Massimario di Giurisprudenza del LavoroISSN 0025-4959
G. Giappichelli Editore

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Il minimo retributivo fisso con applicazione della costituzione (di Michele Miscione, Professore ordinario di Diritto del lavoro – Università di Trieste)


Sono stati presentati nella XVIII legislatura molti disegni di legge sui minimi retributivi per dare efficacia generale ai contratti collettivi riconoscendo i sindacati, ma in palese contrasto con l'art. 39 comma 2 della Costituzione. L'attenzione si è poi concentrata o ridotta su un minimo orario fisso, anche per la Direttiva UE 2022/2041, nel presupposto che mancherebbe una legge sui minimi retributivi, mentre in Italia invece c’è l'art. 36 della Costituzione. Dietro i dubbi sull'efficacia delle leggi si nascondono vecchi pregiudizi, in particolare sulla discrezionalità dei giudici, di cui si può discutere ma non perché talvolta sarebbe usata male. Un minimo orario fisso non può non piacere, perché nessuno dirà mai di non voler aiutare chi guadagna pochissimo, ma vanno posti limiti precisi per evitare sproporzioni.

The fixed minimum salary with application of the constitution

Many bills on minimum wages have been presented in XVIII legislature to give collective agreements general effectiveness by recognizing trade unions, but in clear contrast to art. 39 paragraph 2 of the Constitution. Attention was then concentrated or reduced to a fixed minimum working time, also for the EU Directive 2022/2041, on the assumption that there would be no law on minimum wages, while in Italy instead there is art. 36 of the Constitution. Behind the doubts about the effectiveness of the laws hide old prejudices, in particular on the discretion of the judges, which can be discussed but not because sometimes it would be misused. A fixed minimum schedule can't fail to please, because no one will ever say they don't want to help those who earn very little, but precise limits must be set to avoid disproportions.

SOMMARIO:

1. Il dubbio - 2. I grandi assenti nelle riforme: i sindacati e la contrattazione collettiva - 3. «Salario minimo orario» con formula ampia - 4. I propositi ed i progetti di legge per dare efficacia «erga omnes» ai contratti collettivi e riconoscere i sindacati - 5. L’iniziativa del Presidente dell’INPS - 6. Gli obiettivi della Direttiva UE 2022/2041 - 7. Molti minimi costituzionali - 8. Criteri per minimo orario fisso - 9. I contratti scaduti o disdettati, i rinnovi - 10. Una legge sui minimi tocca l’art. 39 ma non l’art. 117 Cost. - 11. I molti scopi di fatto ipotizzati per una legge sui minimi retributivi - 12. Sui lavori “poveri” e sui minimi contrattuali diversi per categorie/settori - 13. Applicazione dell’art. 36 Cost. o creazione di norma nuova - 14. I falsi presupposti: l’Italia non avrebbe una legge sui minimi retributivi che tutti gli altri hanno - 15. Il sistema dell’art. 36 Cost. con discrezionalità contrapposto ad uno fantasioso di “algoritmi” (l’efficacia della legge “indeterminata”) - 16. Come nel ’59? - 17. L’ipotesi impossibile che la legge serva a rafforzare i sindacati deboli - 18. Conclusioni con domanda retorica per legge con pochi vantaggi - NOTE


