Massimario di Giurisprudenza del LavoroISSN 0025-4959
G. Giappichelli Editore

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Le tutele contro i licenziamenti dopo la pronuncia della corte costituzionale (di Giampiero Proia, Professore ordinario di Diritto del lavoro – Università "Roma Tre".)


Il contributo esamina la portata e gli effetti della sentenza costituzionale n. 194/2018. Vengono, poi, evidenziati alcuni dei problemi interpretativi e applicativi che essa pone, formulando ipotesi di soluzione.

The protections against dismissals after the ruling of the constitutional court

The article analyses the effects and consequences of the constitutional sentence n. 194/2018. Therefore, some of the interpretative and applicative issues arising form that sentence are highlighted, supposing the possible solutions.

Keywords: Dismissal  increasing protections  legal certainty.

SOMMARIO:

1. La sintesi - 2. Il nocciolo della sentenza - 3. Principi, valori e soggettivismo - 4. Il problema dell’interpretazione della norma di risulta - 5. Due constatazioni (quasi) paradossali - 6. L’incertezza e l’imprevedibilità dell’esito giudiziario - 7. E le altre disposizioni che richiamano il criterio dichiarato incostituzionale? - NOTE


1. La sintesi

La sentenza della Corte cost. 8 novembre 2018, n. 194 non tocca l’evoluzione più rilevante di questi ultimi anni nel nostro diritto del lavoro, e cioè la riforma dell’art. 18 della legge n. 300/1970 e la riduzione del campo di applicazione della tutela reale (legge n. 92/2012 e d.lgs. n. 23/2015) [1]. Né la Corte avrebbe potuto intervenire sul punto, tenuto conto che, da un lato, questo aspetto della riforma non era stato investito dalla questione di legittimità costituzionale sollevata dal giudice rimettente [2] e che, d’altro lato, la stessa Corte aveva già avuto modo di escludere che la tutela della reintegrazione sia «costituzionalmente necessaria» (cfr. Corte cost. n. 46/2000 e n. 303/2011). Analogamente, la sentenza n. 194/2018, disattendendo i dubbi sollevati dall’ordi­nanza di rimessione e da gran parte della dottrina, tiene fermo il nuovo limite minimo della tutela indennitaria introdotto dal d.lgs. n. 23/2015 (in particolare dall’art. 3, comma 1), sensibilmente ridotto rispetto a quello previsto dal testo novellato dell’art. 18 della legge n. 300/1970 (in particolare nei commi 5 e 7). Ugualmente inalterato resta il limite massimo di quella tutela. Ciò nonostante, è da rilevare come la sentenza in esame, anche in virtù del combinato disposto con le novità introdotte dal “Decreto Dignità” (decreto legge n. 87/2018), abbia alterato fortemente l’impianto e la “filosofia” della nuova disciplina del contratto di lavoro “a tutele crescenti”. In effetti, il “Decreto Dignità” aveva solo elevato il limite minimo ed il limite massimo dell’indennità risarcitoria spettante in caso di licenziamento ingiustificato. Ma aveva mantenuto il criterio della fissità dell’indennità, legata al solo elemento del­l’anzianità di servizio. Cosicché i suoi effetti più rilevanti si sarebbero visti solo a distanza di anni, quando i lavoratori assunti a partire dal 7 marzo 2015 avrebberoini­ziato a maturare anzianità di servizio rilevanti. La sentenza n. 194/2018, quindi, produce due effetti. Il primo, diretto, è quello di dichiarare l’illegittimità del criterio di esclusiva correlazione tra indennità e anni di servizio; il secondo, [continua ..]


