In questo saggio l’Autore analizza l’esegesi dell’art. 14 del decreto legge n. 104/2020 che ha prorogato il blocco dei licenziamenti. Sostiene che il blocco dei licenziamenti, anche se solo di fatto, sia stato prorogato fino al 31 dicembre 2020. In questo contesto, ritiene possibile un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia per la possibile violazione del principio di proporzionalità e della libertà d’impresa. Auspica, in sede di conversione, delle modifiche che possano rendere più oggettiva e trasparente la disposizione.
In this paper, the Author analyzes the exegesis of art. 14, Law Decree n. 104/2020, which has prorogated the block of collective redundancies. The Author holds that this block of redundancies, even though only de facto, has been prorogated until the 31st of December 2020. In this context, according to the Author, it is possible to refer the matter to the Court of Justice for a preliminary ruling, for a possible violation of the principle of proportionality and of the freedom to conduct a business. The Author hopes that, when converting the decree into law, changes will be foreseen in order to render the provision more objective and transparent.
Articoli Correlati: licenziamenti - ordinamento Unione europea - emergenza sanitaria Covid – 19
1. Premessa - 2. L’esegesi dell’art. 14 del decreto legge n. 104/2020: le due condizioni per la proroga del blocco dei licenziamenti - 3. Sull’ammissibilità del rinvio pregiudiziale alla CGUE - 4. L’identificazione (ed interpretazione) dei “principi” in conflitto - 5. Sul bilanciamento dei principi - NOTE
La “proroga delle disposizioni in materia di licenziamenti collettivi e individuali per giustificato motivo oggettivo” [1] presenta una forte discontinuità rispetto alla legislazione d’emergenza precedente [2] in tema di blocco dei licenziamenti, pur essendo sostenuta da analoghe finalità sociali [3]. La discontinuità si coglie nella tecnica legislativa che riflette un diverso bilanciamento degli interessi in gioco. Non viene “prorogato” un divieto [4] di licenziamenti (collettivi o individuali per gmo) in modo generalizzato e inderogabile (come nell’art. 46 e le sue proroghe), ma viene previsto un blocco condizionato dei licenziamenti in presenza di due elementi costitutivi (trattamenti di integrazione salariale riconducibili all’emergenza epidemiologica o esonero dal versamento dei contributi previdenziali) [5]. Il bilanciamento degli interessi in gioco, quindi, è stato effettuato dal Legislatore in modo diverso rispetto al recente passato. Il sacrificio della libertà di iniziativa economica (art. 41, comma 1, Cost.) rispetto all’interesse alla conservazione del posto di lavoro viene, in sostanza, limitato ai casi in cui vi è un “corrispettivo” in termini di aiuti alle imprese: sia che si traduca in una integrazione salariale di carattere speciale, sia che si concretizzi in un “esonero contributivo”. Il bilanciamento, in astratto, appare ragionevole perché basato su uno “scambio” [6] (aiuti a fronte di un divieto di licenziamenti). L’impresa che non fa ricorso agli “aiuti” menzionati nella disposizione (art. 14) riacquista la possibilità di ristrutturarsi, anche attraverso operazioni di riduzione del personale, finalizzate a realizzare l’assetto organizzativo più appropriato per competere sul mercato globale. Ma se dal piano delle fonti si passa a quello della interpretazione della disposizione (art. 14), lo scenario cambia. Le incertezze interpretative [7] che discendono dall’analisi delle “condizioni legali” [8] per effettuare i licenziamenti rende, di fatto, generalizzato il blocco dei licenziamenti (almeno fino alla fine del 2020) ponendo delicati problemi di costituzionalità [9] e di conformità all’ordinamento dell’Unione europea della disciplina [continua ..]
