Massimario di Giurisprudenza del LavoroISSN 0025-4959
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Sull'incertezza del diritto del lavoro (di G. Maurizio Ballistreri, Professore associato di Diritto del lavoro, Università degli Studi di Messina)


Il tema dell’incertezza del diritto e, in specie, del diritto del lavoro, costituisce un’area di riflessione significativa e oggetto di importanti elaborazioni dottrinali. Il declino del concetto della certezza del diritto, inteso in connessione alla nozione di Stato moderno, all’illu­minismo e al giuspositivismo, si riscontra già nel Novecento. L’esigenza di fondo è quella di evitare per il diritto del lavoro il rischio di trasformarsi, paradossalmente, in strumento d’impresa, per riaffermare il principio della sua autonomia assiologica, in cui l’efficacia di un ordinamento giuridico è in funzione della capacità di realizzare i suoi valori.

 

On the uncertainty of labor law

The issue of legal uncertainty and, in particular, labor law, constitutes a significant area of reflection, as it is already the subject of important doctrinal elaborations. The decline of the concept of legal certainty, understood in connection with the notion of the modern state, the Enlightenment and legal positivism, can be seen already in the twentieth century. The basic need is to avoid the risk for labor law of transforming itself, paradoxically, into a business tool, to reaffirm the principle of the axiological autonomy, in which the effectiveness of a legal system is in function of the ability to realize its values.

Keywords: labor law; uncertainty.

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SOMMARIO:

Introduzione - 1. Certezza del diritto e statalismo giuridico - 2. Legge e sovranità statuale - 3. Il Novecento tra norma statale e società - 4. Oltre il diritto degli Stati - 5. Incertezza e diritto del lavoro - NOTE


Introduzione

Il tema dell’incertezza del diritto e, in specie, del diritto del lavoro, costituisce un’area di riflessione significativa, quanto già oggetto di importanti elaborazioni dottrinali in campo giuslavoristico [1], ancor di più attuali in ordine alle problematiche interpretative e applicative poste dalla diffusione della pandemia, per quanto attiene, ad esempio, a Cassa Integrazione in deroga e sicurezza per smart working, che devono essere analizzate non solo sotto l’angolo visuale delle tutele in regime emergenziale, ma anche delle concrete esperienze applicative che incideranno strutturalmente sulle prospettive future del diritto del lavoro [2]. Le oscillazioni del diritto positivo e della giurisprudenza, le tesi sul “diritto del lavoro dell’economia”, la contrattazione collettiva derogatoria, i confini mobili tra lavoro dipendente e autonomo, sono tra le cause dell’incertezza del diritto del lavoro, a cui contribuiscono anche elementi fattuali individuabili nell’ambiguità, nell’o­scurità e nella mancanza di semplicità delle norme con un elevato grado di instabilità, nella pluralità delle leggi con stratificazione e nella lunghezza dei processi. Si guardi, solo a mo’ di esempio, alla nozione di fattispecie, o meglio l’efficacia della regolazione attraverso fattispecie, sempre più messa in discussione sul piano dogmatico generale e negli equilibri ordinamentali, da quelli costituzionali a quelli legislativi, poiché il discorso sulla fattispecie come nozione tecnico-giuridico intorno a cui si può concentrare una disciplina “prevedibile”, “calcolabile”, veicolo di un’accettabile grado di “certezza del diritto”, riguarda anche il diritto del lavoro [3]. La certezza del diritto che ha costituito un aspetto assiomatico della modernità giuridica [4], una “verità”, quasi un idola tribus per parecchie generazioni di giuristi: dai seguaci del Settecento della “nuova religione” illuministica, ai “predicatori” del­l’Ottocento e del Novecento del culto della legge e dello Stato [5], ha subito un processo di desacralizzazione, la conseguenza è stata la crisi della certezza del diritto come dogma nella civiltà giuridica moderna. Una dogmatica del diritto che in Italia ha trovato [continua ..]


