l’assenza perduri ininterrottamente sino all’intimazione del licenziamento [1]; la fattispecie, come quella decisa dalla sentenza annotata, in cui il licenziamento venga intimato a seguito di una ripresa del servizio intervallata da nuovi periodi di assenza [2]; la fattispecie in cui, esaurito il comporto, il licenziamento venga intimato a seguito di un periodo di ininterrotta ripresa del servizio [3]. Se si tiene conto di tale distinzione, a mio avviso, è possibile ridurre e contenere il notevole grado di incertezza degli esiti applicativi che contraddistingue la valutazione dei giudici del merito quando essi, sulla base delle massime richiamate, sono chiamati [continua ..]
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2. Il licenziamento intimato prima del rientro in servizio
Anzitutto, a mio avviso, non ha senso richiamare il requisito della “tempestività” quando il licenziamento riguardi un lavoratore che, dopo aver superato il periodo massimo di comporto, prosegua ininterrottamente l’assenza per malattia, in quanto, in tale ipotesi, è da ritenere sempre irrilevante la durata del tempo in cui il datore di lavoro sia rimasto inerte prima di procedere al licenziamento. Infatti, è vero che, in linea di principio, il requisito della tempestività è «immanente ad ogni ragione di licenziamento, ivi compreso quello per superamento del periodo di comporto» [4], e ciò anche a ragione degli obblighi generali di buona fede e correttezza. Allo stesso modo, non v’è dubbio che il requisito di cui trattasi esprime la necessità di «evitare che il lavoratore resti in una sorta di limbo, senza sapere se e a quali condizioni potrà proseguire il proprio rapporto» [5]. Né si intende qui entrare nel merito del vivace dibattito che ha ad oggetto la rilevanza giuridica della prolungata inerzia del datore di lavoro e della sua idoneità a configurare una rinuncia tacita, per mancanza di interesse, all’esercizio del potere di licenziare [6]. Il punto è che tali principi non appaiono pertinenti ai fini della soluzione dell’ipotesi ora in esame, perché qui non sorge alcuna questione di rispetto della buona fede e correttezza in executivis, né è individuabile un affidamento del lavoratore meritevole di tutela, né, infine, è configurabile un comportamento concludente del datore di lavoro interpretabile come rinuncia al recesso. Non vi è nulla di tutto ciò semplicemente perché il periodo di comporto, come tutte le condizioni poste dalla legge a favore del lavoratore, costituisce una tutela inderogabile in pejus, ossia nel minimo. Ciò significa che il datore di lavoro è obbligato a tollerare l’assenza per malattia del lavoratore sino alla scadenza del termine di comporto, ma da quel momento, ai sensi dell’art. 2110 c.c., egli recupera la facoltà (ma non ha ovviamente l’obbligo) di intimare il recesso ex art. 2118 c.c. Quindi, il comportamento del datore di lavoro che non intimi il recesso al lavoratore che abbia superato il periodo di comporto, e che continui ad [continua ..]
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3. Il licenziamento intimato dopo un periodo non continuativo di ripresa del servizio
Diversamente dall’ipotesi ora esaminata, il licenziamento intimato dopo un periodo non continuativo di ripresa del servizio – al pari del licenziamento intimato dopo un periodo continuativo di ripresa del servizio (di cui si dirà nel paragrafo che segue) – pone la quaestio facti riguardante la valutazione della rilevanza del tempo trascorso tra la ripresa del servizio e l’intimazione del licenziamento, nonché dell’eventuale significato negoziale attribuibile al contegno tenuto medio tempore dal datore di lavoro. Di conseguenza, è fisiologico che le specificità del caso concreto possano dare luogo a diversi esiti decisionali, tanto più che l’interpretazione della volontà negoziale, rimessa ai giudici del merito, non è sindacabile in cassazione se non per violazione degli artt. 1362 ss. c.c. Tuttavia, se si tiene conto che la certezza del diritto è un valore al quale l’ordinamento dovrebbe tendere, non può non suscitare perplessità come fattispecie in tutto assimilabili possano dare luogo a conclusioni diametralmente opposte; e di conseguenza appare giustificata l’aspettativa che da parte della giurisprudenza vi sia un ulteriore approfondimento finalizzato ad una più specifica articolazione dei principi di diritto applicabili, onde contenere, nei limiti del possibile, il senso di disorientamento che, anche tra gli stessi operatori professionali, è provocato dall’imprevedibilità della decisione del caso concreto. Emblematici di tale disorientamento sono i due casi decisi dalle sentenze della Cassazione n. 7849/2019 e n. 20722/2015, aventi ad oggetto entrambi il licenziamento di un lavoratore che, superato il comporto, aveva ripreso il servizio alternando periodi di lavoro a ulteriori giorni di assenza per malattia, per ferie, o per altro titolo. Nel primo caso, in cui il lavoratore, nell’arco dei quattro mesi trascorsi tra la maturazione del periodo di comporto e l’intimazione del licenziamento, aveva lavorato per soli venti giorni, la sentenza n. 7849/2019 ha escluso che la condotta del datore di lavoro, consistente nella concessione di ferie e nella tolleranza di ulteriori assenze dovute a malattia, potesse ingenerare un affidamento nel dipendente circa la volontà del datore di soprassedere al recesso. Quindi, in tale occasione, la Corte ha ritenuto [continua ..]
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4. Il licenziamento intimato dopo un periodo ininterrotto di ripresa del servizio
La terza ed ultima fattispecie, tra quelle individuate, è quella alla quale meglio si adatta la massima, già ricordata, secondo cui «il giudizio sulla tempestività del recesso non può conseguire alla rigida applicazione di criteri cronologici prestabiliti, ma costituisce valutazione di congruità che il giudice deve compiere caso per caso, apprezzando ogni circostanza al riguardo significativa». Con ciò non si intende dire che, nella fattispecie ora in esame, il principio di cui trattasi sia idoneo ad evitare incertezze applicative. Basti, al riguardo, mettere a confronto il giudizio deciso da Cass. n. 10666/2016, nel quale è stato ritenuto legittimo il licenziamento intimato dopo sei mesi di ininterrotta ripresa del servizio, e quello deciso da Cass. n. 4572/1984, nel quale al contrario è stato ritenuto tardivo il licenziamento disposto dopo quattro mesi (e, quindi, dopo un periodo di ripresa continuativa del servizio più breve di quello oggetto di Cass. n. 10666/2016). In effetti, non pare dubitabile che, per un verso, il ripristino, dopo il superamento del periodo di comporto, della normale funzionalità del rapporto di lavoro costituisca un indizio della volontà del datore di lavoro di rinunciare alla facoltà di esercitare il recesso (indizio che, secondo il comune buon senso, dovrebbe assumere tanto più rilevanza quanto più prolungato sia stato il periodo di regolare ripresa della normale prestazione lavorativa), ma anche che, per altro verso, la condotta del datore di lavoro può non avere alcun valore negoziale (come nel caso, già accennato, di errore nel calcolo del comporto o di disattenzione degli uffici competenti a verificare il superamento del comporto stesso), ovvero trovare spiegazione nell’esigenza di valutare la possibilità di un utile reimpiego del lavoratore nella organizzazione aziendale dopo un lungo periodo di assenza. Cosicché, la decisione del caso concreto non può che discendere dalla valutazione delle circostanze che lo caratterizzano [15], il cui esame è essenziale per individuare il necessario contemperamento tra «l’interesse del lavoratore alla certezza della vicenda contrattuale» e «l’interesse del datore di lavoro a disporre di un ragionevole “spatium deliberandi”, in cui valutare convenientemente la sequenza [continua ..]
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NOTE