Massimario di Giurisprudenza del LavoroISSN 0025-4959
G. Giappichelli Editore

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I limiti al patto di non concorrenza tra diritto positivo e diritto vivente (di Giuseppe Sigillò Massara, Professore associato di Diritto del lavoro – Università degli Studi di Roma “Link Campus University”)


Il contributo esamina gli approdi giurisprudenziali in ordine alla congruità del corrispettivo pattuito in caso di patto di non concorrenza, interrogandosi circa la possibilità di equiparazione tra l’omissione della relativa previsione con la pattuizione di un corrispettivo iniquo o inconsistente.

Limits of the non-competition agreement between law and case law

The essay examines the jurisprudential approaches regarding the adequacy of compensation in the event of a non-competition agreement, investigating about the possibility of equating the lack of the compensation with its unfair or inconsistent measure.

Keywords: non-competition agreement – living law

SOMMARIO:

1. Premessa - 2. Bilanciamento di valori e requisiti di legittimità - 3. La controprestazione del lavoratore - 4. La scala valoriale - NOTE


1. Premessa

Il legislatore ha dettato una disciplina autonoma per il patto di non concorrenza [1] del lavoratore, che si affianca alle altre ipotesi di limitazione della concorrenza [2], presidiato da un regime di nullità ad hoc, che si aggiunge, senza sostituirlo, al regime ordinario delle nullità di cui all’art. 1418 c.c., per indeterminatezza o indeterminabilità dell’oggetto. Appare evidente che il patto di cui si tratta rappresenti una complessa operazione di bilanciamento di interessi, complessità accentuata dalla circostanza di essere destinato ad operare in un momento in cui il rapporto di lavoro non è più in essere; è, dunque, venuta meno la posizione di soggezione del lavoratore subordinato rispetto al datore di lavoro, per essere sostituita da una ordinaria relazione fra soggetti dotati dei medesimi diritti e poteri di fronte alla legge. Per tale ragione, sebbene l’ordinamento abbia imposto dei requisiti specifici di validità, la valutazione circa la legittimità del patto non può che essere effettuata in concreto, non essendo possibile individuare, ex ante, quali siano le previsioni contrattuali sicuramente legittime o sicuramente illegittime, in quanto tale valutazione deve necessariamente essere effettuata attraverso l’esame complessivo delle pattuizioni delle parti. Nell’ambito di tale complessivo bilanciamento, un ragionamento a sé deve essere dedicato al corrispettivo, l’oggetto del contratto sinallagmatico e, in quanto tale, sottoposto alle censure di legittimità secondo i requisiti previsti dall’art. 1346 c.c., in ordine alla determinatezza o determinabilità, liceità e possibilità, la cui violazione comporta la nullità dell’intero accordo ex art. 1418, comma 2, c.c. Tuttavia la nullità del patto di non concorrenza per irregolarità nel corrispettivo, per quanto ci occupa nel caso di specie, può derivare anche dall’omessa previsione o dalla indicazione di un corrispettivo iniquo, non sufficiente a remunerare il sacrificio imposto al lavoratore, a prescindere dal vantaggio che da esso possa derivare al datore di lavoro. Come noto, l’art. 2125 c.c., disciplina il patto di non concorrenza, sancendone la nullità “se non risulta da atto scritto, se non è pattuito un corrispettivo a favore del prestatore di [continua ..]