2. Il nocciolo della sentenza

Senza volere percorrere tutti i pur importanti passaggi argomentativi, la prospettiva di giudizio adottata dalla Corte risulta dal punto 3 (terzultimo capoverso) della sentenza, ove si afferma che «non è dunque il quantum delle soglie minima e massima entro cui può essere stabilita l’indennità al cuore delle doglianze, ma il meccanismo di determinazione dell’indennità», nella misura in cui tale meccanismo, se­condo il rimettente, «introduce un criterio rigido e automatico, basato sull’anziani­tà di servizio, tale da precludere qualsiasi “discrezionalità valutativa del giudice”». Adottata questa prospettiva, la Corte è pervenuta alla conclusione che la norma censurata: a) «contrasta con il principio di uguaglianza, sotto il profilo della ingiustificata omologazione di situazioni diverse», tenuto conto che «all’interno di un sistema equi­librato di tutele, bilanciato con i valori dell’impresa, la discrezionalità del giudice risponde, infatti, all’esigenza di personalizzare il danno subito dal lavoratore, pure essa imposta dal principio di eguaglianza» (punto 11); b) «contrasta con il principio di ragionevolezza», poiché la «liquidazione legale forfettizzata in relazione all’unico parametro prefissato dell’anzianità di servizio» determina «l’inidoneità dell’indennità medesima a costituire un adeguato ristoro del concreto pregiudizio subito dal lavoratore a causa del licenziamento illegittimo e un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare illegittimamente» (punto 12); c) a causa di tale inadeguatezza, contrasta anche con gli artt. 4, comma 1, e 35, comma 1, Cost. (punto 13) e con gli artt. 76 e 117, comma 1, Cost., in relazione al­l’art. 24 della Carta Sociale europea (punto 14) [3].


3. Principi, valori e soggettivismo

L’esame della sentenza rivela la grande attenzione dell’estensore nello stendere la sua motivazione. Attenzione che è evidenziata dalla analitica articolazione dei profili considerati, dal richiamo accurato all’evoluzione della disciplina e dei precedenti dello stesso giudice delle leggi, e che, al tempo stesso, attesta la piena consapevolezza della delicatezza e delle implicazioni della decisione [4]. Ciò nonostante, i primi e già numerosi commenti, pubblicati [5] e svolti nei tanti incontri di studio sollecitati dalla sentenza, fanno registrare un “ventaglio” di posizioni da parte della dottrina che è molto variegato e, soprattutto, è contrassegnato dalla presenza di critiche eterogenee, anche tra loro contrapposte. E di ciò è agevole comprendere la ragione, atteso che il concreto esito cui appro­da la nostra Corte si fonda, in buona parte, sulla interpretazione di “valori” e norme di principio e sul “bilanciamento” tra valori e norme di principio. E quando entrano in campo queste operazioni il margine di soggettivismo si dilata, inevitabilmente, senza possibilità di un utopico controllo euristico ab extrinseco. È proprio su questo aspetto, più che sulla condivisibilità o no delle conclusioni della sentenza, che intendo soffermarmi. In particolare, è significativo che anche coloro che hanno espresso una convinta adesione per la parte “demolitoria” della sentenza muovono critiche sul complessivo equilibrio (tra i principi lavoristici e gli altri interessi in gioco) che emerge dalla sentenza stessa in materia di rimedi contro i licenziamenti. E così, da un lato, viene espresso apprezzamento per quel tanto di ritorno all’an­tico che la sentenza della Corte rappresenta [6], laddove, nella sostanza, dà nuova linfa alla funzione costituzionale della tutela della stabilità, intesa non come rappresentazione della tutela reintegratoria, bensì in un’accezione finalistica, ovvero come sintesi terminologica dei limiti previsti dall’ordinamento al potere di licenziamento [7]. Allo stesso modo, viene accolta con favore la rivalutazione della discrezionalità giudiziale (quale strumento di realizzazione dell’esigenza di personalizzazione del ristoro del danno subito dal lavoratore), che era [continua ..]


