Massimario di Giurisprudenza del LavoroISSN 0025-4959
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Trasferimento d'azienda illegittimo: non c'è «doppia retribuzione» (di Gennaro Ilias Vigliotti, Dottore di ricerca in Diritto del lavoro e Docente a contratto – Università degli Studi del Molise)


Tribunale di Roma, Sez. lav., 12 gennaio 2021, n. 113 – Giud. Angela Damiani

In caso di trasferimento d’azienda dichiarato illegittimo, quando il lavoratore costituisce regolarmente in mora l’imprenditore cedente ma continua a lavorare alle dipendenze del cessionario, la controprestazione retributiva effettuata da quest’ul­timo nei confronti del dipendente libera anche il cedente dall’obbligo di pagare la prestazione offertagli. Sebbene provengano da fonti giuridiche diverse, le due obbligazioni retributive hanno ad oggetto la medesima prestazione, ossia quella resa dal lavoratore ceduto all’interno dell’organizzazione aziendale illegittimamente trasferita, con la conseguenza che viene a crearsi una solidarietà passiva che consente al cessionario di liberare il cedente.

Invalid transfer of business: there is no «double pay»

Keywords: transfer of the undertaking – double salary – late payment

SOMMARIO:

1. Il caso concreto - 2. Mancata riammissione del lavoratore e mora del creditore - 3. La questione dei pagamenti effettuati dal cessionario - 4. Il ritorno alla tesi dell’unicità della prestazione da parte del Tribunale di Roma - 5. Conclusioni - NOTE


1. Il caso concreto

La controversia esaminata dal Tribunale di Roma prende avvio dal ricorso presentato da alcuni lavoratori di una nota società telefonica italiana, i quali deducevano di essere stati ceduti, nell’ambito di una operazione di trasferimento d’azienda, ad un diverso imprenditore e, dopo alcuni anni di lavoro alle dipendenze di que­st’ultimo, di essere tornati in servizio presso il cedente in ragione della fusione per incorporazione intervenuta tra le due società. Prima del ritorno alle dipendenze del cedente, però, i lavoratori avevano ottenuto la dichiarazione giudiziale di illegittimità del trasferimento, con sentenza passata in giudicato solo dopo l’operazione di fusione sopra menzionata. I ricorrenti, dunque, chiedevano al Tribunale di condannare il cedente al pagamento delle retribuzioni da quest’ultimo non corrisposte nel periodo intercorrente tra la ricostituzione giuridica del rapporto (coincidente con la data di illegittima cessione del contratto) e l’effettiva riammissione in servizio, avvenuta a seguito della fusione. In particolare, i lavoratori sostenevano che il diritto al corrispettivo del dipendente ceduto non verrebbe meno per il semplice fatto di aver lavorato per il cessionario ricevendo la relativa retribuzione, fatta salva la necessaria offerta della prestazione nei confronti del cedente. Si costituiva in giudizio l’azienda cedente, affermando che i pagamenti a titolo retributivo e contributivo effettuati dal cessionario, nel periodo in cui lo stesso risulta essere datore di lavoro, valgono a liberare il soggetto cedente fino a concorrenza della retribuzione spettante in base alla legge ed alla contrattazione collettiva applicabile. Nel caso di specie, il trattamento economico riconosciuto dal cessionario ai lavoratori era stato identico a quello spettante alle dipendenze del cedente, con la conseguenza che, secondo la Società, nessuna somma era dovuta ai ricorrenti. Il Tribunale, dopo aver esaminato l’ampia giurisprudenza formatasi sulla questione, ha accolto la tesi dell’azienda e concluso per il rigetto integrale delle doman­de, affermando che il lavoratore, per i periodi in cui ha lavorato per il cessionario pur essendo il rapporto imputato al cedente, non ha diritto ad una doppia retribuzione dato che i pagamenti effettuati dal cessionario liberano il cedente fino a concorrenza della retribuzione spettante.