2. Bilanciamento di valori e requisiti di legittimità

Il bilanciamento tra i contrapposti interessi, allora, viene realizzato sottoponendo il patto di non concorrenza a specifici requisiti di validità, diretti ad evitare una compressione eccessiva della libertà lavorativa dell’ex dipendente ed a garantirgli un vantaggio economico in cambio del proprio impegno ad astenersi dal compiere attività concorrenziale. Dalla lettera del più volte citato art. 2125 c.c., in particolare, è possibile ricavare la necessità di delimitare l’impegno del lavoratore a non svolgere attività concorrenziale entro precisi limiti di oggetto, tempo e luogo e di subordinarla alla corresponsione di un compenso a carico dell’impresa. Per individuare l’effettiva portata di tali limiti, tuttavia, non è possibile limitarsi alla lettera della legge [11] ma, come spesso accade, è necessario ricorrere all’opera incessante della giurisprudenza, che, nel diritto vivente, tende a leggerli in combinazione tra loro, valorizzando la ratio della norma al fine di valutarne la congruità. Per quanto attiene specificamente al corrispettivo, appare indispensabile ricordare che la natura dello stesso non è riconducibile ne alla natura retributiva ne risarcitoria e deve, dunque, considerarsi come mera controprestazione cui si obbliga il datore di lavoro a fronte della prestazione di non facere cui si obbliga il lavoratore. Ciò in quanto, il diritto al corrispettivo non trae origine né dall’esistenza del rapporto di lavoro né dalla sua cessazione, bensì dal patto di non concorrenza che, come si è detto, è un autonomo contratto sinallagmatico [12]. Orbene, trattandosi di una delle due prestazioni oggetto di un contratto, il corrispettivo deve, in primo luogo, soddisfare i requisiti di validità dell’oggetto del contratto [13]: la sua determinatezza o determinabilità, oltre alla liceità e possibilità (art. 1346 c.c.). In applicazione della disciplina generale del contratto, qualora il corrispettivo non dovesse soddisfare tali requisiti, l’intero contratto dovrebbe essere dichiarato nullo ex art. 1418, comma 2, c.c. Tuttavia, all’ordinario regime di nullità, si aggiunge quello specificamente dettato dal legislatore per il patto di non concorrenza e, in particolare, la [continua ..]


3. La controprestazione del lavoratore

È possibile, dunque, passare all’analisi della prestazione a carico del lavoratore che, come visto, dev’essere contenuta entro specifici limiti di oggetto, tempo e luogo. Si tratta di tre limiti da interpretare congiuntamente tra loro, in funzione della ratio cui è diretto l’art. 2125 c.c., quella di consentire al datore di lavoro di tutelare il patrimonio aziendale immateriale dalla diffusione alla concorrenza, senza però che il lavoratore veda ingiustamente compressa la sua possibilità di carriera. Sarebbe, dunque, illegittimo un patto che prevedesse l’impegno ad un’astensio­ne generalizzata e indeterminata da attività lavorativa tout court, anche qualora prevedesse un corrispettivo estremamente significativo a vantaggio dell’ex lavoratore [30]. In secondo luogo, occorre che il complesso delle limitazioni all’obbligazione negativa posta a carico del lavoratore, nel garantire al datore di lavoro di tutelare la propria capacità concorrenziale, non impedisca al lavoratore di assicurarsi un guadagno idoneo alle proprie esigenze di vita [31] e, in qualche modo, coerente con le competenze e conoscenze acquisite. Dal punto di vista datoriale, essendo il patto diretto ad evitare la diffusione delle pratiche aziendali “interne ed esterne”, dovrebbe ritenersi legittima una limitazione estesa alla totalità delle attività poste in essere dall’impresa e rientranti nell’oggetto sociale, anche se non comprese tra le mansioni svolte dal lavoratore nel corso del rapporto [32]. Ma tale ipotesi confligge con la fattispecie della c.d. “Azienda Stato”, che abbia un oggetto sociale così ampio da ricomprendere, potenzialmente, il dedotto ed il deducibile della sfera delle attività umane. Così problematica, risulta la possibilità di includere nel patto attività rientranti nell’oggetto sociale, ma non effettivamente svolte dall’azienda, così come assai controversa è la possibilità di inserire tra le attività vietate al lavoratore anche quelle potenzialmente oggetto della futura attività dell’impresa [33]. Come anticipato, dal punto di vista del lavoratore, occorre far sì che la limitazione non di ampiezza tale da impedirgli sufficienti prospettive di lavoro, tali da garantirgli un guadagno idoneo [continua ..]


4. La scala valoriale

Ne deriva un quadro complessivo dal quale emerge evidente la pregnante intrusione legislativa nell’autonomia negoziale, piegata dal legislatore al fine di garantire non soltanto la capacità reddituale del lavoratore anche dopo la cessazione del rapporto di lavoro, ma anche e soprattutto la realizzazione del piano costituzionale di realizzazione del singolo, nella sua componente individuale e collettiva, attraverso il lavoro. Se, difatti, quello al lavoro viene affermato al contempo come diritto e dovere dal­l’art. 4 Cost., posto a fondamento della Repubblica dall’art. 1 Cost., e motore del complessivo progetto di progresso sociale dal secondo comma dell’art. 3 Cost., appare evidente che la sua limitazione, anche a seguito di un espresso consenso del­l’in­teressato, sia necessariamente sottoposta a stringenti limiti tramite che, comunque, non impediscano, de facto, la piena realizzazione del cittadino tramite il lavoro [43].


NOTE