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L'onere della prova del demansionamento

Luca Pisani, Dottorando di ricerca in Diritto del lavoro – Università di Roma "Roma Tre".

Cassazione civile, Sez. Lav., 3 luglio 2018, n. 17365 – Pres. Nobile-Rel. Arienzo-P.M. Sanlorenzo

Quando il lavoratore alleghi un demansionamento riconducibile ad inesatto adem­pimento dell’obbligo gravante sul datore di lavoro ai sensi dell’art. 2103 c.c, è su quest’ultimo che incombe l’onere di provare l’esatto adempimento del suo obbligo: o attraverso la prova della mancanza in concreto del demansionamento, ovvero attraverso la prova che fosse giustificato dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari oppure, in base all’art. 1218 c.c., a causa di un’impossi­bilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile.

Sommario:

1. La distribuzione degli oneri probatori in materia di demansionamento - 2. L’oggetto degli oneri probatori in materia di demansionamento - 3. L’onere della prova del demansionamento alla luce del nuovo art. 2103 c.c. - NOTE


1. La distribuzione degli oneri probatori in materia di demansionamento

La sentenza in commento ribadisce l’orientamento prevalente formatosi sotto il precedente testo dell’art. 2103 c.c. che addossa l’onere processuale di dedurre e pro­vare lo svolgimento di mansioni equivalenti sul convenuto datore di lavoro [1].

Altre sentenze più risalenti della Suprema Corte, ed alcune pronunce di merito, avevano invece affermato che è il lavoratore a dover allegare e poi dimostrare il contenuto delle mansioni svolte prima e dopo il cambiamento, dovendo egli provare la causa petendi del suo ricorso, diretto all’accertamento dell’illegittimità della sua assegnazione a mansioni inferiori [2].

L’argomento utilizzato dalla sentenza in commento non è nuovo: trattandosi di obbligo contrattuale gravante sul datore di lavoro, è quest’ultimo che deve dimostrare di averlo adempiuto. Non risulta, però, che le sentenze che hanno aderito a tale orientamento abbiano approfondito l’argomento alla luce dei principi elaborati in materia di distribuzione di onere della prova da inadempimento contrattuale dalla sentenza delle Sezioni Unite del 2001 [3], da ritenere punto di riferimento indispensabile in questa materia [4].

Le Sezioni Unite, come è noto, hanno ricondotto ad unità il regime probatorio da applicare in riferimento alle azioni di adempimento, di risoluzione e di risarcimento del danno da inadempimento [5], affermando che chi le propone è tenuto soltanto a provare l’esistenza del titolo e a dedurre l’inadempimento del debitore; su quest’ul­timo grava, invece, in tutti gli indicati tipi di azione, quindi anche nei confronti della domanda risarcitoria, l’onere di provare l’adempimento quale fatto estintivo del­l’obbligazione. Le Sezioni Unite hanno tuttavia introdotto nel suddetto regime unitario un’eccezione, riguardante le obbligazioni di non fare, in relazione alle quali hanno ritenuto che la prova dell’inadempimento è sempre a carico del creditore in quanto nelle obbligazioni negative «il diritto nasce soddisfatto e ciò che viene in considerazione è la successiva violazione».

La sentenza in commento, così come le precedenti conformi, sembra non porsi il problema di chiarire se l’adibizione del lavoratore a mansioni inferiori sia qualificabile come violazione di un obbligo di fare o di non fare. La rilevanza di questa alternativa non è solo dogmatica ma anche applicativa, perché incide, come si è visto, sulla distribuzione dell’onere della prova.

Al riguardo neppure la sentenza delle Sezioni Unite del 2006 [6], che ha respinto la tesi del danno in re ipsa in caso di demansionamento, hanno preso posizione sul punto, limitandosi a ritenere che in tale fattispecie si sia in presenza dell’inadem­pimento di un obbligo, per cui «il datore versa in una situazione di inadempimento contrattuale regolata dall’art. 2118 cod. civ.». Negli stessi termini anche la Corte Costituzionale, nella sentenza che ha esteso il privilegio generale sui beni mobili al credito per danni da demansionamento, ha fatto generico riferimento alla violazione dell’“obbligo” di adibire il lavoratore alle mansioni cui ha diritto [7].

Tuttavia sembrerebbe meritevole di seria considerazione la tesi secondo cui il limite legale allo jus variandi si configura, non solo come un limite ad un potere, ma anche come obbligazione di non fare (art. 1222 c.c.) poiché impone al datore di lavoro di non adibire il lavoratore a mansioni vietate dalla norma [8]. Sicché, trattandosi di obbligazioni negative, la prova dell’inadempimento è a carico del creditore-lavoratore [9].