1. Il dubbio

Per porre minimi di retribuzione e/o un minimo orario fisso, nella XVIIIa legislatura 2018-2022 sono stati presentati da esponenti dei partiti anche d’opposizione numerosi disegni di legge, sia al Senato [1] che alla Camera dei Deputati [2]; con la nuova legislatura, è stato presentato immediatamente un nuovo disegno di legge, ma solo per l’estensione dei contratti collettivi nazionali e non più per il minimo orario fisso [3]. Sono seguite «mozioni» varie [4], tutte respinte, salvo quella del Governo e salvo conferma formale della Direttiva UE 2020/2041 [5]. Nei disegni di legge [6] si prevedeva il riconoscimento dei sindacati per rendere i contratti collettivi vincolanti nei confronti di tutti (“erga omnes”) ed un minimo orario fisso [7]. Nessuno s’è posto il problema di compatibilità rispetto all’art. 39 comma 2 della Costituzione, che prevede un preciso procedimento per dare efficacia generale ai contratti collettivi. Più che strano è incredibile, perché non si può credere che non si conosca... la Costituzione, per questioni famose già esaminate dalla Corte costituzionale [8]. Si era proposto di dare efficacia generale ai contratti collettivi anche per il lavoro autonomo e perfino per il «contratto di agenzia o di rappresentanza commerciale» [9]. Si è proposto di dare rilievo alle Regioni [10], con inevitabili diversificazioni, trascurando il principio fondamentale per cui, in base all’art. 117, lett. m), Cost., lo Stato ha competenza legislativa esclusiva sulle retribuzioni per determinare i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali da garantire su tutto il territorio nazionale [11]. Tante iniziative dovrebbero far pensare che si volesse o si voglia una “legge sindacale”, mancata anche dopo le grandi modifiche degli anni 2000. Va però riflettuto al fatto che nel 2018-2022 i disegni di legge sono stati presentati da esponenti di partiti, che avevano la possibilità di approvare subito la legge, mentre tutto è rimasto al punto di partenza. Questo lascia dedurre che in verità una “legge sindacale” non è voluta, salvo, forse, un rilancio per i minimi orari fissi.


2. I grandi assenti nelle riforme: i sindacati e la contrattazione collettiva

La mancanza di una legge sindacale non vuol dire che ce ne sia bisogno: al contrario, l’astensione del legislatore sull’attuazione dell’art. 39, comma 2, Cost. ha avuto ed ha valore positivo, esprimendo la preferenza dell’autonomia negoziale. Anche la “legge Fornero”, prima grande riforma degli anni 2000, diede spazio ai contratti collettivi, ma senza toccare la disciplina della contrattazione e dei sindacati [12]. Sul punto il diritto sindacale è rimasto senza leggi, perché fondato ancora sul residuo di un glorioso passato costituito dallo spezzone dell’originario art. 19 St. lav. e, per la contrattazione, fondato sulla formula delle organizzazioni sindacali più rappresentative o comparativamente più rappresentative, che non risolve il problema dell’efficacia dei contratti collettivi. C’era la volontà di non modificare l’art. 39 Cost., più che l’impossibilità di fatto di attuare l’art. 39. Con l’andar del tempo, per le molte iniziative legislative 2018-2022 s’è parlato un po’ meno riguardo all’estensione erga omnes dei contratti collettivi, anche se subito riproposta nella nuova legislatura [13]; l’attenzione è rimasta concentrata su 9 e poi 10 euro ad ora [14] o “1000 euro al mese”, considerando poi la Direttiva UE 2022/2041 [15]. Questa Direttiva ha previsto anche, in via indiretta, la formula delle “9 euro ad ora”, dichiarando utilizzabili, quali valori di riferimento, «il 60% del salario lordo mediano e il 50% del salario medio lordo» [16]. Infine, “1000 euro al mese” è stato posto come limite di pignorabilità per le pensioni dal “decreto Aiuti-bis” [17]. È un segnale, anche se lontano, di conferma delle “9 [o 10] euro ad ora” e “1000 euro al mese”. È restato sempre il silenzio sull’art. 39 comma 2 Cost. Forse si sarà ipotizzato che sia “a fin di bene” e che nessuno potrebbe opporsi alla proposta di garantire “9, 9,50 o 10 euro ad ora” o “1000 euro al mese”. Chiunque avrebbe una reazione emotiva, nella formula fin troppo semplice «non può non piacere». Per modificare i contratti collettivi di così poco e con un fine tanto buono, non sarebbe necessario seguire la procedura [continua ..]


