Massimario di Giurisprudenza del LavoroISSN 0025-4959
G. Giappichelli Editore

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Il velo islamico. La gerarchia mobile tra la libertà religiosa e altri diritti fondamentali (di Roberto Cosio, Avvocato giuslavorista presso il Foro di Catania)


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Corte di Giustizia dell’Unione europea, Grande Sezione, 15 luglio 2021, cause riunite C-804/18 e C-341/19 – Pres. K. Lenaerts, Rel. F. Biltgen, IX c. Waber eV e GmbH c. MJ

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L’art. 1 e l’art. 2, par. 2, lett. a), della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, devono essere interpretati nel senso che una norma interna di un’impresa, che vieta ai lavoratori di indossare sul luogo di lavoro qualsiasi segno visibile di convinzioni politiche, filosofiche o religiose non costituisce, nei confronti dei lavoratori che seguono determinate regole di abbigliamento in applicazione di precetti religiosi, una discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, ai sensi di detta direttiva, ove tale norma sia applicata in maniera generale e indiscriminata.

L’art. 2, par. 2, lett. b), della direttiva 2000/78 deve essere interpretato nel senso che una differenza di trattamento indirettamente fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, derivante da una norma interna di un’impresa che vieta ai lavoratori di indossare sul luogo di lavoro qualsiasi segno visibile di convinzioni politiche, filosofiche o religiose, può essere giustificata dalla volontà del datore di lavoro di perseguire una politica di neutralità politica, filosofica e religiosa nei confronti dei clienti o degli utenti, a condizione che, in primo luogo, tale politica risponda ad un’esigenza reale di detto datore di lavoro, circostanza che spetta a quest’ultimo dimostrare prendendo in considerazione segnatamente le aspettative legittime di detti clienti o utenti nonché le conseguenze sfavorevoli che egli subirebbe in assenza di una tale politica, tenuto conto della natura delle sue attività o del contesto in cui queste ultime si iscrivono; in secondo luogo, che detta differenza di trattamento sia idonea ad assicurare la corretta applicazione di tale politica di neutralità, il che presuppone che tale politica sia perseguita in modo coerente e sistematico e, in terzo luogo, che detto divieto si limiti allo stretto necessario tenuto conto della portata e della gravità effettive delle conseguenze sfavorevoli che il datore di lavoro intende evitare mediante un divieto siffatto.

L’art. 2, par. 2, lett. b), i), della direttiva 2000/78 deve essere interpretato nel senso che una discriminazione indiretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali derivante da una norma interna di un’impresa che vieta, sul luogo di lavoro, di indossare segni visibili di convinzioni politiche, filosofiche o religiose allo scopo di assicurare una politica di neutralità all’interno di tale impresa può essere giustificata solo se detto divieto riguardi qualsiasi forma visibile di espressione delle convinzioni politiche, filosofiche o religiose. Un divieto che si limiti all’uso di segni di convinzioni politiche, filosofiche o religiose vistosi e di grandi dimensioni è tale da costituire una discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, che non può in ogni caso essere giustificata sulla base di tale medesima disposizione.

L’art. 2, par. 2, lett. b), della direttiva 2000/78 deve essere interpretato nel senso che le disposizioni nazionali che tutelano la libertà di religione possono essere prese in considerazione come disposizioni più favorevoli, ai sensi dell’articolo 8, paragrafo 1, di tale direttiva, nell’ambito dell’esame del carattere appropriato di una differenza di trattamento indirettamente fondata sulla religione o sulle convinzioni personali.

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SOMMARIO:

1. Premessa - 2. Sulla prima questione nella causa C-804/18 - 3. Sulla seconda questione, sub a), nella causa C-804/18 - 4. Sulla prima questione nella causa C-341/19 [23] - 5. Sulla seconda questione, sub b), nella causa C-804/18 e sulla seconda questione, sub b), nella causa C-341/19 - 6. Osservazioni conclusive. Sul c.d. bilanciamento “mite” - NOTE


