Il saggio esamina, anche in chiave critica, l’evoluzione della giurisprudenza costituzionale e ordinaria in materia di determinazione delle indennità dovute al lavoratore in caso di licenziamento illegittimo nel contratto a tutele crescenti, concentrando l’attenzione sui problemi applicativi più delicati e complessi.
The essay examines, even in a critical key, the evolution of constitutional and ordinary jurisprudence in the matter of determining the compensations due to the employee in the event of unlawful dismissal in the so-called contract with increasing protections, focusing on the most relevant application issues.
Keywords: severance pay – wrongful termination – seniority – collective redudancies
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1. L’oggetto dell’indagine - 2. Una breve premessa - 3. La sentenza della Corte cost. n. 194/2018, e dintorni - 4. I problemi applicativi - 5. L’individuazione dei criteri di determinazione dell’indennità da applicare - 6. Le (incerte) indicazioni fornite dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 194/2018: i) come va intesa l’anzianità di servizio - 7. Segue: ii) gli altri criteri da applicare - 8. In attesa di un assestamento della giurisprudenza: un primo bilancio (necessariamente provvisorio) - 9. Gli effetti sulle altre disposizioni del d.lgs. n. 23/2015 - 10. Segue: i licenziamenti per vizi formali o procedurali. La sentenza della Corte cost. n. 150/2020 e la conferma dell’incostituzionalità del criterio di calcolo collegato automaticamente (ed esclusivamente) all’anzianità di servizio. Sul resto, ossia i criteri da applicare, la Corte “aggiusta il tiro” - 11. Segue: i licenziamenti collettivi e nelle piccole imprese. Ancora dubbi tra interventi della Corte Costituzionale e (nuova) ordinanza di rimessione - 12. La ricomposizione del sistema - NOTE
Come era facile prevedere, le recenti e rilevanti sentenze della Corte Costituzionale in materia di determinazione delle indennità dovute al lavoratore in caso di licenziamento illegittimo nel campo di applicazione del d.lgs. n. 23/2015 stanno ponendo numerosi problemi interpretativi ed applicativi ancora irrisolti [1]. In particolare, nonostante le indicazioni fornite dalla Corte Costituzionale (prima, con qualche incertezza, nella sentenza n. 194/2018 e poi, con maggiori dettagli e precisione, nella successiva sentenza n. 150/2020), nella giurisprudenza di merito non è ancora del tutto chiaro quali siano effettivamente i criteri che il giudice, accertata l’illegittimità del licenziamento nel contratto a tutele crescenti, deve considerare per determinare l’indennità spettante e, soprattutto, come essi debbano combinarsi tra di loro.
Ma procediamo con ordine. Innanzitutto una breve premessa, necessaria per comprendere meglio il significato delle sentenze della Corte Costituzionale, riguardante le caratteristiche e, soprattutto, la funzione svolta dall’indennità prevista dagli artt. 3, comma 1, e 4, del d.lgs. n. 23/2015. Si tratta di una indennità predeterminata legalmente entro soglie predefinite (cd. forfettizzazione). Entro gli importi minimo e massimo prefissati, l’indennità spettante al lavoratore (da ritenersi onnicomprensiva) è determinata in base a criteri di valutazione anch’essi prefissati (prima dal legislatore, e ora anche dalla Corte Costituzionale). Come (primo) parametro per il calcolo dell’indennità è sempre utilizzata la retribuzione (mensile) percepita dal lavoratore. Pur di derivazione civilistica, questo meccanismo di determinazione dell’indennità è caratterizzato da significative deroghe alla disciplina del codice civile in materia di responsabilità contrattuale e risarcimento del danno, a dimostrazione dell’alto tasso di specialità e autonomia del regime sanzionatorio dei licenziamenti illegittimi (e non solo) rispetto al diritto comune dei contratti e alle categorie giuridiche generali [2]. Per come è strutturata poi, si ritiene che la suddetta indennità (non qualificata come risarcitoria dal legislatore) abbia natura composita e svolga una molteplicità di funzioni [3]. Come è stato confermato anche dalla Corte Costituzionale nelle due sentenze richiamate, infatti, alla funzione di ristoro del pregiudizio subìto dal licenziamento illegittimo (funzione risarcitoria o riparatoria) si affianca anche la funzione (che appare invero prevalente) sanzionatoria e dissuasiva nei confronti del datore di lavoro [4]. Ed a conferma della polifunzionalità (o flessibilità funzionale) dell’indennità, deve aggiungersi anche l’ulteriore funzione svolta (altrettanto importante, ma spesso non considerata pur se chiaramente desumibile dalla ratio della legge) [5] di strumento per perseguire obiettivi economici e sociali di carattere più generale che trascendono il piano (meramente individuale) del rapporto contrattuale, e quindi vanno oltre la stessa esigenza di tutela del singolo lavoratore licenziato illegittimamente (come ad esempio, ma non soltanto, [continua ..]