3. «Salario minimo orario» con formula ampia

Nelle logiche o strategie sinteticamente esposte, dunque, sono aumentati gli inviti, proposte o richieste di una legge sul «salario minimo orario», per fissare cioè minimi di retribuzione affinché a tutti sia assicurato l’essenziale per vivere, ricordando talvolta i disegni di legge ancora in discussione e le proposte o norme del­l’Unione Europea (UE). In particolare è ricordata la Direttiva poi approvata con la cit. n. 2022/2041, in cui si usano però parole ampie, mischiando fonti e forme diverse e forse contraddittorie o disomogenee, come retribuzione e povertà [risp. artt. 36 e 117 comma 2 lett. m) Cost.] o «povertà lavorativa» [18]. Potrebbe sembrare con apparenza superficiale che perfino la Costituzione mischi le nozioni, quando all’art. 36 afferma il diritto del lavoratore «ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa»: con il criterio della proporzionalità, d’origine operaia, s’afferma il merito e si evitano gli sfruttamenti, mentre con il criterio della “sufficienza in ogni caso” potrebbe sembrare che si voglia evitare la povertà, che evitarla è non-condizionabile. Si dice inoltre di «salario» minimo, con parola apparentemente antica ma più probabilmente ispirata dal caso francese dallo «Smic» («Salaire minimum de croissance»), con cui si prevede un minimo orario, settimanale ed annuale [19], in sintonia con la Direttiva UE 2022/2041 [20]. Non sono stati mai esaminati gli effetti sulla contrattazione collettiva e sulla conformità alla Costituzione, che garantisce come fondamentale la libertà sindacale ed impone una speciale procedura per dare effetti di legge alla contrattazione collettiva (art. 39, comma 2). Si dice mai meno di “minimo dei minimi”, “a fin di bene”, ma non basta. Anche perché non si sa qual è il “bene”.


4. I propositi ed i progetti di legge per dare efficacia «erga omnes» ai contratti collettivi e riconoscere i sindacati

Dopo l’esperienza rimasta inattuata del 2015 con il Jobs Act [21], s’è visto che dal 2018 sono stati presentati in Parlamento molti disegni di legge (d.d.l.) per dare efficacia “erga omnes” ai contratti collettivi con i sindacati comparativamente più rappresentativi, oltre che per prevedere il minimo orario fisso; se ne fa un rapido esame, dopo i cenni iniziali, per cercare le «intenzioni» dei proponenti, in una specie di applicazione anticipata dell’art. 12 delle disp. legge gen. Alla Camera sono stati presentati d.d.l. – senza mai andare in discussione – da esponenti di «Liberi e Uguali» (LEU) [22], del «Partito Democratico» (PD) [23], di «Fratelli d’Italia» (FDI) [24]. Un nuovo d.d.l. è stato presentato nella XIXa legislatura da esponenti del PD [25]. Al Senato i primi progetti di legge del 2018 erano ad iniziativa del PD [26] e del Ministro del Lavoro con il M5S [27]; i successivi d.d.l. sono stati ad iniziativa del PD [28], di LEU [29], del M5S [30], del Gruppo misto [31]. Questi d.d.l. sono andati in discussione congiunta il 10 maggio 2022 [32]. In ordine di tempo, il primo d.d.l. è stato presentato dal PD il 3 maggio 2018 (S.310) [33]: prevedeva un «salario minimo orario» di € 9 al netto dei contributi previdenziali e assistenziali per qualsiasi tipo di lavoro, da incrementare ogni anno sui dati Istat, con possibilità di intervenire mediante D.M. sui contratti collettivi, escluse le Pubbliche Amministrazioni. Per questo d.d.l. S.310 è stata svolta una lunga attività parlamentare, con acquisizione di molti documenti [34], che restano utili. Si proponeva dunque non un’estensione erga omnes dei contratti collettivi, ma solo l’imposizione di un minimo orario fisso, anche se con riflessi indiretti sui contratti collettivi. Erano d.d.l. da precisare, considerando ad es. la genericità impossibile nel prevedere l’applicazione a «qualsiasi tipo di lavoro». È abbastanza simile il d.d.l. C.947 presentato il 18 dicembre 2018 ancora alla Camera, ma con destinazione solo ai «subordinati» e la previsione di una Commissione presso il Ministero del lavoro [35]. Nell’ambito dello stesso partito (PD), però, nel successivo d.d.l. S.1132 al Senato [36] si [continua ..]


