Massimario di Giurisprudenza del LavoroISSN 0025-4959
G. Giappichelli Editore

indietro

stampa articolo indice fascicolo leggi articolo leggi fascicolo


Corte costituzionale e licenziamento per motivi economici: una prevedibile parificazione delle tutele (di Antonio Dimitri Zumbo, Docente a contratto di Diritto della previdenza sociale – Università degli Studi di Roma Luiss “Guido Carli”)


>

Corte costituzionale, (24 febbraio 2021) 1° aprile 2021, n. 59 – Pres. Giancarlo Coraggio, Red. Silvana Sciarra

< >

È costituzionalmente illegittimo l’art. 18, comma 7, secondo periodo, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale, nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), come modificato dall’art. 1, comma 42, lett. b), della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), nella parte in cui prevede che il giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, «può altresì applicare» – invece che «applica altresì» – la disciplina della reintegra.

<
SOMMARIO:

1. La questione sottoposta alla Corte - 2. La disciplina di riferimento - 3. Le motivazioni dell’ordinanza di rimessione - 4. La posizione della Consulta - 5. La valutazione dell’intervento - NOTE


1. La questione sottoposta alla Corte

Con la sentenza in commento, la Corte costituzionale è stata chiamata a risolvere la questione sollevata dal Tribunale di Ravenna – in funzione di Giudice del Lavoro –, che ha dubitato circa la legittimità costituzionale dell’art. 18, comma 7, secondo periodo, della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dall’art. 1, comma 42, lettera b), della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita) [1], in relazione agli artt. 3, artt. 24, 41, comma 1, e 111, comma 2 Cost., «nella parte in cui prevede che, in ipotesi in cui il giudice accerti la manifesta insussistenza di un fatto posto a fondamento di un licenziamento per G.M.O. [giustificato motivo oggettivo], “possa” e non “debba” applicare la tutela di cui al 4o comma dell’art. 18 (reintegra)» [2]. Con la riforma oggetto della legge n. 92 del 2012, l’intenzione (in verità non troppo velata) del legislatore è stata quella di delineare un diverso (e forse, quanto meno nelle intenzioni, più prevedibile) regime sanzionatorio dei recessi illegittimi sulla base di un modello che scompone “il meccanismo unitario della reintegra in diversi segmenti in linea decrescente …, [nonché] della categoria unitaria dell’ille­gittimità del licenziamento, modificando in conseguenza il procedimento giudiziale di controllo” [3], al quale è stata correlata [4], una rimodulazione della flessibilità in entrata e il rafforzamento della “flexicurity”, per mezzo di un ragionevole riallineamento [5] dell’assetto degli ammortizzatori sociali  [6]. L’intenzione del legislatore è stata quella di ribaricentrare il meccanismo protettivo verso “un rimedio di contenuto economico/risarcitorio” [7], che dovrebbe contenere l’ambito del “precedente regime reintegratorio” [8] alle fattispecie di grave patologia del recesso [9]. L’intenzione sin qui descritta è peraltro confermata dall’introduzione di un più limitato regime protettivo relativamente alle fattispecie di licenziamento con vizi meramente formali e/o procedurale, ai quali è riservata una garanzia puramente indennitaria e di importo ridotto [10].


2. La disciplina di riferimento

Operata tale premessa ricostruttiva – e senza volere in questa sede, per ovvie ragioni di economica del contributo, procedere ad un’analisi dell’intero meccanismo sanzionatorio [11] – nelle ipotesi di recesso per motivo oggettivo, la riforma del 2012 ha riservato la garanzia reintegratoria (ridotta [12]), in primo luogo, nelle fattispecie in cui il licenziamento sia intimato infondatamente a causa dell’inidoneità fisica o psichica del lavoratore (oltre che per il preteso, ma non effettivamente occorso, superamento del periodo di comporto) e, in secondo luogo, nelle ipotesi in cui il giudice riconosca la manifesta insussistenza del fatto posto a base del giustificato motivo oggettivo di licenziamento e “opti” per tale regime di tutela (ed è proprio tale discrezionalità ad avere determinato il giudice a quo a sollevare la questione di legittimità costituzionale risolta dalla sentenza in commento). In tali fattispecie, quindi, il dipendente avrà diritto alla reintegrazione ed al risarcimento del danno quantificato per mezzo di una indennità, al cui importo – con uno modello già enucleato dalla legge n. 183/2010 e ritenuto legittimo dalla Corte costituzionale [13] – viene posto un tetto massimo pari a 12 mensilità, rispetto alla quale è ammissibile la detrazione dell’aliunde perceptum e dell’aliunde percipiendum  [14]. In alternativa alla reintegrazione, ma fermo restando comunque il diritto al risarcimento del danno (ed al versamento della contribuzione), al lavoratore è sempre riconosciuta la ormai consolidata opzione per l’indennità sostitutiva della reintegra, pari a 15 mensilità, venendo però testualmente previsto che la relativa richiesta determini la risoluzione del rapporto con effetto immediato, in coerenza con la giurisprudenza di legittimità consolidatasi sul punto [15].