1. Premessa

Le questioni oggetto delle cause riunite C-804/18 e C-341/19 [1] si inseriscono nel solco delle sentenze G4S Secure Solutions e Bougnaoui e ADDH [2]. La domanda di pronuncia pregiudiziale proposta nella causa C-804/18 è stata presentata nell’ambito di una controversia tra IX e il suo datore di lavoro, la WABE e V, un’associazione registrata in Germania che gestisce numerosi asili nido, in merito alla sospensione di IX dalle sue funzioni a seguito del suo rifiuto di rispettare il divieto imposto da WABE ai suoi dipendenti di indossare sul luogo di lavoro qualsiasi segno visibile di natura politica, filosofica o religiosa quando sono a contatto con i genitori o i loro figli. La domanda di pronuncia pregiudiziale proposta nella causa C-341/19 è stata presentata nell’ambito di una controversia tra la MH, società che gestisce una catena di drogherie nel territorio tedesco, e MJ, una sua dipendente, in merito alla legalità dell’ingiunzione rivolta dalla MH a quest’ultima di astenersi dall’indossare, sul luogo di lavoro, segni vistosi e di grandi dimensioni di natura politica, filosofica o religiosa. La Corte, in questo contesto, si sforza di trovare un bilanciamento tra la libertà di religione e altri diritti fondamentali raccogliendo l’invito, formulato dall’Avvocato generale [3], di “cercare un equilibrio tra un’interpretazione uniforme del principio di non discriminazione, nel contesto dell’applicazione della direttiva 2000/78 e l’esi­genza di lasciare un margine di discrezionalità agli Stati membri, tenuto conto della diversità del loro approccio al ruolo della religione in una società democratica [4]”. La libertà di abbigliamento è una componente dell’identità personale che si configura quale “diritto ad essere se stesso (...) con le convinzioni ideologiche, religiose, morali e sociali che differenziano, e al tempo stesso qualificano, l’indivi­duo” [5]. Il problema non riguarda solo la fede islamica o le sole persone di sesso femminile [6]. Si pensi alle suore di fede cattolica romana e anglicana alle quali viene richiesto di indossare un abito che comprende un copricapo. All’uso della Kippah per chi pratica la religione ebraica o, ancora, al dastar (o turbante) per i Sikh, che non possono toglierlo in pubblico [7] o al [continua ..]


2. Sulla prima questione nella causa C-804/18

Con la sua prima questione nella causa C-804/18, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’art. 1 e l’art. 2, par. 2, lett. a), della dir. 2000/78 debbano essere interpretati nel senso che una norma interna di un’impresa, che vieta ai lavoratori di indossare sul luogo di lavoro qualsiasi segno visibile che esprima convinzioni politiche, filosofiche o religiose, costituisca, nei confronti dei lavoratori che seguono determinate regole di abbigliamento in ragione di precetti religiosi, una discriminazione diretta basata sulla religione o sulle convinzioni personali ai sensi di tale direttiva. Il giudice di rinvio ritiene, in sostanza, che il procedimento principale verta su una discriminazione diretta in ragione di un trattamento sfavorevole subito da IX che si è concretizzato in un avvertimento scritto per avere indossato un velo islamico sul luogo di lavoro. La Corte non condivide questa impostazione [12]. Riprendendo l’approccio seguito nella sentenza G4S Secure Solutions [13] ritiene che il divieto in essere non costituisce una discriminazione diretta “ove tale norma sia applicata in maniera generale e indiscriminata” (punto 55). Condividendo le conclusioni dell’Avvocato generale (punto 54), la Corte ritiene che tale constatazione non possa essere rimessa in discussione dalla circostanza “che taluni lavoratori seguono determinati precetti religiosi che impongono un certo abbigliamento”. Infatti, come sostiene l’Avvocato generale, “la sussistenza di una discriminazione siffatta deve essere esaminata con una valutazione oggettiva, consistente nel verificare se i dipendenti dell’impresa siano trattati allo stesso modo e non sulla base di considerazioni soggettive proprie a ognuno di essi”. Dagli elementi del fascicolo risulta, peraltro, che la WABE avrebbe chiesto e ottenuto che una lavoratrice che indossava una croce religiosa togliesse tale segno. Insomma dagli elementi offerti alla Corte risulta che l’applicazione della norma interna sia avvenuta senza alcuna distinzione tra le diverse fedi professate dai dipendenti. Circostanza che, peraltro, viene demandata all’accertamento del giudice di rinvio (punto 54). L’affermazione della Corte (certamente importante nella sua portata nomofilattica) va, comunque, sempre “calibrata” sulle diverse fattispecie che verranno portate all’attenzione dei giudici [14]. La [continua ..]