Vi sono tuttavia due ipotesi particolari in cui si deve ritenere che gravi sul datore di lavoro la prova della legittimità del mutamento delle mansioni. Ciò in dipendenza del tipo di domanda, causa petendi e petitum, azionata dal lavoratore [10].

La prima riguarda il caso in cui il lavoratore nel ricorso lamenti la sottrazione totale delle mansioni e quindi la sua inutilizzazione. È noto al riguardo che vi è un consistente orientamento giurisprudenziale secondo cui vi sarebbe un generale diritto del lavoratore all’effettivo svolgimento della prestazione lavorativa, la quale da obbligo diverrebbe appunto anche un diritto [11]. Sicché, a differenza della fattispecie che si è esaminata sopra, in cui il datore di lavoro adibisce il lavoratore a mansioni inferiori, in caso di eccepita sottrazione delle mansioni, il datore di lavoro deve dimostrare di non aver violato il preliminare obbligo di fare, consistente nell’assegna­re al lavoratore le mansioni, con il conseguente onere della prova, su di lui gravante, di aver messo in condizione il lavoratore di svolgere la prestazione. Una volta assolta tale prova, la circolarità degli oneri probatori determina lo spostamento in capo al lavoratore dell’onere di dimostrare che tali mansioni non sono rispettose del limite legale imposto al mutamento delle mansioni [12].

La seconda ipotesi si verifica qualora il lavoratore faccia valere l’inefficacia del­l’atto di esercizio dello jus variandi, da lui ritenuto invalido perché in violazione del limite legale al mutamento delle mansioni, al fine di far accertare la legittimità del rifiuto dello svolgimento delle mansioni di nuova adibizione da lui ritenute non dovute, ovvero per far accertare l’illegittimità di eventuali provvedimenti disciplinari motivati sulla base di tale rifiuto. Anche in questo caso, come per il precedente, deve ritenersi onere del datore di lavoro dimostrare che le nuove mansioni assegnate al lavoratore sono rispettose del limite legale allo jus variandi, per poter affermare la validità dell’atto di esercizio del potere, dalla cui inosservanza deriva l’inadempi­mento del lavoratore e quindi la giustificazione della sanzione disciplinare [13].


2. L’oggetto degli oneri probatori in materia di demansionamento

Nella seconda parte della massima la sentenza in commento ribadisce un orientamento che si è andato consolidando nell’ultimo periodo di vigenza dell’art. 2103 c.c. che consentiva al datore di lavoro di provare che il demansionamento era giustificato dal legittimo esercizio di poteri imprenditoriali o disciplinari o a causa di un’im­possibilità della prestazione a lui non imputabile [14]. Tale orientamento si può ritenere l’ulteriore sviluppo di quel filone giurisprudenziale che aveva tentato, in modo creativo e forzando il dato testuale della disposizione, di allentare la nozione rigida di equivalenza [15], affermando che non sarebbe configurabile una «responsabilità datoriale» [16], ovvero non si porrebbe «in contrasto con la previsione del codice civile» [17], la sottrazione di alcune mansioni [18], ovvero l’adibizione a mansione «diverse ed anche inferiori», in tutti i casi di sopravvenute e legittime scelte imprenditoriali comportanti ristrutturazioni aziendali per ottenere un’organizzazione «produttiva più efficiente» [19], ovvero dettate da «fattori oggettivi estranei alla volontà del datore» [20].

Secondo questo orientamento, dunque, il datore di lavoro che non riesce ad assolvere la prova dell’equivalenza delle nuove mansioni, ha comunque la possibilità di dimostrare una sorta di giustificato motivo oggettivo di deroga a tale regola. Questa possibilità sussiste anche ove si ritenga che l’onere della prova gravi sul lavoratore, in quanto, in tal caso, raggiunta la prova della violazione dell’equivalenza, il datore de­ve eventualmente provare, quale fatto impeditivo, la sussistenza delle esigenze aziendali giustificatrici.

Una simile ricerca di esigenze aziendali che consente una parziale deroga alla regola dell’equivalenza, se comprensibile da un punto di vista pratico, non trova però riscontro nel tenore letterale della precedente norma, la quale non consente di enucleare questa sorta di giustificato motivo oggettivo di deroga all’equivalenza. Infatti il riferimento all’esigenze delle imprese, quale criterio di giustificazione dello jus variandi, è stato abolito dall’art. 13 Stat. lav., che aveva novellato il testo originario dell’art. 2103 c.c. del 1942 [21]. Sicché questa modifica della norma non può essere ignorata reintroducendo in via interpretativa una regola che assegna di nuovo rilevanza alle esigenze dell’impresa al fine di ampliare l’ambito di mobilità consentito, anche perché nello stesso comma 1 dell’art. 2103, nel terzo periodo, è invece espressamente prevista la necessaria giustificazione a proposito del trasferimento del lavoratore, così inequivocabilmente dimostrando che quando il legislatore ha voluto condizionare ad una giustificazione obiettiva l’esercizio di un potere modificativo, ha provveduto a sancirlo espressamente.


