Massimario di Giurisprudenza del LavoroISSN 0025-4959
G. Giappichelli Editore

indietro

stampa articolo indice fascicolo leggi articolo leggi fascicolo


La Corte costituzionale interroga la Corte di giustizia UE sulle prestazioni familiari ai cittadini di paesi terzi (di Anna Maria Battisti, Professore associato di Diritto del lavoro – Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”)


Corte Costituzionale – Ordinanza 30 luglio 2020, n. 182 – PresMarta Cartabia

>

Nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 125, della legge n. 190/2014, e dell’art. 74 del d.lgs. n. 151/2001 – che stabiliscono il requisito del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo per l’erogazione agli stranieri, rispettivamente, dell’assegno di natalità e dell’assegno di maternità – è disposta la sottoposizione alla Corte di giustizia dell’Unione europea (ai sensi e per gli effetti dell’art. 267 TFUE), delle seguenti questioni pregiudiziali: a) se l’art. 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE) debba essere interpretato nel senso che nel suo àmbito di applicazione rientrino l’assegno di natalità e l’assegno di maternità, in base all’art. 3, par. 1, lett. b) e j), del regolamento (CE) n. 883/2004, richiamato dall’art. 12, par. 1, lett. e), della direttiva 2011/
98/UE, relativa a una procedura unica di domanda per il rilascio di un permesso unico; b) e se, pertanto, il diritto dell’Unione debba essere interpretato nel senso di non consentire una normativa nazionale che non estende agli stranieri titolari del permesso unico di cui alla medesima direttiva le provvidenze sopra citate, già concesse agli stranieri titolari di permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo.

<
Constitutional court questions EU Court of Justice on family benefits for third-country nationals

Keywords: family benefit – third-country nationals – child support

SOMMARIO:

1. Il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE - 2. I profili della questione e il precedente (caso Martinez Silva) - 3. Il vasto contenzioso in materia di accesso alle prestazioni sociali - 4. Il richiamo all’art. 34 CDFUE. Critica - 5. Incoerenze dei recenti interventi legislativi - NOTE


1. Il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE

Con una serie di ordinanze [1], la Corte di Cassazione, sezione lavoro, ha sollevato questione di costituzionalità dell’art. 1, comma 125, della legge 23 dicembre 2014, n. 190 e dell’art. 74 del d.lgs. 26 marzo, n. 151, che disciplinano rispettivamente l’assegno di natalità (c.d. bonus bebé) e l’assegno di maternità, nella parte in cui prevedono le rispettive prestazioni solo a beneficio degli stranieri titolari del permesso di soggiorno Ue per soggiornanti di lungo periodo, ma non dei cittadini di Paesi terzi titolari di un permesso di lavoro unico [2]. La Corte di Cassazione ravvisa dunque la necessità di rivolgersi alla Consulta, motivando la rimessione in base all’approccio avviato dalla sentenza della Corte cost. 14 dicembre 2017, n. 269 e temperato dalle pronunce successive [3]. Alla Consulta è chiesto di valutare se subordinare l’erogazione degli assegni, in esame, al requisito del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, integri o meno un’ingiustificata discriminazione degli stranieri legalmente residenti in Italia, che versano in condizioni di grave bisogno economico. La Suprema Corte nutre infatti dubbi sulla compatibilità della normativa italiana con gli artt. 3, comma 1, 31 e 117, comma 1, Cost. e, quanto a quest’ultima, in relazione ad alcune disposizioni codificate dalla Carta dei diritti fondamentali, nella specie, gli artt. 20, 21, 24, 33 e 34 che, rispettivamente, enunciano il principio di uguaglianza ed il divieto di discriminazioni, anche per cittadinanza, riconoscono il diritto dei bambini “alla protezione e alle cure necessarie per il loro benessere”, garantiscono “la protezione della famiglia sul piano giuridico, economico e sociale”, nonché riconoscono “il diritto di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale e ai servizi sociali che assicurano protezione”. Si tratta dunque delle garanzie, riguardanti la tutela della famiglia e della maternità e infanzia, presidiate da specifiche norme costituzionali e legate da un nesso inscindibile con il diritto dell’Unione. Quanto a quest’ultimo, va altresì ricordato il principio della parità di trattamento tra cittadini Ue e cittadini extra Ue, con riferimento ai settori della sicurezza sociale, come definiti dall’art. 3, par. 1, lett. b) e j), del reg. CE n. 883/2004, per [continua ..]