1. Certezza del diritto e statalismo giuridico

A lla prospettiva teorica normativista è legata la visione dello Stato sovrano quale unico produttore di diritto e della legge quale unica fonte capace di esprimere la volontà generale e, quindi, la (presunta) indiscutibile giustizia e infallibilità del legislatore e l’ideologizzazione del diritto, in cui la norma corrisponde ad un determinato assetto di valori in un sistema [7], come analizzato da Norberto Bobbio, allorquando illustrò che la teoria normativistica, “relegando il momento del comando tra i fe­nomeni psicologici o sociologici”, si concentra “su ciò che propriamente cade sotto l’indagine del giurista, cioè la regola” e tende ad ovviare agli inconvenienti già rilevati della teoria imperativistica, fissando la propria attenzione su ciò che accomuna i vari territori dell’esperienza giuridica, ma non su quello che li divide, e ponendo le basi per superare definitivamente con un taglio netto la fonte storica e ideologica di tutti gli inconvenienti e le ambiguità: l’identificazione fra diritto e Stato [8]. E così, era solo lo Stato che assumeva in via esclusiva il compito di trasformare le dinamiche sociali in leggi, con un monismo rigidissimo, fondato su di un solo produttore di diritto e una sola fonte, la legge, rispetto alla quale, se altre potevano prevedersi, sarebbero sempre state confinate a un livello inferiore, subalterne e sprovviste di autonomia. E tra il Settecento e l’Ottocento ebbero a definirsi i tratti costitutivi della modernità: lo Stato quale unico produttore del diritto; la legge con il crisma esclusivo della giuridicità; il diritto che si risolve in una serie di imperativi, a cui corrisponde l’obbedienza. Entro questa cornice, il carattere essenziale dei comandi non poteva che essere garantito dalla certezza, perché essi dovevano imporre il trattamento giuridico necessario collegato a comportamenti predefiniti in termini generali ed astratti dalle norme: l’obbedienza era garantita dalla coazione. La modernità rappresentò, quindi, l’età del rigido riduzionismo del diritto, con una realtà formale drasticamente semplice, che ebbe nell’esperienza della codificazione il paradigma sin ai primi del Novecento [9], quale elemento fondamentale del diritto legislativo [10]. E, quindi, il monopolio statale della [continua ..]


2. Legge e sovranità statuale

Logica conseguenza della teoria generale del diritto nella concezione kelseniana è che l’ordine giuridico si configura come civitas maxima [13], in cui la sovranità statuale interpreta gli ordinamenti unicamente come specificazione di una legge a carattere universale, in cui si scorge un rapporto dialettico con la filosofia kantiana [14], per spiegare l’origine della norma fondamentale, la quale finisce per configurarsi come presupposto logico-trascendentale. Kelsen così, risolve, rivisitando il pensiero di Kant sul rapporto tra politica e diritto, ed elabora la dottrina dell’impersonalità della legge, che vede nelle norme poste dal le­gislatore le pietre indiscutibili di paragone di un ordine giuridico chiuso, pur sostenendo ruolo e funzioni dei parlamenti e delle democrazie contro una diversa concezione della sovranità, in cui, invece, Schmitt assorbe la politicità del popolo e del suo legame con la terra [15], in chiave apertamente antiformalistica e critica del metodo esegetico. Ciò che appare non controvertibile è la diversa prospettiva politica, economica e sociale del nostro tempo, segnato da disuguaglianza socio-economica, riduzioni drastiche del welfare, ascesa delle nuove forze ‘populiste’, mutamenti del lavoro, ruolo dei social, con il tramonto della democrazia nei paesi occidentali nelle forme storiche in cui si è sviluppata. Le forme sono salve, perché la democrazia non è eliminata ma viene svuotata di contenuti, passando dalla centralità del government a quella della governance, con l’ipotesi della post-democrazia: “Mentre le forme della democrazia rimangono pienamente in vigore e oggi in qualche misura sono anche rafforzate, la politica e i governi cedono progressivamente terreno cadendo in mano alle élite privilegiate, come accadeva tipicamente prima dell’avvento della fase democratica” [16].


3. Il Novecento tra norma statale e società

Ma il declino del concetto della certezza del diritto, inteso in connessione alla nozione di Stato moderno, all’illuminismo e al giuspositivismo, si riscontra già nel Novecento, con la coincidenza tra diritto e norma statuale, in primo luogo in ordine alla diffusione dei principi della sovranità popolare, soprattutto per il nuovo protagonismo della società e dei suoi attori, dalla borghesia al “quarto Stato” e alle categorie del “sociale” e del “collettivo”. Del diritto permeato dalle influenze della società e dei suoi corpi intermedi si avrà una importante elaborazione nell’opera di Santi Romano e nella sua teoria istituzionalista in Italia, fondata sulla pluralità degli ordinamenti giuridici [17] e nell’e­sperienza della Repubblica di Weimar [18], con il modello dell’“autodeterminazione sociale”, specie nell’elaborazione di Hugo Sinzheimer [19], quale strumento di intervento dei soggetti collettivi (i sindacati dei lavoratori in primo luogo) nella sfera statutale di produzione normativa. È avvenuta così, una revisione radicale dell’imperante e indiscusso normativismo formalistico, cogliendo il diritto dal basso, dal punto di vista della società e non solo delle istituzioni pubbliche. Ecco, quindi, il pluralismo giuridico, pilastro del diritto post-moderno, come testimonia d’altra parte la Costituzione italiana del 1948 con il suo progetto di “pluralismo istituzionalizzato” [20], che ha detronizzato l’esclusività del potere normativo della legge, erodendo in modo significativo il contenuto tradizionale del vecchio principio di legalità di conio moderno. In questa prospettiva i diritti sociali hanno costituito la naturale espansione dei diritti civili e politici di matrice liberale, stabilendo finalmente quel nesso tra diritti e democrazia che era stato infranto dalle dittature negli anni ’30 [21], e che hanno trovato una formalizzazione costituzionale solo nel corso del Novecento [22], in conseguenza del diffondersi di una nuova concezione della persona umana e dell’allar­gamento del concetto di eguaglianza finalizzato a garantire le premesse democratiche dei nuovi Stati [23].