3. L’onere della prova del demansionamento alla luce del nuovo art. 2103 c.c.

Con il nuovo art. 2103 c.c., i termini della questione rimangono sostanzialmente invariati per quanto riguarda la distribuzione dell’onere probatorio ma non per quanto attiene il contenuto di tale onere.

Infatti, anche i nuovi limiti legali allo jus variandi introdotti dal comma 1 (medesimo livello di inquadramento e medesima categoria legale) si configurano (non solo come limite ad un potere ma anche) come un’obbligazione di non fare poiché impongono al datore di lavoro di non adibire il lavoratore a mansioni di livello di inquadramento e categoria legale inferiori. Sicché, trattandosi di obbligazioni negative, la prova dell’inadempimento dovrebbe essere a carico del creditore. Conseguentemente il lavoratore dovrà allegare e provare che le nuove mansioni sono incluse dal contratto collettivo in uno o più livelli inferiori, o, se inserite nello stesso livello, che sono appartenenti ad una categoria legale inferiore.

Una volta raggiunta questa prova spetterà al datore di lavoro eventualmente dimostrare, quale fatto impeditivo, la sussistenza degli elementi costitutivi delle fattispecie derogatrici previste nei commi 2 e 4. È quindi evidente che solo alla luce del nuovo testo dell’art. 2103 c.c., è ammissibile quella circolarità degli oneri probatori che consentono al datore di lavoro di “giustificare” la violazione del limite legale generale alla mobilità orizzontale, che invece la giurisprudenza aveva “anticipato” anche sotto il vigore della vecchia disposizione, la cui rigidità però non consentiva questa soluzione. Di qui la conferma dell’opportunità della nuova tecnica utilizzata dal legislatore di prevedere, a fianco alla regola generale, alcune deroghe o eccezioni tassative.

Invece, anche ai sensi della nuova norma, resta ferma la distribuzione e i contenuti degli oneri probatori nelle ipotesi particolari di sottrazione delle mansioni e di azione del lavoratore diretta a far accertare la legittimità del suo rifiuto allo svolgimento delle nuove mansioni. Infatti, nel primo caso, continua a venire in considerazione un obbligo di fare in capo al datore di lavoro per cui quest’ultimo deve dimostrare di aver adempiuto avendo assegnato le mansioni al lavoratore; e nel secondo caso, è sempre il datore di lavoro che deve dimostrare che le nuove mansioni assegnate al lavoratore sono rispettose dei limiti legali allo jus variandi come si è visto nel par. 1.


NOTE

[1] Cass. 18 gennaio 2018, n. 11169; Cass. 9 luglio 2018, n. 17978; Cass. 3 marzo 2016, n. 4211, in Giur. lav., n. 8-9, 2016, p. 635; Cass. 13 aprile 2016, n. 7300, in Giur. lav., n. 20, 2016, p. 49; Cass. 17 settembre 2015, n. 18223, in Arg. dir. lav., n. 6, 2015, p. 1338; Cass. 22 dicembre 2015, n. 25780, in Giur. lav., n. 10, 2016, p. 41; Cass. 9 luglio 2008, n. 13821, in Giur. lav., n. 36, 2008, p. 50; Cass. 6 marzo 2006, n. 4766, cit.; Cass. 6 marzo 2006, n. 4766, in Mass. giur. lav., 2007, p. 33; Cass. 1° luglio 2002, n. 7927, in Riv. giur. lav., n. 5, 2002, p. 39; Cass. 3 marzo 1994, n. 1088, in Giur. it., n. 1, 1994, I, p. 1286; Cass. 20 marzo 2004, n. 5651, cit.

[2] Cass. 7 agosto 2006, n. 17774, in Foto it., 2007, I, c. 851; Cass. 25 settembre 2006, n. 20804, in Mass. giur. lav., 2007, p. 33;Cass. 18 agosto 1997, n. 7641, in Not. giur. lav., 1997, p. 596. Secondo Cass. 7 agosto 2006, n. 17774, in Foto it., 2007, I, c. 851, è onere del lavoratore dimostrare «l’estraneità professionale delle mansioni richieste»; Cass. 25 settembre 2006, n. 20804, in Mass. giur. lav., 2007, p. 33; Trib. Roma 17 gennaio 2011, n. 269, in Giur. lav., n. 26, 2011, p. 50; Trib. Milano 31 maggio 2001, in Giur. lav., n. 8, 2002, p. 26; Cass. 9 giugno 1997, n. 5162, in Dir. e prat. lav., 1997, p. 2647.