Com’è noto, la sentenza n. 194/2018 ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23/2015 nella parte in cui quantificava l’indennità spettante al lavoratore ingiustamente licenziato esclusivamente ed in modo automatico con riferimento al dato dell’anzianità di servizio (2 mensilità di retribuzione per ogni anno di servizio, con un minimo ed un massimo prima di 4 e 24 mensilità, e poi di 6 e 36 mensilità, dopo le modifiche apportate dal cd. decreto Dignità) [7], eliminando qualsiasi discrezionalità del giudice nell’opera di quantificazione. E com’è altrettanto noto la stessa Corte Costituzionale, nella parte finale della motivazione della sentenza, ha poi affermato che, entro i limiti minimo e massimo dell’intervallo predeterminati (ora, come detto, 6 e 36 mensilità di retribuzione), il giudice deve quantificare l’indennità tenendo conto «innanzi tutto» dell’anzianità di servizio, ma anche («nonché») degli altri criteri «desumibili in chiave sistematica dalla evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti» (e che la Corte subito dopo individua tra parentesi in quelli del «numero dei dipendenti occupati», delle «dimensioni dell’attività economica» e del «comportamento e condizioni delle parti») [8]. Dunque, dopo l’intervento della Corte Costituzionale la determinazione dell’indennità spettante al lavoratore ingiustamente licenziato, nel campo di applicazione del regime di tutele previsto dal d.lgs. n. 23/2015 (ossia, per i lavoratori assunti dal 7 marzo 2015), non è più rigida ed uniforme in base all’unico criterio dell’anzianità di servizio, ma è ora (ri)affidata alla valutazione discrezionale del giudice. La discrezionalità del giudice nella quantificazione dell’indennità non è assoluta, ma si esercita innanzitutto e sempre entro un range prefissato dal legislatore (sia pure amplissimo, essendo ora di ben 30 mensilità, ossia le retribuzioni corrispondenti a circa 2 anni e mezzo di lavoro, la differenza tra il minimo ed il massimo possibili). Soprattutto, però, all’interno di quell’amplissimo intervallo il giudice deve quantificare, e quindi [continua ..]
I maggiori dubbi della sentenza n. 194/2018 si sono concentrati fin da subito su due problematiche, entrambe aventi rilevanti effetti pratici. La prima era, ed è tuttora, quella di capire sulla base di quali criteri il giudice deve quantificare l’entità dell’indennità spettante nei casi di licenziamento illegittimo previsti dall’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23/2015. La seconda, strettamente connessa alla prima, era, ed è in parte tuttora, quella di capire quali effetti possa avere la sentenza della Corte Costituzionale anche sulle altre disposizioni del d.lgs. n. 23/2015 che richiamano espressamente il criterio di quantificazione dell’indennità dichiarato incostituzionale, o che comunque ad esso fanno riferimento o riproducono. Su entrambe queste problematiche, è intervenuta (direttamente o indirettamente, come si dirà più avanti) [17] sempre la Corte Costituzionale con la successiva sentenza n. 150/2020.