2. Mancata riammissione del lavoratore e mora del creditore

La disciplina legale del trasferimento d’azienda, a differenza di quanto avviene per altri istituti [1], non regola specificamente le conseguenze economiche scaturenti dalla dichiarazione giudiziale di illegittimità del trasferimento. Com’è noto, l’art. 2112 c.c. si occupa solo di definire le caratteristiche essenziali dell’istituto e le conseguenze immediate del passaggio dei contratti di lavoro dal cedente al cessionario. In altre sedi, poi, sono disciplinate la procedura sindacale da seguire e le regole speciali applicabili ai trasferimenti riguardanti le aziende in crisi sottoposte a liquidazione (art. 47, legge n. 426/1990; artt. 189 e 191, d.lgs. n. 14/2019) [2]. Ora, non v’è dubbio che, in caso di dichiarazione giudiziale di illegittimità del passaggio del rapporto di lavoro, quest’ultimo retroceda, sin dal giorno di disposizione della cessione, in capo al soggetto cedente, il quale riacquisisce ex tunc la qualità giuridica di datore di lavoro [3]. Si pone però il problema delle somme eventualmente spettanti al lavoratore che, pur avendo validamente (ed infruttuosamente) intimato al cedente di essere riammesso in servizio, abbia nel periodo intermedio lavorato a favore del cessionario, percependo la relativa retribuzione. Il trasferimento disposto dalle parti, infatti, ha piena efficacia tra le stesse ed il dipendente del cedente presta servizio per il nuovo imprenditore che ha acquisito l’azienda o il ramo di essa. In altre parole, si tratta di capire se, a seguito del suo ritorno nella qualità di datore, sussista o meno in capo al cedente, per i periodi di lavoro svolti dal lavoratore alle dipendenze del cessionario, un obbligo di tipo retributivo e se i pagamenti nel mentre effettuati a tale titolo da quest’ultimo valgano a liberare il cedente. Al riguardo, in assenza di riferimenti normativi specifici, la dottrina giuslavorista ha fatto ricorso ai princìpi generali del diritto delle obbligazioni, applicando al caso di specie la disciplina della mora del creditore (art. 1206 ss. c.c.) [4]. Com’è noto, tale istituto prevede che, nei contratti a prestazioni corrispettive, il creditore sia in mora quando, senza legittimo motivo, rifiuti la prestazione offertagli dal debitore nei modi prescritti o non compia quanto necessario per consentire a quest’ultimo di adempiere alla propria obbligazione. [continua ..]


3. La questione dei pagamenti effettuati dal cessionario

La sentenza della Corte Costituzionale del 2019, pur ricorrendo ad argomentazioni che si sono prestate ad alcune osservazioni critiche in dottrina [17], ha sostanzialmente risolto la prima delle questioni poste dalla dichiarazione di illegittimità di un trasferimento d’azienda, ossia quella della natura giuridica delle somme spettanti al lavoratore che costituisca in mora il cedente. La decisione della Consulta, però, ha lasciato aperto il problema principale prospettato in precedenza, ossia quello della presenza di pagamenti a titolo retributivo erogati al lavoratore da parte del cessionario, sia per il periodo precedente alla declaratoria giudiziale di invalidità della cessione, sia eventualmente per il periodo successivo a tale provvedimento. Secondo l’orientamento giurisprudenziale più risalente, come si è visto, la questione era stata risolta nel senso di riconoscere la totale detraibilità delle somme pagate dal cessionario, in ragione della qualificazione risarcitoria degli obblighi gravanti sul datore moroso e, dunque, dell’applicazione del principio della compensatio lucri cum damno [18]. Tuttavia, a seguito del mutamento di indirizzo, confermato dal dictum della Corte Costituzionale, siffatto meccanismo sembrava non più attivabile, in ragione della riqualificazione di tale obbligo in termini di prestazione retributiva. Poco dopo la pubblicazione delle motivazioni delle sentenze sopra richiamate, però, è intervenuta nuovamente la Corte di Cassazione, la quale, con riferimento al solo periodo successivo alla dichiarazione di invalidità dell’operazione di cessione, ha affermato che «dalla ritenuta spettanza delle retribuzioni per il periodo successivo alla realizzata illegittima cessione del ramo d’azienda non deriva […] la conseguenza della possibilità di cumulare due retribuzioni (quella dovuta dal cedente e quella percepita dal cessionario). E ciò in quanto «nella cessione del ramo d’azien­da si ha la sostituzione del cessionario al cedente nel rapporto giuridico, il quale rimane – di regola e salvo eccezione la cui prova dev’essere fornita dalla parte interessata – eguale nei suoi elementi oggettivi» [19]. Dando seguito a tali princìpi, la Corte ha concluso che «il pagamento della relativa retribuzione da parte del cessionario [continua ..]


