Massimario di Giurisprudenza del LavoroISSN 0025-4959
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Al licenziamento “ingiustificato” del dirigente non si applica il regime decadenziale dell´art. 6, legge n. 604/1966 (di Martina Bassotti, Dottore di ricerca – Università degli Studi della Tuscia)


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Cassazione civile, Sez. lav., 8 gennaio 2020, n. 148

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In tema di licenziamento del dirigente, l’art. 32, comma 2, del c.d. “collegato lavoro”, nell’estendere il regime decadenziale di cui all’art. 6 della legge n. 604/1966 a tutti i casi di invalidità del licenziamento, si riferisce esclusivamente alle ipotesi di stretta invalidità alle quali non è riconducibile la ingiustificatezza di fonte negoziale.

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SOMMARIO:

1. L’evoluzione normativa del regime decadenziale di impugnazione del licenziamento - 2. Il problema dell’estensione del Collegato lavoro al licenziamento ingiustificato del dirigente - 3. I confini della nozione di “invalidità” alla luce del principio di stretta interpretazione delle norme in materia di decadenza - 4. Osservazioni di sistema, tra illegittimità e illiceità del recesso - NOTE


1. L’evoluzione normativa del regime decadenziale di impugnazione del licenziamento

Con la sentenza in esame la Suprema Corte si pronuncia sull’applicabilità del doppio termine decadenziale, attualmente previsto dall’art. 6, legge n. 604/1966, al licenziamento del dirigente asseritamente intimato in violazione del requisito convenzionale della c.d. giustificatezza. Prima dell’intervento dell’art. 32, comma 2, legge n. 183/2010 (Collegato lavoro), il termine per l’impugnativa stragiudiziale previsto dall’art. 6 legge cit. operava esclusivamente per i licenziamenti riconducibili all’impianto normativo della stessa legge, il cui ambito di efficacia è limitato dall’art. 10 ai soli «prestatori di lavoro che rivestono la qualifica di impiegato e di operario». La categoria dei dirigenti, esclusa dall’ambito soggettivo di questa disciplina, non era quindi onerata dell’im­pugnazione entro sessanta giorni, quale unico termine decadenziale previsto per il licenziamento illegittimo [1]. Il Collegato lavoro ha riformato l’art. 6, estendendo l’ambito di efficacia del regime di impugnazione – contestualmente gravato da un secondo termine decadenziale per l’introduzione del giudizio – «anche a tutti i casi di invalidità del licenziamento». L’inciso «anche» lascia intendere che lo scopo fosse quello di applicare il regime decadenziale ad ipotesi ulteriori rispetto a quelle coperte dalla disciplina originaria [2]. Di conseguenza, tutti i licenziamenti già inclusi nell’estensione della legge n. 604/1966 sono rimasti comunque assoggettati all’onere di impugnazione, indipendentemente dal vizio che affligge il licenziamento [3], ma la novella ha consentito che il riformato regime di decadenza si applicasse anche ad ipotesi sino ad allora escluse: licenziamenti nulli per causa di matrimonio, o perché intimati in violazione delle norme a tutela della maternità; licenziamenti in senso lato discriminatori; licenziamenti riconducibili ad un motivo illecito; licenziamenti disposti in frode alla legge; licenziamenti intimati per superamento del comporto.


2. Il problema dell’estensione del Collegato lavoro al licenziamento ingiustificato del dirigente

In merito all’estensione della novella alla categoria dei dirigenti, parte della dottrina ha escluso che il rapporto tra l’art. 32, comma 2, legge n. 183/2010 e l’art. 10, legge n. 604/1966, possa risolversi in termini di lex posterior generalis non derogat priori speciali, ravvisando piuttosto un effetto di integrazione rispetto alla portata “auto-limitativa” della disciplina del 1966 [4]. Con la sentenza n. 22627/2015 il giudice di legittimità è intervenuto sulla questione, statuendo che la estensione del regime di impugnazione del licenziamento «opera con riguardo al dato oggettivo costituito dalla invalidità del licenziamento, e quindi al fuori della limitazione posta dalla L. n. 604 del 1966, (citato) art. 10, con riguardo alla posizione lavorativa dell’interessato» [5]. La pronuncia in commento si conforma a tale principio, rilevando, inoltre, che in forza della (sopravvenuta) applicabilità anche ai dirigenti del comma 1 dell’art. 18 Stat. lav., per tale categoria il licenziamento invalido «è identico nella disciplina (sostanziale e sanzionatoria) al corrispondente licenziamento di un impiegato o di un operaio» [6]. Ai fini della soluzione del caso di specie occorre però risolvere una problematica non specificamente affrontata dal precedente della Cassazione: vale a dire se possa considerarsi “invalido” e, pertanto, assoggettabile al regime decadenziale anche il licenziamento del dirigente che sia solo privo del requisito convenzionale della giustificatezza [7]. Secondo un primo passaggio motivazionale, nelle intenzioni del legislatore la disciplina sulla decadenza del Collegato Lavoro non avrebbe potuto riferirsi anche alle ipotesi di mera ingiustificatezza del licenziamento, poiché prima della riforma dell’art. 18 ad opera della legge n. 92/2012 per i dirigenti «non era ancora stata prevista alcuna tutela rafforzata propria di un regime di invalidità, riguardante casi esterni alla L. n. 604 del 1966, che giustificasse il regime decadenziale introdotto». Nel complesso l’argomento non appare utile rispetto alla soluzione della questione in esame. Ed invero, il problema dell’applicabilità del regime decadenziale al licenziamento ingiustificato del dirigente è connesso – come successivamente [continua ..]