Il divieto di licenziamento, previsto dall’art. 14, decreto legge n. 104/2020, con efficacia dal 18 agosto di quest’anno, ha un raggio di azione ridotto rispetto al passato. Non opera in modo generalizzato (per tutti i datori di lavoro) ed è a “geometria variabile [10]” (la sua durata non è fissa). Le condizioni legali, di natura alternativa, che presuppongono il divieto di licenziamenti sono due. La prima è che il datore di lavoro non abbia “integralmente fruito dei trattamenti di integrazione salariale riconducibili all’emergenza epidemiologica da Covid 19”. La prima questione interpretativa che la disposizione pone attiene alla portata del divieto. Secondo una prima tesi, si potrebbe ipotizzare che il divieto operi per tutto l’arco temporale (fino al 31 dicembre 2020) nel corso del quale, in astratto, sussiste la possibilità di ricorrere alle integrazioni salariali (o all’esonero contributivo). Una seconda tesi [11] (che, peraltro, si basa su una solida base esegetica: il ricorso alla “fruizione” dell’intervento) riconduce il divieto a quel datore di lavoro che, in concreto, si avvale dell’integrazione salariale (in presenza delle condizioni di legge). Interpretazione questa che appare costituzionalmente orientata al fine di non penalizzare quei datori di lavoro che non sono nelle condizioni legali per accedere alle integrazioni salariali. Ma la questione resta dubbia. La seconda questione attiene all’interpretazione della dizione “integralmente”, contenuta nella disposizione. Secondo una prima opinione, l’avverbio “integralmente” è inscindibilmente connesso alla “fruizione” del beneficio dell’integrazione [12] (nel senso di determinarne l’efficacia temporale del divieto). Fruizione, secondo questa impostazione, da intendersi come “irreversibile, nel senso che una volta che il datore di lavoro abbia iniziato ad avvalersi dell’integrazione o dell’esonero, essi devono essere integralmente utilizzati e, solo quando ciò accade, il divieto di licenziamento si estingue” [13]. Secondo una diversa impostazione [14], viceversa, il termine “integrale” ha una valenza autonoma rispetto alla “fruizione”, nel senso che “l’integrale fruizione” va riferita [continua ..]
La Corte di giustizia ha, più volte, ribadito [18] che la direttiva 98/59 non incide, in alcun modo, “sulla libertà di giudizio” del datore di lavoro “in merito al se e al quando debba elaborare un piano di licenziamento collettivo”. Occorre, poi, ricordare che i diritti fondamentali garantiti dalla Carta sono applicabili a tutte le situazioni regolate dal diritto dell’Unione. Ciò si verifica, in particolare, allorché una normativa nazionale è atta ad ostacolare una o più libertà fondamentali garantite dal Trattato. Il ricorso, da parte di uno Stato membro, a eccezioni previste dal Diritto dell’Unione per giustificare un ostacolo a una libertà fondamentale garantita dal Trattato deve pertanto essere considerato come attuazione del diritto dell’Unione, ai sensi dell’art. 51, par. 1, della Carta secondo le precisazioni fornite dalla sentenza Akeberg-Fransson [19]. La “competenza” della Corte di giustizia si radica, peraltro, anche in base al principio del c.d. effetto utile. Tale principio, che impone un’applicazione o un’interpretazione delle norme comunitarie che sia funzionale al raggiungimento delle loro finalità [20], viene utilizzato dalla Corte di giustizia per superare i limiti fisiologici della direttiva sui licenziamenti collettivi [21] (che garantisce solo una armonizzazione parziale delle norme interne alla direttiva).