5. L’iniziativa del Presidente dell’INPS

Il salario minimo è tornato alle cronache con un’intervista al quotidiano la Repubblica del 20 maggio 2022 del Presidente dell’Inps (P. Tridico), che ha detto [56]: «la cifra di nove euro lordi l’ora è assolutamente compatibile con la forchetta che ha indicato due anni fa l’Europa in una delle sue direttive. Bruxelles raccomandava un salario minimo basato su una forchetta tra il 50% del reddito medio e il 60% del salario mediano. In Italia, nel solo settore privato, questi due valori corrispondono a 10,59 euro e 7,60, quindi la cifra media è 9 euro». «Nove euro lordi l’ora per otto ore al giorno vuol dire avere salari netti di poco superiori a mille euro al mese. Con le retribuzioni stagnanti e un’inflazione che corre verso il 7% credo sia un livello minimo congruo». Il riferimento implicito del Presidente dell’Inps era anche all’allora «proposta» di Direttiva dell’Unione europea COM(2020)682, presentata dalla Commissione europea il 28 ottobre 2020 e poi approvata dal Parlamento UE in via definitiva nell’ottobre 2022 (2022/2041) per l’istituzione di un «salario minimo europeo». Nella concisione di un’intervista ad un giornale, il Presidente dell’Inps non ha nominato i sindacati ed i contratti collettivi, proponendo solo un minimo orario fisso e uguale per tutti da imporsi anche sui contratti collettivi, a prescindere dalla loro «copertura» e cioè dalla diffusione, ritenuta invece essenziale dalla Direttiva UE 2022/2041. L’intervista del Presidente dell’Inps era stata preceduta di pochi giorni da articoli di giornale [57]. Dopo, ci sono state prese di posizione del Ministro del Lavoro, del Ministro della Pubblica amministrazione e del Governatore della Banca d’Italia, a favore o contro [58]. Una conferma indiretta della proposta del Presidente dell’Inps s’è avuta infine con il “decreto Aiuti-bis” [59], che come detto ha portato a “1000 euro al mese” l’impignorabilità assoluta delle pensioni.


6. Gli obiettivi della Direttiva UE 2022/2041

Come detto, il Presidente dell’Inps, per lanciare o ri-lanciare il «salario minimo», ha fatto riferimento non ai d.d.l. in discussione in Parlamento ma alle norme UE ed implicitamente alla proposta di Direttiva sui salari minimi COM(2020)682, poi approvata nella Direttiva UE 2020/2041. Sull’allora proposta di Direttiva fu chiesto il 13 gennaio 2021 un parere alla Camera dei deputati (11ª Commissione), che ha fornito un’importante documentazione («dossier» con «Relazione del Governo» e memorie depositate alla stessa Camera) [60]. La Direttiva COM(2020)682 ha avuto grande pubblicità anche quando era solo “proposta”, fino ad essere scambiata talvolta per già approvata. La Direttiva UE 2022/2041 (infine approvata) non prevede per gli Stati membri un obbligo di fissare per legge le retribuzioni, anche perché imporre un tale obbligo è vietato dal Trattato di funzionamento dell’Unione europea [61]: prevede di raggiungere un salario minimo preferibilmente con la contrattazione collettiva “esistente”, che abbia una «copertura» almeno dell’80% [62], ed ammette l’intervento della legge solo in mancanza della contrattazione collettiva attuale o in esecuzione di norma europea. Pertanto, l’obiettivo con la Delibera UE 2022/2041 è non di uniformare i sistemi nazionali su uniche retribuzioni minime per tutti gli Stati membri, ma di tendere a una convergenza verso l’alto delle retribuzioni minime, rispettando le specificità di ogni ordinamento interno e favorendo il dialogo tra le parti sociali. Si prevede che l’obiettivo vada realizzato dalla contrattazione collettiva attuale o futura, con «copertura» [63] di almeno l’80%, e dalla legge solo in mancanza della contrattazione collettiva: tuttavia non si tiene conto della situazione italiana. La Direttiva UE 2022/2041 non prevede dunque, come talvolta è stato fatto intendere, che sarebbe obbligatoria una nuova specifica legge in mancanza di legge sui minimi ed anzi preferisce la contrattazione collettiva che disciplina o disciplinerà la materia in modo efficace con «copertura» di almeno l’80%. Come si faccia ad accertare il grado di «copertura» è difficile, ma comunque l’Italia è oltre l’80% [64]. Dire che la Direttiva UE imporrebbe una [continua ..]