I criteri di quantificazione che il giudice deve applicare sono il profilo maggiormente complesso sul piano applicativo. Nell’ultimo capoverso della motivazione della sentenza n. 194/2018, la Corte Costituzionale, come si è già ricordato, ha fornito al giudice indicazioni di carattere applicativo per colmare la lacuna derivante dal venir meno dell’unico criterio di determinazione dell’indennità previsto dalla norma censurata. Non è, però, chiaro il valore da attribuire a tali indicazioni. Si è molto discusso se si tratti di indicazioni additive (come tali direttamente vincolanti nei confronti del giudice, integrando formalmente il dispositivo della sentenza) oppure di indicazioni soltanto interpretative (come tali prive di efficacia direttamente vincolante nei confronti del giudice, non essendo idonee ad integrare il dispositivo della sentenza) [18]. Ed infatti, mentre è certo che quella della Corte Costituzionale è una sentenza di accoglimento parziale testuale (in quanto ha dichiarato l’incostituzionalità di un singolo segmento della norma riducendo il testo della disposizione), resta incerto se ed eventualmente in che termini essa possa essere considerata anche una sentenza manipolativa, nella specie di tipo additivo (o integrativo). I dubbi sono determinati sia dal fatto che è tuttora oggetto di discussione la compatibilità con la Costituzione delle stesse sentenze additive (per alcuni ritenute compatibili solo se circoscritte nell’ambito di un’attività interpretativa, attribuendosi altrimenti alla Corte Costituzionale una funzione legislativa che non le è propria), sia dal fatto che il frammento normativo non è aggiunto dal dispositivo (come nelle tradizionali sentenze additive autoapplicative contraddistinte dalla declaratoria di incostituzionalità della disposizione «nella parte in cui non prevede» un qualcosa che dovrebbe prevedere), ma è aggiunto (se mai) soltanto nella motivazione della sentenza, sia infine anche dal fatto che il frammento aggiunto (o che sarebbe stato aggiunto) alla norma oggetto del giudizio per rendere la disposizione compatibile con la Costituzione non risulta individuato in modo perfettamente chiaro ed univoco [19]. Il problema non è soltanto teorico, ma ha anche importanti risvolti pratici ed applicativi, soprattutto per [continua ..]
Ma vediamo (e tentiamo di capire) quali sono state effettivamente le indicazioni fornite al giudice dalla Corte Costituzionale per colmare la lacuna derivante dal suo intervento soppressivo. La prima indicazione è che il giudice deve tenere conto «innanzitutto» del criterio dell’anzianità di servizio. È il criterio prescritto dalla legge delega (legge n 183/2014) e che ispirava (e ispira ancora, come vedremo) l’intero disegno riformatore del d.lgs. n. 23/2015 [21]. Dunque la Corte Costituzionale afferma che la misura della tutela indennitaria non può essere ancorata (in modo rigido, automatico ed uniforme) all’unico parametro dell’anzianità di servizio. E ciò sul presupposto che il pregiudizio prodotto nei vari casi dal licenziamento ingiustificato dipende da una pluralità di fattori, di cui l’anzianità del lavoro è solo uno dei tanti. Tuttavia, nell’ambito della molteplicità dei criteri che devono essere offerti alla prudente discrezionale valutazione del giudice, la Corte afferma che il criterio dell’anzianità di servizio è «certamente rilevante» e continua ad assegnare ad esso una rilevanza prioritaria rispetto a tutti gli altri [22]. L’indicazione è certamente coerente con l’evoluzione del «sistema» dei criteri di determinazione delle indennità risarcitorie nella disciplina limitativa dei licenziamenti. Come ho avuto già modo di approfondire in altra sede, infatti, fin all’inizio e poi sempre costantemente, il legislatore ha considerato l’anzianità di servizio criterio prioritario per quantificare la misura dell’indennità spettante [23]. Fino ad arrivare alla disciplina speculare a quella della norma dichiarata oggi incostituzionale posta dal riformato art. 18, comma 5, legge n. 300/1970 sempre nel caso di licenziamento ingiustificato di minore gravità (ma riguardante i «vecchi assunti», anziché quelli «nuovi»). Disciplina che ha stabilito un collegamento quasi automatico tra misura dell’indennità e criterio dell’anzianità di servizio, prevedendo che il giudice debba quantificare l’indennità spettante «in relazione» all’anzianità del lavoratore (comprensiva anche di quella di servizio), e poi tenuto [continua ..]