[3] Cass., Sez. Un., 30 ottobre 2001, n. 13533, in Foro it., 2002, parte I, c. 769.

[4] Così giustamente F. AMENDOLA, Oneri allegativi e probatori nelle domande di risarcimento del danno per inadempimento del datore di lavoro.

[5] Cfr. il commento alla sentenza di A. VALLEBONA, Gli oneri di allegazione e di è prova nelle azioni fondate sull’inadempimento del datore di lavoro, in ID.,Allegazioni e prove nel processo del lavoro, Padova, 2006, p. 65 s.

[6] Cass., Sez. Un., 26 marzo 2006, n. 6572 in Mass. giur. it., 2006, p. 489.

[7] Corte cost. 6 aprile 2004, n. 113, in Mass. giur. it., 2004, p. 586. Peraltro non mancano sentenze della Cassazione che hanno invece qualificato l’ordine del datore di lavoro come affetto da nullità: Cass. 20 marzo 2004, n. 5651; Cass. 3 febbraio 1994, n. 1088; Cass. 7 dicembre 1991, n. 13187, in Riv. it. dir. lav., 1992, II, p. 947; Cass. 28 ottobre 1997, n. 10627, in Foro it., Rep. 1998, voce Lavoro (rapporto), n. 862; o altre che affermano la duplice qualificazione in termini di inefficacia e, nel contempo, di inadempimento (nota Cass. 20 dicembre 2002, n. 18209, in Not. giur. lav., 2003, p. 331; Cass. 12 gennaio 2006, n. 452, in Arg. dir. lav., 2006, III, p. 845; Cass. 28 settembre 2006, n. 21037, in Mass giur lav., 2006, p. 277 e Cass. 8 febbraio 1999, n. 1074, in Dir. prat. lav., n. 28, 1999, p. 2072; Cass. 10 novembre 2008, n. 26920, in Guida lav., n. 41, 2008, p. 53, queste tre a proposito del trasferimento illegittimo; Cass. 27 aprile 1999, n. 4221, in Mass. giur. lav., n. 6, 1999, p. 606, (in motivazione); Cass. 7 settembre 1981, n. 5052, in Giust. civ. Mass., 1991, p. 9).

[8] Cfr. A. VALLEBONA, Tutele giurisdizionali e autotutela individuale del lavoratore, Padova, 1995, p. 38. Aderiscono M. PEDRAZZOLI, Vessazioni e angherie sul lavoro: tutela, responsabilità e danni da mobbing, Bologna, 2007; C. PISANI, La nuova disciplina del mutamento delle mansioni, Torino, 2015, p. 113 ss.; A. TURSI, Il danno non patrimoniale alla persona nel rapporto di lavoro: profili sistematici, in Riv. it. dir. lav., 2003, I, p. 293; P. POZZAGLIA, I limiti ai poteri del datore di lavoro: tutela reale o risarcitoria?, in Massgiurlav., 2006, p. 446.

[9] Per questa tesi A. VALLEBONA, L’onere della prova del demansionamento, in Mass. giur. lav., 2007, p. 36; C. PISANI, La nuova disciplina, cit., p. 114.

[10] A. VALLEBONA, L’onere della prova nel diritto del lavoro, Padova, 1988, p. 98, secondo cui la ripartizione degli oneri probatori «va sempre considerata con riferimento al contenuto della domanda» nel senso che col variare dell’effetto voluto dal lavoratore ricorrente cambia la fattispecie rilevante ed alcuni elementi si spostano, così, dall’area dei fatti costitutivi della domanda, all’area dei fatti impeditivi, passando il relativo onere dal lavoratore al datore di lavoro.