3. I confini della nozione di “invalidità” alla luce del principio di stretta interpretazione delle norme in materia di decadenza

La possibilità di applicare il regime decadenziale al licenziamento ingiustificato del dirigente dipende, quindi, dall’estensione che si attribuisce alla nozione di “invalidità”. Secondo la Suprema Corte, in forza del principio di stretta interpretazione delle norme in materia di decadenza, possono essere ricondotti al concetto di “invalidità” i soli vizi che determinano «la demolizione del negozio e dei suoi effetti solutori». Il licenziamento ingiustificato del dirigente, in tale prospettiva, sarebbe «incontestatamente e pacificamente valido», in quanto il rapporto si estingue ed è disposta, in via convenzionale, la sola tutela risarcitoria della indennità supplementare. Superando l’orientamento di alcuni precedenti della giurisprudenza di merito [9] si afferma, quindi, che «l’ambito di applicabilità oggettiva dell’art. 32, secondo comma, legge n. 183 del 2010 non può che riferirsi alle ipotesi di stretta invalidità (rectius, nullità) menzionate dall’art. 18, comma 1, St. Lav. come modificato […]». Nel riconoscere valore preminente al profilo rimediale della invalidità, che stabilisce l’inidoneità dell’atto «ad acquisire pieno ed inattacabile valore giuridico», la Suprema Corte tiene conto, in primo luogo, della matrice civilistica della nozione [10]. Infatti le ipotesi codicistiche che si riferiscono alla invalidità sono accomunate dalla previsione che all’atto è impedito di realizzare l’effetto “tipico” che dovrebbe produrre [11]. La correttezza della soluzione interpretativa deve però misurarsi con il regime delle invalidità dei licenziamenti, al quale la Cassazione ha in passato attribuito carattere di specialità rispetto alla disciplina generale [12]. Sul punto occorre evidenziare che, al momento dell’introduzione del Collegato lavoro, l’allora vigente art. 18 ricorreva alla nozione di “invalidità” per definire in via di sintesi le ipotesi di licenziamento nullo e di licenziamento annullabile, entrambe sanzionate con il ripristino del rapporto. Tuttavia nell’attuale regime di tutele graduate, che vede ridotte le ipotesi di “invalidazione” del licenziamento in favore della estensione [continua ..]


4. Osservazioni di sistema, tra illegittimità e illiceità del recesso

L’interpretazione restrittiva, sebbene ricavata “ex post”, appare coerente con la funzione originaria che la Suprema Corte assegna alla novella del 2010, cioè assicurare le esigenze «di certezza e di celerità nella stabilizzazione di conseguenze reintegratorie previste a carico del datore di lavoro». Nella stessa prospettiva è stato evidenziato come l’estensione dell’ambito di applicazione del regime di impugnativa del licenziamento sia stata mossa dalla necessità di evitare che, nelle ipotesi sino ad allora escluse dal regime decadenziale ma accomunate da effetti ripristinatori del rapporto di lavoro, fosse possibile lucrare (a fronte di un risarcimento parametrato sulle retribuzioni perdute) sul differimento dell’introduzione del giudizio [16]. Da un punto di vista sistematico, tuttavia, si può rilevare che per i licenziamenti collettivi l’onere di rispettare il doppio termine previsto dall’art. 6, legge n. 604/1966, è stato esteso anche ai dirigenti [17], senza che a tal fine rilevi il tipo di tutela accordata e quindi – al di fuori del vizio di forma – per licenziamenti collettivi illegittimi, ma non invalidi nell’accezione restrittiva affermata dalla Cassazione [18]. Più in generale, è anzi possibile osservare che l’esigenza di certezza sottesa al regime di impugnativa oramai prescinde dai soli effetti ripristinatori della sentenza. Si può in tal senso evidenziare che, se l’originario termine decadenziale stragiudiziale è stato introdotto in un regime di tutela obbligatoria, anche nell’attuale regime sanzionatorio dei licenziamenti illegittimi, comunque soggetti ad impugnazione, la tutela ripristinatoria opera, oltre che per i casi di nullità/inefficacia, soltanto per le ipotesi di ingiustificatezza più gravi, ulteriormente ristrette nel sistema del d.lgs. n. 23/2015 [19]. Dal che potrebbe indursi che il regime decadenziale possa adesso estendersi ad ogni ipotesi di illegittimità del recesso. L’eventuale equiparazione, ai fini degli oneri di impugnazione, delle ipotesi di invalidità a quelle comunque riconducibili all’illegittimità dell’atto estintivo, non sembra tuttavia sufficiente a modificare la conclusione della Cassazione in merito al licenziamento individuale del dirigente. [continua ..]


NOTE
Fascicolo 4 - 2020