Massimario di Giurisprudenza del LavoroISSN 0025-4959
G. Giappichelli Editore

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L'onere della prova del demansionamento (di Luca Pisani, Dottorando di ricerca in Diritto del lavoro – Università di Roma "Roma Tre".)


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Cassazione civile, Sez. Lav., 3 luglio 2018, n. 17365 – Pres. Nobile-Rel. Arienzo-P.M. Sanlorenzo

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Quando il lavoratore alleghi un demansionamento riconducibile ad inesatto adem­pimento dell’obbligo gravante sul datore di lavoro ai sensi dell’art. 2103 c.c, è su quest’ultimo che incombe l’onere di provare l’esatto adempimento del suo obbligo: o attraverso la prova della mancanza in concreto del demansionamento, ovvero attraverso la prova che fosse giustificato dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari oppure, in base all’art. 1218 c.c., a causa di un’impossi­bilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile.

SOMMARIO:

1. La distribuzione degli oneri probatori in materia di demansionamento - 2. L’oggetto degli oneri probatori in materia di demansionamento - 3. L’onere della prova del demansionamento alla luce del nuovo art. 2103 c.c. - NOTE


1. La distribuzione degli oneri probatori in materia di demansionamento

La sentenza in commento ribadisce l’orientamento prevalente formatosi sotto il precedente testo dell’art. 2103 c.c. che addossa l’onere processuale di dedurre e pro­vare lo svolgimento di mansioni equivalenti sul convenuto datore di lavoro [1]. Altre sentenze più risalenti della Suprema Corte, ed alcune pronunce di merito, avevano invece affermato che è il lavoratore a dover allegare e poi dimostrare il contenuto delle mansioni svolte prima e dopo il cambiamento, dovendo egli provare la causa petendi del suo ricorso, diretto all’accertamento dell’illegittimità della sua assegnazione a mansioni inferiori [2]. L’argomento utilizzato dalla sentenza in commento non è nuovo: trattandosi di obbligo contrattuale gravante sul datore di lavoro, è quest’ultimo che deve dimostrare di averlo adempiuto. Non risulta, però, che le sentenze che hanno aderito a tale orientamento abbiano approfondito l’argomento alla luce dei principi elaborati in materia di distribuzione di onere della prova da inadempimento contrattuale dalla sentenza delle Sezioni Unite del 2001 [3], da ritenere punto di riferimento indispensabile in questa materia [4]. Le Sezioni Unite, come è noto, hanno ricondotto ad unità il regime probatorio da applicare in riferimento alle azioni di adempimento, di risoluzione e di risarcimento del danno da inadempimento [5], affermando che chi le propone è tenuto soltanto a provare l’esistenza del titolo e a dedurre l’inadempimento del debitore; su quest’ul­timo grava, invece, in tutti gli indicati tipi di azione, quindi anche nei confronti della domanda risarcitoria, l’onere di provare l’adempimento quale fatto estintivo del­l’obbligazione. Le Sezioni Unite hanno tuttavia introdotto nel suddetto regime unitario un’eccezione, riguardante le obbligazioni di non fare, in relazione alle quali hanno ritenuto che la prova dell’inadempimento è sempre a carico del creditore in quanto nelle obbligazioni negative «il diritto nasce soddisfatto e ciò che viene in considerazione è la successiva violazione». La sentenza in commento, così come le precedenti conformi, sembra non porsi il problema di chiarire se l’adibizione del lavoratore a mansioni inferiori sia qualificabile come violazione di un obbligo di [continua ..]