7. Molti minimi costituzionali

Il sistema italiano pone già molti “minimi”, non solo per singole categorie/set­tori (o comparti) di chi già lavora, ma anche per altri casi (ad es. per chi non ha mai lavorato o è disoccupato o è in pensione). In astratto, sembrerebbe che possa esserci un solo minimo esistenziale, al di sotto del quale non si riesca a vivere; a ripensarci bene, invece, è giusto il sistema italiano con molti “minimi”. Sembra quasi che la Costituzione, quando all’art. 36 prevede che il lavoratore ha diritto ad una retribuzione «in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa», presupponga unici minimi esistenziali, “minimo dei minimi”. L’art. 39 Cost. prevede però minimi distinti per ogni categoria. Nella stessa Costituzione ci sono inoltre con l’art. 38 altri minimi esistenziali, per cui «i lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria». I minimi possono essere diversi per ciascuno dei casi considerati. Con l’art. 117, comma 2, lett. m), Cost. si prevedono ulteriori minimi residuali, per qualunque situazione: ed è su questa norma, come si vedrà dopo, che potrebbe basarsi un minimo orario fisso. Va ricordata ancora l’impignorabilità assoluta per le pensioni fino ad € 1.000 al mese [65], che alla lontana ricorda le proposte sul minimo orario fisso. Nel precisare nell’art. 38 Cost. con parole distinte che i diritti siano «preveduti ed assicurati», si usa un rafforzativo di concetto assoluto. Allo stesso modo, il minimo “esistenziale” potrebbe essere uno solo, perché potrebbe sembrare inutile distinguere fra minimo «in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa» ed un minimo per garantire i «mezzi adeguati alle esigenze di vita»: la Costituzione invece distingue espressamente negli artt. 36, 38, 39 e 117. Ci sono non minimi “più esistenziali” di altri, ma minimi diversi per le singole situazioni.