Ma quali sono i “principi” che entrano in gioco [22]. Sicuramente, come nel diritto nazionale, la libertà d’impresa e la tutela del posto di lavoro che trovano espressione negli artt. 16 e 30 della Carta dei diritti fondamentali. La libertà d’impresa, insieme alla libertà professionale, al diritto di lavorare (art. 15) e al diritto di proprietà (art. 17), svolge una funzione centrale tra le libertà economiche sancite dalla Carta [23]. L’art. 16 della Carta recita che “la libertà d’impresa è riconosciuta conformemente al diritto dell’Unione e alle legislazioni e prassi nazionali”. Si noti che nella Carta non viene utilizzato il termine “è garantito il diritto di”. La Carta si limita “a riconoscere” la libertà d’impresa [24]. Peraltro, l’inciso finale sembra costituire un limite al campo di applicazione di questa disposizione (richiedendo la conformità al diritto dell’Unione e alle legislazioni e prassi nazionali). Questo non significa, però, che si debba interpretare questa libertà in modo restrittivo. La Corte di giustizia ha, infatti, chiarito che l’art. 16 comprende “la libertà di esercitare un’attività economica o commerciale, la libertà contrattuale e la libera concorrenza” [25], nonché “il diritto di ogni impresa di poter disporre liberamente, nei limiti della responsabilità per le proprie azioni, delle risorse economiche, tecniche e finanziarie di cui dispone” [26]. La libertà di determinare la natura e la portata dell’attività, come ha precisato la Grande sezione della Corte di giustizia nella fondamentale sentenza del 21 dicembre 2016 [27], è un diritto fondamentale per l’impresa e “la decisione di procedere a un licenziamento collettivo rappresenta una decisione fondamentale nella vita dell’impresa”. Ma questo principio deve essere bilanciato con le finalità sociali che, nella giurisprudenza della Corte di giustizia, hanno trovato sempre più spazio e rilevanza. La tutela dei lavoratori rientra tra le ragioni imperative di interesse generale [28]. La Corte di giustizia ha già ammesso che le considerazioni attinenti al mantenimento dell’occupazione possono [continua ..]
Identificati (ed interpretati) i “principi” in gioco occorre effettuare un bilanciamento. Il principio di proporzionalità e la tecnica del bilanciamento sono considerati il tratto essenziale dei moderni sistemi costituzionali. La relazione stretta tra proporzionalità e diritti fondamentali si fonda sulla teoria di Alexy [31]. Le norme dei diritti fondamentali hanno generalmente carattere di principi e in caso di collisione con altre norme di diritti fondamentali sono oggetto di bilanciamento. Alexy evidenzia lo stretto legame tra teoria dei principi e principio di proporzionalità in quanto “il carattere dei principi implica il principio di proporzionalità e questo implica quello” [32]. I conflitti tra principi costituzionali sono risolti per mezzo di un “enunciato di preferenza”, come lo chiama Alexy, la cui forma logica è: Il principio P1 ha più peso (ossia più valore) del principio P2 nel contesto X” [33]. Bilanciare due principi non è “riconciliarli” o trovare, tra essi, un “equilibrio” [34]. Il bilanciamento si risolve “nel concretizzare o specificare uno di essi in un determinato caso (…). Ma si tratta di una gerarchia assiologica, flessibile, mobile, instabile: dipende dal caso in discussione” [35]. Secondo Alexy, l’enunciato di preferenza stabilisce una “relazione di precedenza condizionale” [36], se si danno le condizioni C1, P1 prevale su P2; se si danno le condizioni C2, P2 prevale su P1. Nei processi applicativi delle norme sui diritti fondamentali “la tecnica del bilanciamento è, essa stessa, la forma di decisione, la quale consiste in un giudizio di prevalenza di uno o l’altro dei principi che nel caso concreto vengono a confliggere, oppure di concorrenza dell’uno con l’altro in condizioni di reciproca limitazione” [37]. Secondo una diversa impostazione occorre, però, distinguere tra bilanciamento e concretizzazione. “Bilanciare consiste nello scegliere il principio applicabile, mentre concretizzare consiste nella (susseguente) applicazione, strettamente intesa, del principio prescelto” [38]. Concretizzare un principio consiste precisamente nel ricavare da esso una regola. “Queste regole inespresse sono regole costituzionali giacché sono derivate da principi [continua ..]