Ancora più complessa da decifrare è la seconda indicazione della Corte Costituzionale (ragione per cui difficilmente le indicazioni contenute nella parte motiva della sentenza possono essere ritenute di carattere additivo). Dopo avere affermato che il giudice deve tenere conto innanzitutto dell’anzianità di servizio, la Corte Costituzionale afferma infatti che il giudice, nella quantificazione dell’indennizzo spettante, deve tenere conto anche dei criteri «già prima richiamati», «desumibili in chiave sistematica dalla evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti», e che sono specificati tra parentesi in quelli del «numero dei dipendenti occupati», delle «dimensioni dell’attività economica» e del «comportamento e condizioni delle parti» [26]. L’indicazione non sembra essere né precisa né univoca, perché i criteri individuati specificamente dalla Corte Costituzionale («numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell’attività economica, comportamento e condizioni delle parti») non corrispondono perfettamente né a quelli che la stessa Corte aveva «richiamato» in precedenza, né soprattutto a quelli «desumibili in chiave sistematica dalla evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti». Motivo per cui anche tale specifica elencazione degli «altri criteri» che il giudice deve (o dovrebbe) considerare non sembra avere comunque carattere tassativo. Nel punto 11 della motivazione della sentenza, la Corte Costituzionale richiama non soltanto i criteri del «numero dei dipendenti occupati», delle «dimensioni dell’attività economica» e del «comportamento e condizioni delle parti», ma richiama anche, sia pure indirettamente (ovvero mediante il richiamo esplicito della norma che li prevede), i criteri delle «dimensioni dell’impresa» (contenuto nel testo dell’art. 8 della legge n. 604/1966, come sostituito dall’art. 2, comma 3, legge n. 108/1990) e della «anzianità del lavoratore» (contenuto nel testo dell’art. 18, comma 5, legge n. 300/1970, come sostituito dall’art 1, comma 42, lett. b), legge n. 92/2012) [27]. Si tratta di criteri analoghi ma non del tutto coincidenti, in quanto il [continua ..]
Peraltro ora l’amplissimo intervallo tra minimo e massimo di legge potrebbe rendere più importante dal punto di vista processuale la distribuzione dell’onere di allegazione e prova tra datore di lavoro e lavoratore. E comunque, anche a prescindere dagli opposti oneri probatori, rende necessario per datore di lavoro e lavoratore allegare puntualmente in giudizio tutte le circostanze, gli elementi ed i documenti ritenuti utili per orientare il giudice nell’applicazione dei singoli criteri di liquidazione [29]. Del resto, una forbice di ben 30 mensilità (all’interno della quale si esercita ora la discrezionalità del giudice) non è presente in nessuna altra norma dell’ordinamento. Basti solo pensare che nella fattispecie analoga per i vecchi assunti prevista dall’art. 18, comma 5, della legge n. 300/1970, quella forbice è di 12 mensilità. Come era facile attendersi ed era inevitabile, la difficoltà del controllo di legittimità, unitamente alla difficoltà di combinare i criteri tra di loro, ha aumentato ancora di più l’imprevedibilità e l’incertezza dell’esito giudiziario, in controtendenza rispetto allo stesso obiettivo (dichiarato) della legge di garantire la prevedibilità e la certezza dei costi derivanti dal licenziamento [30]. Fino ad ora, infatti, la giurisprudenza di merito è stata oscillante anche se in misura inferiore rispetto alle previsioni [31]. Pur consapevole che l’esperienza applicativa concreta non è ancora significativa (e quindi i bilanci non possono che essere solo provvisori), ciò che sembra emergere dalle decisioni pubblicate, o che comunque è stato possibile visionare, è che non sempre i giudici hanno attribuito rilievo prioritario al criterio dell’anzianità di servizio. Anzi diverse volte quel criterio è stato fortemente ridimensionato in presenza di anzianità di servizio ridotte e anche ridottissime (appena pochi mesi) [32], come è stato in quasi tutte le fattispecie sinora oggetto di giudizio (riguardando il contratto a tutele crescenti, com’è noto, soltanto i rapporti instaurati dal 7 marzo 2015). Per cui in questi casi l’impressione è che l’applicazione degli altri criteri, più che adattare la quantificazione dell’indennità alle circostanze [continua ..]