2. I profili della questione e il precedente (caso Martinez Silva)

Numerosi i profili che emergono dalla ordinanza in esame. Non è questa la sede per entrare nel merito della “doppia pregiudizialità” [10]; preme piuttosto ritornare sulle prestazioni controverse, così da poterle inquadrare nel novero delle prestazioni sociali riconosciute agli stranieri. Come attentamente ricordato, si tratta di prestazioni che sono, da anni, al centro di un nutrito contenzioso con l’Inps [11]. La prima è l’assegno di natalità (c.d. bonus bebé), introdotto dall’art. 1, comma 125, legge n. 190/2014, al fine «di incentivare la natalità e contribuire alle spese per il suo sostegno». È previsto a favore delle famiglie con un figlio nato, adottato o in affido preadottivo dopo il 1° gennaio 2015. Per i nati fino al 31 dicembre 2017 l’assegno viene corrisposto fino al terzo anno di vita del bambino o al terzo anno dall’ingresso in famiglia del figlio adottato; per i nati dopo il 31 dicembre 2017 l’assegno viene corrisposto per un solo anno. Tra le novità del 2000 si segnala l’abolizione del limite massimo di reddito: l’assegno spetta quindi a tutti ma in modo variabile in relazione all’indicatore ISEE [12]. Questa prestazione non ha carattere strutturale, tant’è che è stata prorogata più volte nel corso del tempo; ciononostante resta subordinata – per i cittadini non appartenenti all’Unione Europea – al requisito del permesso di soggiorno Ue per soggiornanti di lungo periodo, di cui all’art. 9 del TUI (d.lgs. n. 286/1998). Il permesso, da ultimo richiamato, è a tempo indeterminato ed è rilasciato agli stranieri che sono in possesso, da almeno cinque anni, di un permesso di soggiorno in corso di validità e che dimostrano la disponibilità di un reddito non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale e, nel caso di richiesta relativa ai familiari, di un reddito sufficiente al loro sostentamento, di un alloggio idoneo e conforme ai requisiti di idoneità igienico-sanitario, oltre che la conoscenza della lingua italiana. La seconda prestazione è invece costituita dall’assegno di maternità, disciplinato dall’art. 74 del d.lgs. n. 151/2001. L’assegno spetta per ogni figlio nato dal 1° gennaio 2001, o per ogni minore in affidamento preadottivo o in [continua ..]


3. Il vasto contenzioso in materia di accesso alle prestazioni sociali

D’altro canto, è noto il vasto contenzioso in materia. Ne è prova anche la recente giurisprudenza della nostra Corte Costituzionale, riguardante l’accesso ai benefici “assistenziali” da parte dei cittadini extra-UE, che sembra dare precedenza “agli italiani”, limitando così il diritto di quanti, pur soggiornando legittimamente sul territorio nazionale, abbiano conservato la loro cittadinanza d’origine, o per scelta, o per la brevità della loro presenza legale sul territorio italiano ed europeo [25]. Così come è noto il “passo indietro” della Consulta sull’assegno sociale, con la sentenza 15 marzo 2019, n. 50 [26], nella quale la Corte costituzionale ha ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 20, comma 10, d.l. n. 112/2008. Questa disposizione prevede che l’assegno sociale, garantito a chi ha raggiunto l’età pensionabile e versa in difficoltà economiche, sia corrisposto a condizione che gli aventi diritto abbiano soggiornato legalmente in via continuativa per almeno dieci anni nel territorio nazionale e che gli immigrati non comunitari siano in possesso del permesso di soggiorno UE (ai sensi del comma 19, art. 80, legge n. 388/2000). Un ragionamento debole quello della Corte, che trova giustificazione solo in considerazione della limitatezza delle risorse finanziarie disponibili, perché parte dall’assunto secondo cui l’assegno sociale non è equiparabile alle «prestazioni destinate al soddisfacimento di bisogni primari e volte alla garanzia per la stessa sopravvivenza del soggetto», inoltre, poiché costituisce un sostegno da parte della collettività alle persone anziane che sono uscite dal mondo del lavoro, deve essere inteso quale «corrispettivo solidaristico per quanto doverosamente offerto al progresso materiale o spirituale della società» [27]. Invero, l’assegno sociale è collegato ad una situazione di indigenza di soggetti anziani ed è rivolto ad assicurare un minimo vitale, esso è strumento di garanzia dei diritti inviolabili della persona ed espressione dei doveri di solidarietà, configurandosi come la prestazione assistenziale per eccellenza del nostro ordinamento [28]. Ancora più discutibile, alla luce dei principi della Costituzione e [continua ..]