4. Il problema dell’interpretazione della norma di risulta

La Corte, come detto, non ha inciso sulla parte della disposizione censurata che individua il limite minimo e il limite massimo dell’indennità. E questo già consente di escludere l’ipotesi, da taluni prospettata, che il giudice, a seguito della sentenza costituzionale, potrebbe arrivare a risarcire il danno in misura integrale prescindendo dal “tetto” dei 36 mesi. Ciò che è stato ritenuto illegittimo, nella norma censurata, sono le parole «di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio». Soppresse queste parole, la norma diventa «monca» [19], perché priva di qualsiasi indicazione in ordine ai criteri in base ai quali l’indennità deve essere determinata. La Corte si è, però, mostrata consapevole dell’esigenza di colmare la lacuna derivante dal venir meno dell’unico criterio di determinazione dell’indennità previsto dalla norma censurata, e, quindi, nel punto 15 dei “considerata”, ha prima precisato che la base da utilizzare per il calcolo dell’indennità è costituita dall’«ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR». Ha, poi, stabilito che «nel rispetto dei limiti, minimo e massimo, dell’intervallo in cui va quantificata l’indennità spettante al lavoratore illegittimamente licenziato, il giudice terrà conto innanzi tutto dell’anzianità di servizio – criterio che è prescritto dall’art. 1, comma 7, lett. c), della legge n. 18 del 2013 e che ispira il disegno riformatore del d.lgs. n. 23 del 2015 – nonché degli altri criteri già prima richiamati, desumibili in chiave sistematica dalla evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti (numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell’attività economica, comportamento e condizioni delle parti)» [20]. A questo punto, si pone il problema di sapere se i riferimenti contenuti nella parte motiva della sentenza siano idonei ad integrare il dispositivo, ovvero se quei riferimenti siano stati formulati dalla Corte esclusivamente in via interpretativa, per orientare l’applicazione della norma di risulta da parte del giudice. Nel primo caso, la sentenza della Corte avrebbe carattere [continua ..]


5. Due constatazioni (quasi) paradossali

Come detto, il punto 15 della sentenza precisa che, ai fini della determinazione dell’indennità, «il giudice terrà conto innanzi tutto dell’anzianità di servizio», posto che si tratta del criterio prescritto dalla legge delega (art. 1, comma 7, lett. c), della legge n. 183/2014) e che ispira l’intero disegno riformatore del d.lgs. n. 23/2015. Nei riguardi di tale puntualizzazione, sono state prospettate diverse letture tendenti a “marginalizzarne” la portata, sostenendo che il criterio dell’anzianità rimarrebbe collocato allo stesso livello degli altri e che «la durata del contratto non deve essere utilizzata prima degli altri» [23]. Ma si tratta di letture non coerenti con il senso delle parole che la Corte pare aver utilizzato in modo accorto e meditato; né esse tengono conto che, ai fini del­l’applicazione analogica delle norme rinvenibili nel sistema (così come richiamate dalla stessa Corte), quello dell’anzianità è un criterio logicamente prioritario che non può essere pretermesso dal giudice nemmeno ai sensi dell’art. 18, comma 5, della legge n. 300/1970, poiché è «in relazione» ad essa che va determinato l’inden­nizzo, mentre degli altri criteri si deve «tenere conto». Ma allora, ecco il primo (quasi) paradosso, il criterio dell’anzianità di servizio, pur non potendo essere esclusivo, rimane il criterio prioritario di quantificazione del pregiudizio subìto, da cui il giudice non può prescindere. Il secondo paradosso (qui, forse, il “quasi” può essere tolto) è che nessuno degli altri criteri individuati dalla Corte (e previsti sia dall’art. 18, comma 5, della legge n. 300/1970, sia dall’art. 8 della legge n. 604/1966) fa riferimento esplicito al pregiudizio effettivamente subito dal lavoratore, né appare idoneo a determinarlo in concreto. Non lo è certamente, tanto meno nell’impostazione della Corte, il criterio del­l’«anzianità di servizio». Ma, ovviamente, non possono esserlo nemmeno i criteri del «numero dei dipendenti occupati», delle «dimensioni dell’attività economica» e del «comportamento delle parti». Può aprire ad una prospettiva di [continua ..]