L’altro problema che si è posto è se, ed eventualmente in che termini, la pronuncia della Corte cost. n. 194/2018 possa essere estesa anche alle altre disposizioni del d.lgs. n. 23/2015 che richiamano formalmente o riproducono il criterio di quantificazione dichiarato incostituzionale. Vengono in rilievo, in particolare, le disposizioni dell’art. 4, dell’art. 9 e dell’art. 10 del d.lgs. n. 23/2015, ossia tutte quelle in cui, a fronte della previsione di una indennità economica, vi è un accertamento della illegittimità del licenziamento (mentre resta esclusa invece la disposizione dell’art. 6 regolando una fattispecie di conciliazione stragiudiziale, diversa dal licenziamento).
Sulla disposizione dell’art. 4, fugando ormai ogni dubbio, è ora intervenuta la Corte Costituzionale con la (successiva) sentenza n. 150/2020. Nell’art. 4 è disciplinato il caso in cui il licenziamento individuale sia dichiarato illegittimo per vizio formale o procedurale. Prima dell’intervento (diretto) della Corte Costituzionale, l’ammontare dell’indennità spettante era determinato con lo stesso meccanismo di calcolo rigido ed automatico (ossia, nella specie, 1 mensilità di retribuzione per ogni anno di servizio, con un minimo di 2 ed un massimo di 12 mensilità). In continuità con il precedente intervento (anche se l’esito non era poi così scontato) [36], la Corte Costituzionale ha riconfermato, anche con riguardo a questa disposizione, l’incostituzionalità del criterio di calcolo collegato soltanto (ed automaticamente) all’anzianità di servizio [37]. Analoga è anche la tecnica decisoria, ossia la tipologia di sentenza adottata. Ed infatti la Corte, anche questa volta (sempre in coerenza con il precedente intervento), individua soltanto nella parte finale della motivazione della sentenza (e non nel dispositivo) come il giudice debba determinare l’indennità spettante nel rispetto dei limiti minimo e massimo fissati dal legislatore (ossia, come detto, 2 e 12 mensilità) [38]. Ed anche questa volta, il primo criterio di determinazione individuato resta l’anzianità di servizio (è sempre affermato, infatti, che il giudice terrà conto, innanzitutto, dell’anzianità di servizio) [39]. Forse anche sollecitata/condizionata dai molti commenti (anche critici) alla precedente sentenza n. 194/2018, la Corte fornisce, tuttavia, maggiori chiarimenti su come debba intendersi (questa volta) il riferimento all’anzianità di servizio e specifica meglio quali siano gli altri criteri (di determinazione dell’indennità) che il giudice potrà considerare, e soprattutto come essi debbano operare (e quindi interagire e combinarsi tra di loro). Insomma, rispetto alla prima sentenza (pure seguendo la stessa linea di politica del diritto), la Corte opportunamente “aggiusta il tiro”, offrendo agli interpreti maggiori certezze, quasi a certificare (almeno sul punto) una precedente (ir)responsabilità. Innanzitutto, la Corte precisa che [continua ..]