8. Criteri per minimo orario fisso

Con molte delle iniziative parlamentari s’è proposto invece un minimo “unico”, invece di tanti minimi. Per capire se è opportuno o addirittura necessario un minimo unico orario, bisogna verificare il senso ed il valore dell’ipotizzata “unicità” del minimo. Per individuare un minimo uguale per tutti, senza limiti soggettivi e oggettivi, si è proposto di prendere a parametro la singola “ora” di lavoro. Dato che però non esiste un valore unico ed assoluto di “ora”, è necessario cercare criteri per comprendere tutto. La singola “ora” ha strutture e valori diversi, in rapporto all’orario complessivo e soprattutto al tipo d’attività svolta. Rispetto all’orario complessivo, è profondamente diverso a seconda se l’orario sia a tempo pieno o parziale, se sia rapportato alla settimana o altro periodo; è diverso se l’orario sia su sei, cinque o anche quattro giorni. La singola “ora” non può essere considerata sempre in rapporto ad un orario normale di 40 settimanali, ma va valutata in rapporto ai vari orari normali settimanali dei singoli settori/comparti. Ci sono soprattutto lavori, come quelli in tutto o in parte d’attesa o custodia, o discontinui, per cui il rapporto tra retribuzione ed orario dipende dal tipo d’attività svolta. Vanno considerate le attività in cui i periodi di non-fare costituisca una parte importante dell’orario, al di là delle strette formule di legge (come quelle per Colf e badanti). All’opposto, ci sono lavorazioni particolarmente faticose e pesanti per cui è richiesto un impegno psicofisico particolarmente intenso e continuativo, condizionato da fattori che non possono essere prevenuti con misure idonee: per queste, oltre a fruire di anticipo delle pensioni [66], si prevedono orari speciali ad es. per i conducenti che eseguono trasporto di persone e trasporto di merci su strada [67] o lavoratori notturni [68]. Non si può confrontare un’ora di lavoro normale con l’ora degli addetti ad attività faticose e pesanti, o insalubri, spesso con discipline speciali. Nella ricerca di omogeneità, per evitare che con minimi “fissi ad ora” si finisca, in proporzione, per dare irrazionalmente di più o di meno a seconda del tipo o modalità di [continua ..]


9. I contratti scaduti o disdettati, i rinnovi

C’è poi, in tutto questo, l’equivoco o rischio di equivoco sul significato dei contratti “scaduti” o “disdettati” con alternative in realtà false: c’è una specie di presunzione (o percezione), per cui i contratti collettivi scaduti o disdettati escluderebbero qualunque minimo o comporterebbero minimi troppo bassi o che, ad imporre per legge un minimo fisso, sarebbero incentivati o addirittura imposti i rinnovi o nuove adesioni. Se i contratti collettivi scaduti o disdettati creassero un vuoto normativo, facendo diventare possibile tutto al ribasso, sarebbe giustificato l’intervento di una legge per fissare quei minimi mancanti [69]. La verità è però che in Italia i contratti collettivi ed in particolare i contratti nazionali di categoria prevedono spesso o quasi sempre clausole di “ultrattività”, per cui gli stessi contratti rimangono validi ed efficaci anche dopo la scadenza o disdetta fino al rinnovo. Inoltre è frequente la permanenza del contratto scaduto o anche disdettato per accettazione implicita mediante applicazione. Certo, senza apposita clausola non c’è ultrattività [70], ma resta il potere del giudice di individuare il “minimo costituzionale” anche facendo riferimento ai contratti collettivi scaduti [71]. Forse nel diritto comune i contratti scaduti o disdettati sono inesistenti per il futuro, ma per il lavoro i contratti collettivi scaduti o disdettati non lasciano un vuoto per le tecniche di permanenza in vigore citate ma comunque perché ogni ipotetico vuoto è colmato sempre dall’art. 36 Cost. Né, tantomeno, una legge con minimo fisso ed unico potrebbe favorire i rinnovi, fermi da tempo per varie contingenze, innanzitutto per la sospensione di tutto a seguito del Covid e per il lungo periodo di mancanza di svalutazione monetaria. C’è stato cioè qualche anno in cui chi prendeva retribuzioni fisse non aveva problemi, mentre le imprese avevano forti ricadute in particolare per il Covid: è normale quindi che per questi periodi siano mancati o siano diminuiti i rinnovi contrattuali. Ora però, che le ricadute Covid si sono attenuate ed è aumentata molto la svalutazione, sarà altrettanto normale la ripresa dei rinnovi contrattuali, sperando che non si creino nuove fermate per la guerra in Ucraina, la crisi [continua ..]