[11] Cfr. Cass. 12 aprile 2012, n. 7963, in Riv. it. dir. lav., n. 2, 2013, p. 104, secondo cui il lavoro costituisce un mezzo di estrinsecazione, non solo della personalità, ma anche dell’immagine e la sua privazione comporta una lesione del bene materiale per eccellenza quale è la dignità professionale del lavoratore, intesa come esigenza umana di manifestare la propria utilità e le proprie capacità nel contesto lavorativo; Corte cost. 2 giugno 1983, n. 163, in Foro it., 1983, I, c. 2071, secondo cui, ai sensi dell’art. 3 Cost., il diritto di realizzare lo sviluppo della personalità viene attuato principalmente attraverso il lavoro; Cass. 5 ottobre 2004, n. 19899, in Guida lav., n. 4654, 2004, secondo cui il «lavoro costituisce un mezzo non solo di guadagno ma anche di estrinsecazione della personalità nel luogo di lavoro»; Cass. 21 maggio 2009, n. 11835, in Mass. giur. lav., 2010, p. 222; Cass. 17 settembre 2008, n. 23744, in Arg. dir. lav., 2009, I, p. 131, si spinge addirittura a sostenere l’esistenza di un diritto soggettivo all’e­secuzione della prestazione lavorativa anche per il lavoratore autonomo; Cass. 6 marzo 2006, n. 4766, in Mass. giur. lav., n. 1-2, 2007, p. 33; Cass. 1° giugno 2002, n. 7967, in Riv. giur. lav. news, n. 5, 2002, p. 39; Cass. 3 giugno 1995, n. 6265, in Foro it., 1996, I, c. 1000; Cass. 13 agosto 1991, n. 8835, in Riv. it. dir. lav., 1992, II, p. 954. Contrari in dottrina, S. MAGRINI, Lavoro (contratto individuale), in Enc. dir., vol. XXIII, Milano, 1973, p. 384 e nt. 79; E. GHERA, Le sanzioni civili nella tutela del lavoro subordinato, in Atti del VI Congresso di diritto del lavoro, Milano, 1979 b, p. 330 ss.; M. GRANDI, Rapporto di lavoro, in Encdir., vol. XXXVIII, Milano, 1987, p. 337 s.; M. DELL’OLIO, Licenziamenti illegittimi e provvedimenti giudiziari, in Dir. lav. rel. ind., 1987, p. 433. In senso favorevole invece alla configurabilità di un generale diritto del lavoratore all’esecuzione della prestazione, R. SCOGNAMIGLIO, Diritto del lavoro, Napoli, 1994, p. 217; G. SANTORO PASSARELLI, Intervento, inLe sanzioni nella tutela del lavoro subordinato, Atti del VI Congresso nazionale di diritto del lavoro, Alba 1-3- giugno 1978, Milano, 1979, p. 129; G. PERA, Sul diritto del lavoratore a lavorare, in Riv. it. dir. lav., 1991, II, p. 388.

[12] Coglie puntualmente questa distinzione, Trib. Roma 17 gennaio 2011, n. 269, in Guida lav., n. 26, 2011, p. 50, secondo cui «è onere del lavoratore che lamenta la propria dequalificazione conseguente all’attribuzione di mansioni non equivalenti, provare i fatti costitutivi con riferimento allo specifico contenuto delle mansioni; è invece onere del datore di lavoro, quando il lavoratore si duole della dequalificazione consistente nella sottrazione di compiti, provare di aver adempiuto all’obbligo di consentire al dipendente l’esercizio del diritto all’effettivo svolgimento della piena prestazione di lavoro». Per la diversa ripartizione dell’onere della prova in tema di jus variandi fondata sulla differente qualificazione dell’obbligazione disciplinata dall’art. 2103 c.c., G.B. PANIZZA, Jus variandi e oneri probatori: su chi grava la prova dell’osservanza o dell’inosservanza della regola dell’equivalenza, in Arg. dir. lav., n. 6, 2015, p. 1349.

[13] C. PISANI, Equivalenza delle mansioni e oneri probatori, in Riv. it. dir. lav., 2003, I, p. 475.

[14] Conformi alla sentenza in commento Cass. 13 aprile 16, n. 7300, in Guida lav., n. 20, 2016, p. 49; Cass. 3 marzo 2016, n. 4211, in Guida lav., n. 8-9, 2016, p. 635; Cass. 17 settembre 2015, n. 18223, in Arg. dir. lav., n. 2, 2015, p. 1338, con nota di G.B. PANIZZA, op. cit.; Cass. 22 dicembre 2015, n. 25780, in Guida lav., n. 10, 2016, p. 41.

[15] C. PISANI, La nuova disciplina, cit., pp. 24 e 25.

[16] Cass. 23 maggio 2013, n. 12725, in Guida lav., n. 26, 2013, p. 33.

[17] Cass. 22 maggio 2014, n. 11395, ivi, n. 29, 2014, p. 31.

[18] Cass. n. 12725/2014, cit.

[19] Cass. n. 11395/2014, cit.

[20] Cass. n. 12725/2013, cit.

[21] Cfr. G. GIUGNI, Mansioni e qualifiche nel rapporto di lavoro, Napoli, 1963, p. 287 ss.