4. Oltre il diritto degli Stati

Nel XXI secolo a sconvolgere la dialettica tra la concezione giusformalistica del diritto e quella della pluralità degli ordinamenti, nonché della sovranità esclusiva degli Stati in materia di produzione normativa, sono stati, ad un tempo, le leggi internazionali e la lex mercatoria. Si tratta di processi di normazione in continua evoluzione, che si sviluppano al di fuori (e al di sopra) della sovranità degli Stati, che ha subito (e subisce!) una chiara e inequivocabile contrazione [24], nel quadro del fenomeno della globalizzazione economica e giuridica. D’altra parte, lo Stato non è più l’esclusivo protagonista della scena giuridica [25] e il diritto non si può ricondurre esclusivamente al potere di normazione, anche se non si è ancora realizzato un diritto globale preordinato, un global legal regime [26]. Il contesto giuridico, ormai, non si può riassumere nella tradizionale configurazione statalista e normativista, poiché il monopolio giuridico degli Stati è insidiato da nuovi attori, pubblici e privati, che soprattutto per via pattizia danno vita a regimi concorrenti di regolazione dei rapporti giuridici. Non solo, quindi, la fenomenologia del diritto sotto la pressione del mercato economico diviene soft e flessibile, recettiva di input dei soggetti privati, ma pure la fase normativa e giurisdizionale si privatizza, come si evidenzia dalla diffusione della corporate governance e degli arbitrati [27]. Sono in particolare i neo-funzionalisti ad accettare la sfida della flessibilità e della modernizzazione del diritto, sulla base della rilevazione di un contesto socioeconomico segnato dalla complessità [28], che ha trovato nei fenomeni di globalizzazione/deterritorializzazione il sostegno alla propria diffusione e, in questa cornice, si pongono gli interventi sull’autonomia dei privati, sul ruolo degli Stati-Nazione e degli agenti pubblici, e sul mercato. E nel quadro della prevalenza dell’economia sul diritto che si deve registrare l’evoluzione della teoria della “law and economics”, come metodo che studia l’in­fluenza dell’economia nel sistema giuridico ed ha come oggetto di indagine l’analisi economica delle norme giuridiche sia sotto il profilo positivo che normativo. Come è noto nella ricerca per definire un generale quadro di prospettiva teorica, la Law and [continua ..]


5. Incertezza e diritto del lavoro

In questo complesso scenario si inserisce l’incertezza del diritto e, in particolare, del diritto del lavoro, che discende anche dalla scarsa chiarezza delle leggi, dalla concezione “proprietaria” del diritto manifestata da molti organi della magistratura, incuranti delle conseguenze economiche e sociali della instabilità delle interpretazioni, dalla stessa tendenza ad attribuire a giurisdizioni private, specie in campo sovranazionale, la risoluzione delle controversie, rispetto a cui è opportuno riaffermare il “principio dell’autonomia assiologica del diritto” [31], nel quale l’efficacia del sistema giuridico si realizza in ragione della capacità di realizzare i valori a cui la norma giuridica si ispira, senza alcuna subordinazione agli interessi dell’economia, specie nella sua declinazione liberista. E la crisi del normativismo costituisce, invero, una tendenza ormai consolidata in campo lavoristico, al punto di fare affermare che “l’allontanamento dal giuspositivismo [sia] coraggioso, in nome del perseguimento di valori trascendenti di giustizia e di comprensione dei criteri morali e patrimoniali sottesi alla prestazione di fare [per] cogliere il senso del lavoro nella società postindustriale” [32], proprio a cagione dell’incertezza del diritto. In questa prospettiva, a fronte della concezione positivista secondo la quale la certezza del diritto si configura come un valore formale, nel nostro tempo essa è assurta ormai come un ideale, formato da una componente formale-procedurale e da una materiale [33]. La Costituzione di Weimar costituisce in questo senso l’esperienza di avvio di un diritto del lavoro fuori dalle gabbie della normazione statuale, con la partecipazione dei sindacati alla creazione del diritto e alla garanzia della sua effettività giuridica, descritta da von Gierke [34] attraverso un’operazione di decentramento sociale che assumeva quale paradigma il principio germanistico della “consociazione” (Genossenschaft), in cui si inverava il nucleo dell’esperienza proprio della contrattazione collettiva, che secondo l’insegnamento di Sinzheimer si doveva recepire e valorizzare [35]. La dialettica tra vita sociale multiforme e la “schematicità” della produzione statuale assumeva le caratteristiche proprie di una strutturale contraddizione tra [continua ..]


NOTE