10. Una legge sui minimi tocca l’art. 39 ma non l’art. 117 Cost.

Una legge su unico minimo retributivo orario per importo essenziale potrebbe essere considerata in attuazione dell’art. 117, comma 2, lett. m), per cui spetta allo Stato determinare i «livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale». Considerando quanto già osservato, è possibile, anche se non-semplice prevedere un minimo fisso in conformità con l’art. 117, comma 2, lett. m), Cost. Innanzitutto bisogna distingue fra i vari tipi di lavoro, escludendo il lavoro autonomo o l’agente di commercio, come pur è stato ipotizzato [72], perché non tutto è commensurabile ad ora; bisogna distinguere fra tipi d’attività, in particolare quelli d’at­tesa/custodia o faticosi/insalubri; bisogna considerare il tipo d’orario. L’unica specificità considerata nei tanti disegni di legge presentati dal 2018 è l’apprendistato [73]. Bisogna considerare le specificità, altrimenti si crea il rischio di un «livello essenziale» troppo basso o troppo alto, che alla fine sarebbe inutile.


11. I molti scopi di fatto ipotizzati per una legge sui minimi retributivi

Si può immaginare criticamente un riepilogo degli scopi di fatto più frequentemente ipotizzati a favore di una legge sul minimo orario, fisso e uguale per tutti. Non si devono neppure considerare, invece, le proposte di dare efficacia erga omnes ai contratti collettivi [74] inattendibili per evidente contrarietà rispetto all’art. 39, comma 2, Cost. a) Un primo scopo sarebbe di supplire all’inesistenza di una legge, senza considerare però l’art. 36 Cost. e presupponendo che la sua applicazione avrebbe comportato una nuova e diversa norma giurisprudenziale: un’affermazione errata, come si vedrà, anche se ricorrente. b) Una legge sul minimo orario fisso impedirebbe che la mancata adesione volontaria ai contratti collettivi nazionali (c.c.n.l.) comporti retribuzioni in libertà, anche al di sotto dei minimi costituzionali ex art. 36 Cost.: qui si va, però, contro l’e­videnza, perché l’art. 36 è inderogabile, per aderente o no. c) Nel mosaico di c.c.n.l., che compone il complesso mondo del lavoro, ci sarebbero molte o comunque importanti lacune, con categorie o settori privi di c.c.n.l.: non è vero, perché non c’è alcuna carenza o lacuna (anche le Colf hanno un c.c.n.l.), ma le ipotetiche lacune, se ci fossero, sarebbero colmate con l’art. 36 Cost. d) Fra i c.c.n.l. ci sarebbero sovrapposizioni per le stesse categorie/setto­ri/comparti, creando discriminazioni a seconda del c.c.n.l. applicato e comunque ipotizzando incertezze: non si capisce, però, come il fenomeno potrebbe essere ostacolato o superato con una legge su un minimo orario fisso, ma soprattutto si prospetta un uso distorto della legge per limitare la libertà sindacale in contrasto con l’art. 39 Cost. e) Sarebbero cresciuti i contratti collettivi “pirata”, stipulati cioè da sindacati che agiscono per favorire i datori di lavoro prevedendo minimi troppo bassi, in aggiunta ai contratti collettivi delle organizzazioni sindacali più rappresentative o per nuovi settori/comparti appositamente creati: tuttavia una legge su minimo orario fisso non avrebbe alcuna influenza sui contratti “pirata” e paradossalmente potrebbe solo peggiorare la situazione creando contratti collettivi “fantoccio” sempre più bassi e che, rispettando formalmente il minimo orario fisso, beneficerebbero della [continua ..]


