Massimario di Giurisprudenza del LavoroISSN 0025-4959
G. Giappichelli Editore

indietro

stampa articolo indice fascicolo leggi articolo leggi fascicolo


Il divieto di licenziamento e la sospensione con ricorso al trattamento di integrazione salariale: cosa accade in caso di soppressione di una posizione lavorativa? (di Rossana Detomi, Dottoranda di ricerca – Università di Modena e Reggio Emilia)


>

Tribunale di Roma, Sez. lav., ordinanza 30 giugno 2021

< >

Ai sensi dell’art. 19 del d.l. n. 18/2020, il provvedimento di Cassa integrazione ordinaria per Covid-19 può essere adottato dal datore di lavoro che si trovi in una situazione di oggettiva difficoltà aziendale nella regolare continuazione della propria attività produttiva, avendo subito, durante il periodo di emergenza epidemiologica, una compressione o interruzione dell’attività stessa. L’ammortiz­zatore sociale in oggetto, invece, non può essere adottato, in alternativa al licen­ziamento, dal datore di lavoro che non versi in uno stato di crisi e intenda attuare la soppressione di una posizione lavorativa determinata da una riorganizzazione aziendale.

<
SOMMARIO:

1. Il caso - 2. Il trattamento ordinario di integrazione salariale ex art. 19, d.l. n. 18/2020: l’ambito di applicazione, la causale “COVID-19 nazionale” e i presupposti per la concessione del trattamento - 3. Il divieto di licenziamento per giustificato motivo oggettivo e il problema della soppressione del posto di lavoro per riorganizzazione aziendale - 4. L’ennesimo rischio di incostituzionalità: il divieto di licenziamento non può essere interpretato come divieto di trasformare l’organizzazione aziendale - NOTE


1. Il caso

Nell’impossibilità di procedere al licenziamento, in considerazione della normativa emergenziale vigente, il datore di lavoro aveva disposto la sospensione della prestazione del lavoratore, adottando il trattamento ordinario di integrazione salariale con causale Covid-19 a zero ore, per attuare politiche di riorganizzazione aziendale dettate da ragioni di convenienza economica. Impugnando il provvedimento, il lavoratore ha contestato l’illegittimità dell’a­dozione dell’indicato ammortizzatore sociale, data la mancanza del suo presupposto legale, consistente in una situazione di oggettiva difficoltà aziendale nella regolare continuazione dell’attività produttiva. Infatti il trattamento di integrazione salariale era stato utilizzato dall’azienda non per far fronte ad eventi transitori e non imputabili all’impresa o ai dipendenti, ovvero, tenuto conto dell’art. 19, d.l. n. 18/2020, per fronteggiare l’emergenza epidemiologica che costringa il datore di lavoro a interrompere o ridurre l’attività produttiva, bensì per liberarsi dall’obbligazione remunerativa nei confronti del ricorrente, nell’intento di realizzare la varata riorganizzazione aziendale che prevedeva la soppressione della posizione lavorativa dello stesso lavoratore. Il giudice ha accolto questa impostazione, ritenendo che l’ammortizzatore sociale fosse stato utilizzato dall’azienda impropriamente, dal momento che la finalità di riorganizzazione aziendale contrasta con la ratio della Cassa integrazione, la quale, lungi dall’essere uno strumento di supporto alle aziende per fini di massimizzazione economica, si giustifica in ragione del mantenimento dei posti di lavoro durante periodi di difficoltà aziendale.


2. Il trattamento ordinario di integrazione salariale ex art. 19, d.l. n. 18/2020: l’ambito di applicazione, la causale “COVID-19 nazionale” e i presupposti per la concessione del trattamento

Fin dalla dichiarazione dello stato di emergenza sanitaria Covid-19, l’ordina­mento si è mosso nel senso di tutelare il reddito dei lavoratori la cui attività è stata sospesa e/o interrotta dalla pandemia. Infatti la normativa emergenziale, adottata a partire dal d.l. n. 18/2020, ha poggiato in larga parte sul ricorso a una vasta gamma di strumenti di tutela del reddito in costanza di rapporto, adoperando sia i più tradizionali ammortizzatori sociali in favore dei prestatori di lavoro, seppur adattati alle peculiarità del caso (quali la CIG, anche in deroga, e le prestazioni dei Fondi bilaterali di sostegno al reddito [1]), sia provvidenze di natura indennitaria concesse una tantum [2], meno conosciute nel tradizionale sistema di sicurezza sociale [3]. In particolare, l’art. 19 del d.l. n. 18/2020 ha previsto, per i datori di lavoro operanti su tutto il territorio nazionale, che hanno dovuto sospendere o ridurre l’attività produttiva per eventi riconducibili all’emergenza epidemiologica da Covid-19, la possibilità di richiedere la concessione di uno speciale trattamento di Cassa Integrazione Gua­dagni Ordinaria con causale specifica, appunto denominata «COVID-19 nazionale». Quanto al profilo soggettivo, data l’assenza di un espresso richiamo all’art. 10 del d.lgs. n. 148/2015, che individua i datori di lavoro potenzialmente beneficiari del trattamento ordinario, si sarebbe potuto ritenere che il trattamento ordinario di integrazione salariale con causale Covid-19 spetti a tutte le imprese che hanno sospeso o ridotto le attività produttive a causa dell’epidemia, e non solo a quelle cui è riconosciuto l’accesso al trattamento ordinario in quanto incluse nell’analitico elenco del decreto Jobs Act. In senso contrario, tuttavia, si è escluso che l’art. 19 del d.l. n. 18/2020 abbia questa portata universale. Si è detto, infatti, che una simile soluzione, pur se in ipotesi ricavabile dalla lettera della norma, non sarebbe coerente con l’impianto complessivo delle misure previste per l’emergenza, che si compone di un’ampia gamma di istituti [4], i quali non avrebbero altrimenti ragione d’essere [5]. Nello stesso senso, d’altronde, rispetto al­l’ambito di applicazione soggettiva del trattamento ordinario di integrazione salariale per [continua ..]