3. Le motivazioni dell’ordinanza di rimessione

Il Tribunale rimettente ha invero ritenuto che la sanzione reintegratoria stabilita dall’art. 18, comma 7, che è sempre irrogata in caso di insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento per motivi soggettivi, non possa, invece, essere oggetto di una valutazione discrezionale del giudicante nel caso di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo affetto da un’illegittimità della medesima natura. Per il Tribunale di Ravenna, la differenziazione appena descritta potrebbe comportare l’applicazione di un regime di tutela che, in ipotesi di licenziamento privo di qualsiasi giustificazione e basato su fatti inesistenti, sarebbe rimesso ad un’opzione potenzialmente arbitraria del datore di lavoro quanto alla qualificazione del licenziamento come motivato da ragioni oggettive e non disciplinari. Parimenti, il giudice a quo, facendo proprio l’orientamento maggioritario della giurisprudenza di legittimità  [16], ritiene altrimenti impossibile assumere che la previsione in esame espri­ma un obbligo di applicazione della tutela reale, con ciò non condividendo l’op­posto (e minoritario) indirizzo interpretativo della Cassazione e di parte della dottrina, che nella formula “può”, intravede comunque un obbligo di applicazione della tutela reale  [17], assumendo che tale ultima lettura si tradurrebbe in un’inter­pretazione abrogatrice, non ammissibile nel nostro quadro ordinamentale. Nell’ordi­nanza di rimessione viene, infine, rappresentato che anche la soluzione proposta in giurisprudenza di legittimità circa un’applicazione della previsione al vaglio della Corte secondo il relativo significato letterale – che potrebbe rimettere il giudizio selettivo in ordine all’applicazione della tutela reintegratoria a criteri generali (quali il risarcimento in forma specifica con relativa valutazione di eccessiva onerosità) [18] – non sarebbe comunque condivisibile, andando ad attribuire rilievo decisivo a fatti diversi da quelli (eventualmente pretestuosi) posti alla base del recesso e ad esso eventualmente sopravvenuti.


4. La posizione della Consulta

Dopo avere superato le eccezioni di inammissibilità sollevate dalla difesa erariale [19], la Corte ritiene fondata la questione, assumendo che la disposizione censurata, nel sancire una facoltà discrezionale di concedere o negare la reintegrazione, sia in contrasto con l’art. 3 Cost. La stessa Corte, nel richiamare la propria risalente giurisprudenza, che, in relazione al diritto al lavoro (art. 4, comma 1, Cost.) e alla tutela del lavoro in tutte le sue forme e applicazioni (art. 35 Cost.), ha sostenuto “l’esi­genza di circondare di «doverose garanzie» e di «opportuni temperamenti» le fattispecie di licenziamento [20]”, ha preso atto della permanenza di una discrezionalità del legislatore “quanto alla scelta dei tempi e dei modi della tutela [21], anche in ragione della diversa gravità dei vizi e di altri elementi oggettivamente apprezzabili come, per esempio, le dimensioni dell’impresa”, per cui “la reintegrazione non rappresenta «l’unico possibile paradigma attuativo» dei princìpi costituzionali” [22]. Ferma restando tale premessa ermeneutica, la Corte assume, però, che nell’ap­prestare le garanzie rivolte alla tutela della persona del lavoratore, il legislatore, pur nell’ampio margine di apprezzamento che gli compete, è tenuto a rispettare i princìpi di eguaglianza e di ragionevolezza. In tale ottica, preso atto della opzione del legislatore imperniata sull’insussistenza del fatto quale circostanza che impone la risposta sanzionatoria più energica (la reintegrazione, appunto), viene ritenuto “disarmonico e lesivo del principio di eguaglianza il carattere facoltativo del rimedio della reintegrazione per i soli licenziamenti economici”, considerando che, nel bilancio della riforma del 2012, proprio l’insussistenza del fatto, pur con le diverse gradazioni che presenta nelle singole fattispecie di recesso (dovendo essere la stessa manifesta nei recessi per motivi oggettivi), “denota il contrasto più stridente con il principio di necessaria giustificazione del recesso del datore di lavoro”, enucleato dalla giurisprudenza della Corte sulla base degli artt. 4 e 35 Cost [23].


5. La valutazione dell’intervento

La Consulta, rileva, altresì, una «irragionevolezza intrinseca del criterio distintivo adottato» dal legislatore, atteso che quest’ultimo, per i recessi individuali per motivo economico, «non solo presuppone una evidenza conclamata del vizio, che non sempre è agevole distinguere rispetto a una insussistenza non altrimenti qualificata, ma rende facoltativa la reintegrazione, senza offrire all’interprete un chiaro criterio direttivo», per cui la scelta tra le due opzioni viene così ad essere «rimessa a una valutazione del giudice disancorata da precisi punti di riferimento». Sul punto la Consulta rileva che il richiamo operato dalla giurisprudenza di legittimità al possibile criterio dell’eccessiva onerosità sia sostanzialmente inadeguato rispetto alla disciplina della reintegrazione, che si è configurata, nel tempo, come un’autonoma tecnica di tutela rispetto al paradigma del risarcimento in forma specifica di cui all’art. 2058 c.c. Infatti, tale ipotetico criterio, «per un verso, si rivela indeterminato e improprio e, per altro verso, privo di ogni attinenza con il disvalore del licenziamento; infine, è determinato dalle scelte del responsabile dell’illecito e potrebbe dunque prestarsi a condotte elusive, anche tenuto conto della distanza di tempo tra il licenziamento e il provvedimento giudiziale dichiarativo della sua illegittimità» [24]. La Consulta, peraltro, ha più di recente valorizzato la discrezionalità del giudice, censurando l’automatismo che governava la determinazione dell’in­dennità risarcitoria per i licenziamenti viziati dal punto di vista sostanziale [25] o formale [26], in precedenza commisurata in stretta proporzione all’anzianità di servizio e riattribuendo allo stesso «un essenziale potere di valutazione delle particolarità del caso concreto, in base a puntuali e molteplici criteri desumibili dall’ordinamento, frutto di una evoluzione normativa risalente e di una prassi collaudata». Al contrario, però, nella fattispecie oggetto della sentenza in esame, la tutela applicabile è rimessa ad un parametro valutativo indeterminato, «che fa leva su una mutevole valutazione casistica e su un dato privo di ogni ancoraggio con l’illecito che si deve sanzionare, non si fonda su elementi [continua ..]


NOTE