3. Sulla seconda questione, sub a), nella causa C-804/18

Con la sua seconda questione, sub a), nella causa C-804/18, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’art. 2, par. 2, lett. b), della dir. n. 2000/78 debba essere interpretato nel senso che una differenza di trattamento indirettamente basata sulla religione e/o sul sesso, derivante da una norma interna di un’impresa che vieta ai lavoratori di indossare sul luogo di lavoro qualsiasi segno visibile di convinzioni politiche, filosofiche o religiose, possa essere giustificata dalla volontà del datore di lavoro di perseguire una politica di neutralità politica, filosofica e religiosa nei confronti dei suoi clienti o utenti, al fine di tener conto delle legittime aspettative di questi ultimi. La Corte, in via preliminare, per quanto riguarda l’esistenza di una discriminazione indiretta basata sul sesso, condivide le osservazioni dell’Avvocato generale (punto 59) ritenendo che tale motivo di discriminazione non rientra nell’ambito di applicazione della dir. n. 2000/78. Per quanto riguarda la questione se una differenza di trattamento indirettamente fondata sulla religione possa essere giustificata dalla volontà del datore di lavoro di perseguire una politica di neutralità politica, filosofica e religiosa sul luogo di lavoro, al fine di tener conto delle aspettative dei suoi clienti o utenti, la Corte, richiamando la sentenza Bougnaoui, richiede la necessità di una finalità legittima e l’esistenza di un carattere appropriato e necessario dei mezzi impiegati per il suo perseguimento (da interpretare restrittivamente, punto 61). Sotto il profilo della finalità legittima la Corte ritiene che la volontà di un datore di lavoro di mostrare, nei rapporti con i clienti sia pubblici che privati, una politica di neutralità politica, filosofica o religiosa può essere considerata legittima,” in particolare qualora il datore di lavoro coinvolga nel perseguimento di tale obiettivo soltanto i dipendenti che si suppone entrino in contatto con i clienti del medesimo [18]”. Infatti, afferma la Corte, la volontà di un datore di lavoro di dare ai clienti un’immagine di neutralità rientra nella libertà d’impresa [19], riconosciuta dall’ar­ticolo 16 della Carta, ed ha, in linea di principio, carattere legittimo [20]. Affermazione che si pone in linea con la giurisprudenza della Cedu [21]. Una [continua ..]


4. Sulla prima questione nella causa C-341/19 [23]

Con la sua prima questione nella causa C-341/19, il giudice del rinvio in tale causa chiede, in sostanza, se l’art. 2, par. 2, lett. b), i), della dir. n. 2000/78 debba essere interpretato nel senso che una discriminazione indiretta basata sulla religione o sulle convinzioni personali, che deriva da una norma interna di un’impresa che vieta, sul luogo di lavoro, di indossare segni visibili di convinzioni politiche, filosofiche o religiose allo scopo di assicurare una politica di neutralità all’interno di tale impresa, possa essere giustificata solo se tale divieto riguardi qualsiasi forma visibile di espressione delle convinzioni politiche, filosofiche o religiose o se sia sufficiente che tale divieto sia limitato ai segni vistosi di grandi dimensioni ove sia attuato in modo coerente e sistematico. Sulla questione, la Corte opera un distinguo. Infatti, sebbene tale questione si basi sulla premessa dell’esistenza di una discriminazione indiretta, resta il fatto che, come fatto valere dalla Commissione europea nelle sue osservazioni, una norma interna di un’impresa che, come quella controversa in tale causa, vieta soltanto di indossare segni vistosi di grandi dimensioni è tale da pregiudicare più gravemente le persone che aderiscono a correnti religiose, filosofiche e non confessionali che prevedono che sia indossato un indumento o un segno di grandi dimensioni, come un copricapo. Un divieto che si limiti all’uso di segni di convinzioni politiche, filosofiche e religiose vistosi e di grandi dimensioni “è tale da costituire una discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convenzioni professionali, che non può in ogni caso essere giustificata” (punto 78) sulla base della direttiva [24]. Nell’ipotesi in cui tale discriminazione diretta non sia accertata (seconda ipotesi) entrano in gioco le finalità legittime e il rispetto del principio di proporzionalità. La finalità legittima può essere integrata dallo scopo di “prevenire conflitti sociali all’interno dell’impresa”, mentre la proporzionalità dell’intervento per assicurare una politica di neutralità all’interno dell’impresa richiede che il divieto riguardi “qualsiasi forma visibile di espressione delle convinzioni politiche, filosofiche e o religiose” (punto 78). Una politica di neutralità [continua ..]