3. Il divieto di licenziamento per giustificato motivo oggettivo e il problema della soppressione del posto di lavoro per riorganizzazione aziendale

Come anticipato, nel caso di specie il datore di lavoro non aveva subito, durante il periodo di emergenza, alcuna compressione della propria attività produttiva e, pertanto, non si trovava nelle condizioni oggettive che giustificavano il ricorso al­l’ammortizzatore sociale. Ciò nonostante, il trattamento ordinario di integrazione salariale con causale Co­vid-19 era stato dichiaratamente utilizzato per realizzare una riorganizzazione azien­dale, che prevedeva la soppressione della posizione del lavoratore pur nell’impos­sibilità di recedere dal rapporto, a causa del vigente “blocco” dei licenziamenti. Infatti quest’altra forma di tutela eccezionale dell’occupazione, disposta anch’essa per fronteggiare l’emergenza, riguarda espressamente pure i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo [18]. In proposito va ricordato che, secondo l’indirizzo più recente della Suprema Corte [19], benché formatosi prima della pandemia, anche «la migliore efficienza gestionale» e l’obiettivo di incremento del profitto sono compatibili con il giustificato motivo oggettivo di licenziamento, purché si traducano in un effettivo «mutamento dell’assetto organizzativo dell’impresa» che determini la soppressione di uno o più posti di lavoro [20]. Pertanto è stato escluso, salvo motivazioni pretestuose, che le «ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa» consentano la soppressione di una posizione lavorativa soltanto qualora occorra fronteggiare situazioni economiche sfavorevoli, o addirittura non contingenti [21]. Senonché, stando alla lettera dell’art. 46, d.l. n. 18/2020, nel periodo emergenziale coperto dal divieto di licenziamento dovrebbero ritenersi preclusi, nonostante l’assenza di una crisi riconducibile o meno alla pandemia, anche i recessi fondati su una riorganizzazione motivata dalla ricerca di una migliore efficienza o dall’incre­mento del profitto. Rispetto a tali giustificazioni del recesso occorre chiedersi, però, se il divieto emergenziale di licenziamento garantisca un ragionevole bilanciamento tra gli interessi in gioco [22], ossia da un lato la libertà d’impresa, e dall’altro i diritti dei lavoratori. Infatti, [continua ..]


4. L’ennesimo rischio di incostituzionalità: il divieto di licenziamento non può essere interpretato come divieto di trasformare l’organizzazione aziendale

A partire dal primo provvedimento d’urgenza, cioè dal d.l. n. 18/2020che ha cercato di mitigare gli effetti sociali della pandemia, sino al recente d.l. n. 99/2021, l’Italia ha adottato questo “blocco dei licenziamenti” [24], prorogato di volta in volta con modalità diverse, che riguardano sia il profilo delle deroghe e della precisa scadenza del divieto, sia la combinazione con il regime delle integrazioni salariali [25]. L’introduzione di tale divieto ha suscitato fin da subito dubbi in merito alla sua legittimità costituzionale alla luce dell’art. 41 Cost. [26], dato che, secondo l’impo­stazione della stessa Consulta, «nessun intervento legislativo può legittimare rigidi condizionamenti alle libere scelte imprenditoriali in modo così penetrante ed invasivo» [27] da determinare «la riduzione in stretti confini dello spazio operativo dell’at­tività imprenditoriale» [28]. Tuttavia questa misura ha operato in stretta correlazione con gli strumenti di integrazione reddituale. Infatti, questi ultimi non sono stati esclusivamente finalizzati a limitare gli effetti derivanti dalla sospensione e/o riduzione dell’attività lavorativa durante la pandemia, ma hanno anche garantito un sostegno alle imprese, seppur costrette a mantenere in forza tutti i rapporti di lavoro al di là della effettiva necessità di manodopera. Anzi, proprio la predisposizione di tali contrappesi ha attutito l’inattività e il mancato conseguimento del profitto, permettendo di allontanare il rischio di declaratoria di incostituzionalità del divieto di licenziamento [29]. Questo, però, sembra indicare che la limitazione del libero esercizio delle attività economiche, «sacrificato nel suo presupposto qualificante ed essenziale, e cioè il potere dell’imprenditore di organizzare, in piena autonomia e in piena libertà di scelta, la propria azienda al fine di migliorarne la produttività» [30], non possa essere giustificata senza la possibilità di ricorrere al trattamento di integrazione salariale. Se così è, la norma sul divieto di licenziamento pare sottrarsi al rischio di illegittimità costituzionale solo con riferimento alle imprese in crisi che hanno avuto la possibilità di accedere agli strumenti di [continua ..]


NOTE