2. L’oggetto degli oneri probatori in materia di demansionamento

Nella seconda parte della massima la sentenza in commento ribadisce un orientamento che si è andato consolidando nell’ultimo periodo di vigenza dell’art. 2103 c.c. che consentiva al datore di lavoro di provare che il demansionamento era giustificato dal legittimo esercizio di poteri imprenditoriali o disciplinari o a causa di un’im­possibilità della prestazione a lui non imputabile [14]. Tale orientamento si può ritenere l’ulteriore sviluppo di quel filone giurisprudenziale che aveva tentato, in modo creativo e forzando il dato testuale della disposizione, di allentare la nozione rigida di equivalenza [15], affermando che non sarebbe configurabile una «responsabilità datoriale» [16], ovvero non si porrebbe «in contrasto con la previsione del codice civile» [17], la sottrazione di alcune mansioni [18], ovvero l’adibizione a mansione «diverse ed anche inferiori», in tutti i casi di sopravvenute e legittime scelte imprenditoriali comportanti ristrutturazioni aziendali per ottenere un’organizzazione «produttiva più efficiente» [19], ovvero dettate da «fattori oggettivi estranei alla volontà del datore» [20]. Secondo questo orientamento, dunque, il datore di lavoro che non riesce ad assolvere la prova dell’equivalenza delle nuove mansioni, ha comunque la possibilità di dimostrare una sorta di giustificato motivo oggettivo di deroga a tale regola. Questa possibilità sussiste anche ove si ritenga che l’onere della prova gravi sul lavoratore, in quanto, in tal caso, raggiunta la prova della violazione dell’equivalenza, il datore de­ve eventualmente provare, quale fatto impeditivo, la sussistenza delle esigenze aziendali giustificatrici. Una simile ricerca di esigenze aziendali che consente una parziale deroga alla regola dell’equivalenza, se comprensibile da un punto di vista pratico, non trova però riscontro nel tenore letterale della precedente norma, la quale non consente di enucleare questa sorta di giustificato motivo oggettivo di deroga all’equivalenza. Infatti il riferimento all’esigenze delle imprese, quale criterio di giustificazione dello jus variandi, è stato abolito dall’art. 13 Stat. lav., che aveva novellato il testo originario dell’art. [continua ..]


3. L’onere della prova del demansionamento alla luce del nuovo art. 2103 c.c.

Con il nuovo art. 2103 c.c., i termini della questione rimangono sostanzialmente invariati per quanto riguarda la distribuzione dell’onere probatorio ma non per quanto attiene il contenuto di tale onere. Infatti, anche i nuovi limiti legali allo jus variandi introdotti dal comma 1 (medesimo livello di inquadramento e medesima categoria legale) si configurano (non solo come limite ad un potere ma anche) come un’obbligazione di non fare poiché impongono al datore di lavoro di non adibire il lavoratore a mansioni di livello di inquadramento e categoria legale inferiori. Sicché, trattandosi di obbligazioni negative, la prova dell’inadempimento dovrebbe essere a carico del creditore. Conseguentemente il lavoratore dovrà allegare e provare che le nuove mansioni sono incluse dal contratto collettivo in uno o più livelli inferiori, o, se inserite nello stesso livello, che sono appartenenti ad una categoria legale inferiore. Una volta raggiunta questa prova spetterà al datore di lavoro eventualmente dimostrare, quale fatto impeditivo, la sussistenza degli elementi costitutivi delle fattispecie derogatrici previste nei commi 2 e 4. È quindi evidente che solo alla luce del nuovo testo dell’art. 2103 c.c., è ammissibile quella circolarità degli oneri probatori che consentono al datore di lavoro di “giustificare” la violazione del limite legale generale alla mobilità orizzontale, che invece la giurisprudenza aveva “anticipato” anche sotto il vigore della vecchia disposizione, la cui rigidità però non consentiva questa soluzione. Di qui la conferma dell’opportunità della nuova tecnica utilizzata dal legislatore di prevedere, a fianco alla regola generale, alcune deroghe o eccezioni tassative. Invece, anche ai sensi della nuova norma, resta ferma la distribuzione e i contenuti degli oneri probatori nelle ipotesi particolari di sottrazione delle mansioni e di azione del lavoratore diretta a far accertare la legittimità del suo rifiuto allo svolgimento delle nuove mansioni. Infatti, nel primo caso, continua a venire in considerazione un obbligo di fare in capo al datore di lavoro per cui quest’ultimo deve dimostrare di aver adempiuto avendo assegnato le mansioni al lavoratore; e nel secondo caso, è sempre il datore di lavoro che deve dimostrare che le nuove mansioni assegnate al lavoratore sono [continua ..]


NOTE