Invece nell’art. 9, comma 1, e nell’art. 10, del d.lgs. n. 23/2015, a differenza dell’art. 4, v’è un rinvio esplicito ai regimi previsti dagli artt. 3, comma 1, e 4 del d.lgs. n. 23/2015. Appare quindi più fondata giuridicamente l’opinione che estende anche a tali disposizioni la ratio e gli effetti delle decisioni della Corte cost. n. 194/2018 e n. 150/2020, anche perché il legislatore, operando il rinvio, sembra avere equiparato, per quanto riguarda misura e criteri di quantificazione dell’indennità, i diversi vizi del licenziamento considerati. In particolare, per quanto riguarda i licenziamenti collettivi, il rinvio operato dall’art. 10 del d.lgs. n. 23/2015 all’applicazione del regime sanzionatorio previsto dall’art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23/2015 deve ritenersi un rinvio formale o dinamico, ossia un rinvio al testo di legge attualmente vigente [53]. Dunque, la sentenza della Corte cost. n. 194/2018 sembra effettivamente produrre effetti anche nei confronti della suddetta (pur diversa) fattispecie. Nel caso previsto dall’art. 9 per le piccole imprese, invece, i dubbi sono forse maggiori, in quanto il rinvio è formulato in modo più incerto potendo intendersi riferito anche solo all’ammontare dell’indennità, anziché ed anche ai relativi criteri di quantificazione. Tuttavia, la questione ha risvolti pratici più limitati perché l’intervallo entro cui il giudice deve applicare i criteri per determinare l’indennità spettante è assai contenuto (ora tra 3 e 6 mensilità) almeno per i licenziamenti ingiustificati (mentre la differenza resta più consistente, tra 1 e 6 mensilità, per i licenziamenti con vizi formali e procedurali). Peraltro, recentemente il Tribunale di Roma, con l’ordinanza del 24 febbraio 2021, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale (anche) dell’art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 23/2015 (l’ennesima nei confronti delle disposizioni del Jobs-act), dando per presupposta l’applicazione alla fattispecie della sentenza della Corte cost. n. 194/2018. In particolare, il Tribunale ha ritenuto, da un lato, che proprio quel divario così limitato (appena 3 mensilità) non consente al giudice di valorizzare nessuno dei criteri indicati dalla Corte Costituzionale (escluso il criterio [continua ..]
Concludo il mio intervento citando ancora le parole della Corte Costituzionale nella parte conclusiva della sentenza n. 150/2020, secondo cui è compito e responsabilità del legislatore «ricomporre secondo linee coerenti una normativa di importanza essenziale, che vede discipline eterogenee, frutto dell’avvicendarsi di interventi frammentari» [60]. Da un lato, un’inevitabile presa d’atto della situazione di vero e proprio caos normativo che caratterizza ormai il regime sanzionatorio dei licenziamenti illegittimi, con effetti di incertezza peraltro anche sugli istituti collegati. Basti pensare a come la pluralità di regimi sanzionatori, l’ulteriore articolazione al loro interno e il superamento della reintegrazione abbiano riportato alla ribalta il problema della decorrenza della prescrizione per i diritti dei lavoratori [61]. Caos, peraltro, che la stessa Corte Costituzionale sta contribuendo ad accrescere, generando anch’essa (con i suoi interventi demolitori e manipolativi) ulteriori frammentazioni e irrazionalità (sempre più difficilmente giustificabili). D’altro lato, un accorato monito al legislatore condiviso da larga parte della dottrina [62] che spero possa seguìto al più presto con una riforma legislativa davvero sistemica della disciplina dei licenziamenti nel suo complesso (incluso il lato processuale). E che sia, oltreché non frazionata, equilibrata, equa e razionale (e anche possibilmente concordata con le parti sociali) [63], pur nella consapevolezza che il necessario bilanciamento tra interessi e valori costituzionali contrapposti (come lavoro, impresa e occupazione) in questa materia così complessa (e socialmente sensibile) è operazione particolarmente difficile e faticosa dal punto di vista tecnico, e ancor più da quello politico.