5. Sulla seconda questione, sub b), nella causa C-804/18 e sulla seconda questione, sub b), nella causa C-341/19

Con la seconda questione, sub b), nella causa C-804/18, che è analoga alla seconda questione, sub b), nella causa C-341/19, l’Arbeitsgericht Hamburg (Tribunale del lavoro di Amburgo) chiede, in sostanza, se l’art. 2, par. 2, lett. b), della dir. n. 2000/78 debba essere interpretato nel senso che le disposizioni costituzionali nazionali che tutelano la libertà di religione possano essere prese in considerazione in quanto disposizioni più favorevoli ai sensi dell’art. 8, par. 1, di tale direttiva, nel­l’ambito dell’esame del carattere appropriato di una differenza di trattamento indirettamente fondata sulla religione o sulle convinzioni personali. La Corte risponde al quesito positivamente [26] ricordando, in primo luogo, che, nell’ambito dell’esame del carattere appropriato, ai sensi dell’art. 2, par. 2, lett. b), i), della dir. 2000/78, della restrizione derivante dalla misura introdotta per garantire l’applicazione di una politica di neutralità politica, filosofica e religiosa, si deve tener conto, oltre ai diritti fondamentali quali garantiti dalla Cedu, anche delle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi generali del diritto dell’Unione. Orbene, precisa la Corte, “tra i diritti che risultano da tali tradizioni comuni e che sono stati ribaditi nella Carta figura il diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione sancito all’articolo 10, paragrafo 1, della Carta. Conformemente a tale disposizione, detto diritto include la libertà di cambiare religione o convinzione, così come la libertà di manifestare la propria religione o la propria convinzione individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’inse­gnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti”. Pertanto, nell’ambito dell’esame del carattere appropriato, ai sensi dell’art. 2, par. 2, lett. b), i), della dir. n. 2000/78, della restrizione derivante da una misura destinata ad assicurare l’applicazione di una politica di neutralità politica, filosofica e religiosa, si deve tener conto dei diversi diritti e libertà in esame. Per quanto riguarda, in secondo luogo, la questione se una disposizione nazionale relativa alla libertà di religione e di coscienza possa essere considerata come una disposizione nazionale più [continua ..]


6. Osservazioni conclusive. Sul c.d. bilanciamento “mite”

Le Sezioni Unite della Cassazione, il 9 settembre 2021, sono intervenute sulla questione dell’esposizione del crocifisso con la sentenza n. 24414. Il “caso” tra origine da una circolare del dirigente scolastico dell’istituto professionale. Con tale circolare il dirigente scolastico ha richiamato la delibera con cui gli studenti della terza classe, riuniti in assemblea, avevano deciso di tenere affisso il crocifisso durante tutte le ore di lezione; e dopo avere ritenuto la scelta degli studenti “coerente con la cultura italiana, che ha nel pensiero cristiano una componente fondamentale, e con le leggi e la Costituzione di questo Paese”, ha invitato formalmente tutti i docenti “a rispettare e a tutelare la volontà degli studenti, autonomamente determinatasi ed espressa chiaramente nel verbale di assemblea”. Poiché il ricorrente ha continuato a rimuovere il crocifisso durante le ore di lezione da lui tenute, ne è derivato, a seguito di ulteriore diffida, il procedimento disciplinare, anche per gli insulti rivolti dal docente al dirigente scolastico in presenza degli studenti, procedimento che si è concluso con l’irrogazione della sanzione della sospensione per trenta giorni. La questione era stata rimessa al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, con ordinanza interlocutoria del 18 settembre 2020, n. 19618 [30], sul rilievo che il ricorso prospettava una questione di massima rilevanza che richiedeva un bilanciamento fra le libertà e i diritti che garantiscono, da un lato, la libertà d’insegnamento e, dall’altro, il rispetto della coscienza civile e morale degli alunni. La motivazione della sentenza contiene un affresco dei principi definiti dalla Costituzione italiana, dalle Carte dei diritti e dalle Corti che ne sono interpreti. Un esercizio di “nomofilachia” che si avvale “dell’apporto dei giudici del merito e delle riflessioni del Collegio della sezione remittente, dell’opera di studio e di ricerca del Massimario, degli approfondimenti scientifici e culturali offerti dagli incontri di studio organizzati dalla Formazione decentrata della Corte, delle sollecitazioni e degli stimoli, espressione di ius litigatoris, derivanti dalle difese delle parti e dal contributo, ispirato alla salvaguardia del pubblico interesse attraverso il prisma dello ius constitutionis, del pubblico [continua ..]


NOTE