4. Il richiamo all’art. 34 CDFUE. Critica

Al di là delle contrastanti posizioni dei giudici in tale ambito, preme svolgere alcune considerazioni sui termini non chiari con cui è stato posto il quesito. Non può infatti non rilevarsi che il rinvio della questione ruota attorno all’art. 34 CDFUE, una delle previsioni più periferiche e meno rilevanti della Carta di Nizza [40] e non già attorno all’art. 12 della direttiva UE (pur dando atto, in motivazione, del contrasto anche con tale norma) [41]. In altri termini, la Corte Costituzionale non chiede alla Corte Ue se la limitazione ai lungosoggiornanti sia compatibile con la direttiva 2011/98, la quale viene soltanto richiamata di riflesso. La stessa direttiva che si prefigge di «garantire l’equo trattamento dei cittadini dei paesi terzi che soggiornano regolarmente nel territorio degli Stati membri» (considerando n. 2), di dare ulteriore impulso a «una politica di immigrazione coerente» e di «ridurre la disparità di diritti tra i cittadini dell’Unione e i cittadini di paesi terzi che lavorano regolarmente in uno Stato membro» (considerando n. 19), creando, anche per tale via, i presupposti dell’integrazione economica dei cittadini di paesi terzi. Di conseguenza, il diritto derivato (la direttiva 2011/98) viene presentato alla Corte di giustizia come una fonte integrativa del diritto fondamentale alla sicurezza e all’assistenza sociale, il che giustifica la competenza della Consulta ad intervenire con una pronuncia erga omnes. Non può trascurarsi il fatto che la direttiva 2011/98/UE può trovare attuazione, ratione temporis, soltanto in relazione all’assegno di natalità perché, con riguardo all’as­segno di maternità, deve rilevarsi che il caso esaminato dalle Corti è uno dei pochissimi ancora in discussione riguardanti una nascita antecedente il 25 dicembre 2013 (termine ultimo di recepimento della direttiva 2011/98), quindi non regolato dalla stessa [42]. La Consulta avrebbe potuto, forse, agire diversamente: ragionare di diritto UE nella prospettiva del diritto derivato, interpretato alla luce della Carta, ponendo il quesito in termini diversi, dovendosi semmai chiedere alla Corte di giustizia se le citate disposizioni della direttiva e del regolamento, eventualmente lette alla luce dell’art. 34 CDFUE ostino a che la normativa [continua ..]


5. Incoerenze dei recenti interventi legislativi

Qualche considerazione finale va fatta in ordine ai recenti interventi del legislatore in materia. Da un lato, è in corso di approvazione la legge europea 2019-2020, dall’altro, la riforma delle prestazioni familiari, meglio nota come Family Act, che è stata però rinviata a gennaio del 2022. Invero, quello che emerge è la mancanza di coordinamento tra i due provvedimenti in questione [47]. Giova ricordare che la legge europea prevede una modifica dell’art. 41 TU immigrazione laddove stabilisce che per la generalità delle “provvidenze e prestazioni di assistenza sociale” e per i titolari di permessi diversi dal permesso unico lavoro (che sembrerebbero essere residuali) vige la regola della piena equiparazione, a condizione che il permesso abbia durata di almeno un anno (come ora). Invece, per le prestazioni che sono erogate senza valutazione discrezionale e che rientrano pertanto nell’ambito di applicazione del reg. 883/04/CE la parità di trattamento con i cittadini italiani è prevista solo per chi abbia svolto una attività lavorativa per periodi non inferiori a 6 mesi (si suppone, anche non continuativi) e abbia reso al Centro per l’Impiego la dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro (comma 1 bis). Relativamente alle prestazioni familiari, va precisato che, in deroga al punto b), la parificazione è più ampia e trova applicazione a coloro che hanno un permesso che autorizzi lo svolgimento di attività lavorativa per periodi superiori a 6 mesi: in tal modo, si presta attenzione al titolo di soggiorno e non alla attività concretamente svolta (comma 1 ter). Queste previsioni non appaiono però coerenti con quanto contenuto nella recente legge delega 1° aprile 2021 n. 46, volta ad introdurre l’assegno unico universale [48] e a razionalizzare le misure di sostegno alla genitorialità [49]. Come accennato, perché la riforma entri a regime si dovrà attendere il 2022, anche se non c’è da sorprendersi: troppi i nodi che devono essere ancora sciolti, legati soprattutto al calcolo del­l’Isee. Per quanto riguarda i requisiti di accesso la nuova disciplina sembra voler porre fine (per il futuro) al contenzioso che riguarda alcune delle prestazioni esaminate. In particolare, la legge prevede per il richiedente, [continua ..]


NOTE