6. L’incertezza e l’imprevedibilità dell’esito giudiziario

Allo stesso tempo, rispetto all’obiettivo della legge di garantire la certezza dei costi derivanti dal licenziamento, si realizzerà una situazione diametralmente opposta, e cioè di aumento dell’imprevedibilità dell’esito giudiziario [24]. In effetti, è difficile prefigurare come potranno essere “combinati” i diversi criteri previsti dall’art. 18, comma 4, della legge n. 300/1970. Per le ragioni già esposte, un criterio prioritario e non obliterabile resta quello dell’anzianità di servizio. Ma come concretamente esso possa incidere rispetto alla discrezionalità valutativa del giudice è oggi impossibile prevedere, così come è impossibile prevedere il “peso” assegnato a ciascuno degli altri criteri. È da escludere, del resto, che si possa ritenere che l’indennità resti ancora “inderogabilmente fissata” in due mensilità per ogni anno di servizio, così che il risultato di tale operazione sarebbe la soglia minima suscettibile solo di incremento per effetto dell’applicazione discrezionale da parte del giudice degli altri criteri [25]. L’applicazione proposta, infatti, non ha più alcuna base legale, essendo stata sop­pressa la parte della norma che la prevedeva e non potendo ravvisarsi in alcuno dei criteri indicati dalla Corte la necessaria utilizzabilità in funzione esclusiva di elevazione dell’indennizzo [26]. Va, poi, osservato che nell’area delle piccole imprese si pone l’ulteriore problema di sapere se debbano essere applicati gli stessi criteri previsti dall’art. 18, comma 5, della legge n. 300/1970, ovvero quelli previsti dall’art. 8 della legge n. 604/1966, come sembrerebbe preferibile in base ai principi dell’applicazione analogica. La differenza tra le due norme non è irrilevante perché in quest’ultima disposizione il criterio dell’anzianità di servizio riveste un ruolo diverso, in quanto, nella determinazione dell’indennità spettante sino al limite delle sei mensilità (che è il limite massimo previsto dall’art. 9, d.lgs. n. 23/2015), quel criterio è posto indistintamente allo stesso livello degli altri, ed assume invece rilievo decisivo solo ai fini dell’eventuale incremento di tale limite. Inoltre, il criterio [continua ..]


7. E le altre disposizioni che richiamano il criterio dichiarato incostituzionale?

Ulteriore problema è quello di sapere se la sentenza n. 194/2018 incida anche sulle altre disposizioni del d.lgs. 23/2015 che richiamano, direttamente o indirettamente, il criterio di quantificazione rigido e automatico di cui all’art. 3, comma 1 [27]. A mio avviso, quando il rinvio è esplicito e diretto, come è negli artt. 9 e 10, la soluzione del problema deriva dall’individuazione della natura del rinvio. Se il rinvio fosse di natura “statica” (o “materiale”), il meccanismo previsto dal­l’art. 3, comma 1, dovrebbe essere considerato ab origine recepito ed incorporato nelle norme rinvianti, cosicché queste ultime non risulterebbero interessate dalla sen­tenza della Corte. Del resto, in questo caso, il testo degli artt. 9 e 10, essendo inequivoco, non consentirebbe letture correttive basate sul criterio della prevalenza dell’in­terpretazione conforme a Costituzione, obbligando il giudice a sollevare una nuova questione di legittimità costituzionale con specifico riferimento a ciascuna delle due disposizioni in questione. Sembrerebbe preferibile, però, ritenere che il rinvio sia di natura “dinamica” (o “formale”). In questo caso, il rinvio dovrebbe oramai essere riferito al testo risultante dalla pronuncia di incostituzionalità, consentendo così all’interprete di integrare direttamente il disposto dei predetti artt. 9 e 10 con l’applicazione analogica delle norme richiamate dalla sentenza n. 194/2018 [28]. Con la precisazione che: a) resta fermo, per le piccole imprese e le organizzazioni di tendenza, il limite massimo di sei mesi, in quanto del tutto estraneo alla pronuncia di incostituzionalità; b) per il licenziamento collettivo, i criteri da applicare analogicamente dovrebbero essere, nei limiti della compatibilità [29], quelli dell’art. 18, comma 7, della legge n. 300/1970. Una diversa conclusione si impone, invece, in relazione all’art. 4, che non contiene alcun rinvio alla norma dichiarata incostituzionale [30], ditalché ogni tentativo di interpretazione costituzionalmente orientata nasconderebbe, in realtà, un indebito intervento manipolativo della norma, in sostituzione del giudice delle leggi a ciò preposto. A ciò va aggiunto che l’ordinanza di rimessione, tra le norme [continua ..]


NOTE