4. Il ritorno alla tesi dell’unicità della prestazione da parte del Tribunale di Roma

L’orientamento della Cassazione favorevole alla produzione dell’effetto della doppia retribuzione nei casi di trasferimento illegittimo ha conosciuto, dopo il primo arresto del 2019, un progressivo consolidamento nella giurisprudenza di legittimità. Nonostante ciò, a partire dal 2020 si sono distinte alcune sentenze di merito che, con argomentazioni diverse, hanno proposto soluzioni in grado di evitare il “raddoppio” dell’adempimento retributivo. Una prima decisione [26] ha affermato che il diritto del lavoratore alla retribuzione sorgerebbe nei confronti del creditore moroso non già, come ritiene la Suprema Corte, perché la prestazione è stata giuridicamente resa nei suoi confronti, ma quale effetto legale della mora accipiendi, che se da un lato lascia intatto l’obbligo retributivo in capo al creditore, dall’altro però non consente la duplicazione della prestazione dovuta. Se il lavoratore ha nel mentre lavorato per il cessionario, dunque, tale prestazione resta unica, mentre a duplicarsi sono solo le fonti giuridiche della controprestazione retributiva: per il cedente, infatti, l’obbligo retributivo deriva dalla mora, mentre per il cessionario esso promana dalla prestazione effettivamente eseguita. Tali obbligazioni, in quanto vincolate da un oggetto comune, sarebbero in una relazione di solidarietà passiva tra loro, fondata appunto sull’idem debitum, con la conseguenza che l’adempimento del cessionario co-obbligato in solido libererebbe il co-obbligato cedente, senza alcun effetto di doppia retribuzione. La tesi della prestazione unica è stata ripresa anche da una successiva sentenza di merito [27] la quale ha confermato «l’identità contenutistica della prestazione artificiosamente scissa in reale, di fatto, e giuridica, virtuale», ed escluso la doppia retribuzione in favore del lavoratore. Si afferma, infatti, che nel caso del trasferimento d’azienda dichiarato illegittimo si è dinanzi ad «un lavoratore che presta comunque senza soluzione di continuità la medesima attività, retribuita ed assicurata» da parte di un soggetto, il cessionario, che è «difficile considerare un “qualsiasi altro sog­getto terzo”, un “qualsiasi altro datore di lavoro”, proprio per la relazione giuridica circolatoria», con la [continua ..]


5. Conclusioni

La scelta del Tribunale di Roma di negare, a seguito dell’invalidazione del trasferimento d’azienda, l’effetto della doppia retribuzione in favore dei lavoratori ricorrenti appare condivisibile. Come segnalato in dottrina [29], infatti, la prestazione resa dal lavoratore all’interno dell’azienda (o del suo ramo) oggetto di cessione non si duplica per il solo fatto che il trasferimento viene invalidato dal giudice ed il lavoratore costituisce in mora il datore ex cedente. Ciò perché le caratteristiche oggettive di quest’ultima (le mansioni, il luogo ed i mezzi di lavoro, il contesto organizzativo in cui essa è resa) possono restare immutate, variando solo il titolare del rapporto dal lato datoriale. Nel caso di specie, infatti, i ricorrenti avevano continuativamente svolto la stessa attività e nella medesima organizzazione lavorativa, rientrando, a seguito di successiva fusione per incorporazione del cessionario, alle dipendenze del cedente e percependo regolarmente la retribuzione spettante. Alla condivisibile affermazione dell’unicità della prestazione, però, il Tribunale giunge ipotizzando una solidarietà dal lato passivo tra cedente e cessionario che, come rilevato in dottrina, pone non pochi dubbi interpretativi. È stato evidenziato, infatti, che nelle obbligazioni solidali dal lato passivo il co-obbligato adempie, con effetto liberatorio erga omnes, solo quando realizza esattamente l’interesse del creditore che lo riceve: nel caso di specie, invece, il pagamento del cessionario non pare realizzare esattamente l’interesse del lavoratore, poiché esso consiste non solo nel percepire la retribuzione, ma anche nel recuperare la posizione lavorativa nel­l’azienda del ceduto [30]. In realtà, i problemi posti dalla solidarietà passiva ipotizzata dal Tribunale di Roma potrebbero essere evitati seguendo una strada ricostruttiva parzialmente diversa da quella percorsa dal giudice di merito e, in particolare, riconsiderando gli effetti prodotti dalla sentenza di illegittimità sulle obbligazioni che legano il lavoratore, il cedente ed il cessionario. L’impugnazione giudiziale del trasferimento d’azienda da parte del lavoratore, infatti, non è necessariamente diretta alla invalidazione del negozio giuridico che lega cedente e cessionario: egli può invocare la semplice [continua ..]


NOTE