12. Sui lavori “poveri” e sui minimi contrattuali diversi per categorie/settori

Sulla nozione di lavori “poveri” c’è incertezza, perché spesso vengono confusi con il lavoro “nero” [76]. Ma, grazie all’art. 36 Cost., i lavori “poveri” non debbono esistere, perché al di sotto dei minimi costituzionali può intervenire sempre il giudice per adeguare le retribuzioni, anche oltre gli stessi contratti collettivi. Gli unici lavori “poveri” sono quelli irregolari [77] contro le norme legali, amministrative e previdenziali (c.d. “nero”), ed è irregolare anche il lavoro con retribuzione sotto la soglia costituzionale dell’art. 36. Secondo i dati forniti dall’Inps nel rapporto annuale 2021 alla Commissione Lavoro del Senato [78] ci sarebbero c.c.n.l. con minimi retributivi molto bassi ad es. per il turismo, le cooperative nei servizi socio-assistenziali, pubblici esercizi, ristorazione collettiva, commerciale e turismo, tessile ed abbigliamento, pulizia e servizi integrati o multiservizi, vigilanza e servizi fiduciari. Nonostante la presenza di dati ufficiali, non mancano versioni diverse d’attendibilità dubbia ma che tuttavia, nell’im­mediata diffusione mediatica, riescono a colpire l’immaginazione e la sensibilità. In tutti i casi non si tiene conto del tipo d’attività e in particolare se si tratti in tutto o in parte d’attesa o custodia o discontinui. Salvo ovviamente i contratti “pirata”, firmati cioè da organizzazioni che agiscono in favore della controparte, è affermata per i c.c.n.l. «una “presunzione” di adeguatezza ai principi di proporzionalità e sufficienza che investe le disposizioni economiche dello stesso contratto anche nel rapporto interno fra le singole retribuzioni ivi stabilite» [79]. Dato che, come visto, ci sono tanti “minimi” diversi per ogni categoria/settore, i minimi più bassi o diversi rispetto a quelli di altre categorie/settori non sono per questo in violazione dell’art. 36 Cost. Se poi, rispetto a quelli di altre categorie, alcuni minimi fossero rimasti bassi per mancato rinnovo contrattuale, ad imporre per legge minimi superiori si finirebbe per violare la libertà sindacale, con una specie di rinnovo imposto per legge (ma si rinvia a quanto già detto sul punto). È comunque impossibile definire povere le retribuzioni [continua ..]


13. Applicazione dell’art. 36 Cost. o creazione di norma nuova

È stato affermato [80] che la funzione sociale della retribuzione non avrebbe trovato concreta applicazione e sarebbe rimasta di natura sostanzialmente programmatica, come sarebbe rimasta solo «sullo sfondo» la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 (art. 23, par. 3) e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (art. 31, par. 1). Ci sarebbe una specie di sostituzione o supplenza mediante fonte giurisprudenziale. Una nozione unitaria di “giusta retribuzione” sarebbe stata creata dai giudici, che avrebbero dato «attuazione per via giurisprudenziale» all’art. 36 Cost., ma finendo per sovrapporre e confondere i caratteri di proporzionalità e sufficienza, con «non poche contraddizioni e incertezze, oltre a una certa timidezza». Si ipotizza, anche se non esplicitamente, che «il concetto di retribuzione “adeguata”» sarebbe stato posto non dall’art. 36 Cost., ma dall’elaborazione giurisprudenziale. In altre e più semplici parole, forse i giudici avrebbero creato una norma nuova in sostituzione della legge. Ci sono, nelle espressioni riportate, le solite incertezze fra l’applicazione della legge e la creazione di una fonte atipica da parte dei giudici. È ovvio che il singolo giudice in certo senso crea, di volta in volta, una norma speciale applicando la legge, ed è storico e comune il vizio di scivolare dalle singole applicazioni della legge alla creazione di norme nuove. Con semplicità, il quesito antico e sempre rinnovato è se i giudici abbiano creato una fonte nuova sulla “giusta retribuzione”, traendo solo spunto ed occasione dalla Costituzione o da altre norme di carattere generale, oppure hanno applicato la Costituzione con la voluta e doverosa discrezionalità imposta proprio dall’art. 36 Cost. Quando si dice che in Italia non ci sarebbe una legge sui minimi salariali, si dice implicitamente che i giudici avrebbero creato una norma nuova per supplire ad una carenza di legge. Quando s’insiste rilevando che si sarebbero create contraddizioni e incertezze, si conferma l’ipotesi della carenza di legge ma allo stesso tempo si critica la “discrezionalità” del giudice. Si può discutere a lungo e con pari logica se sia preferibile un sistema fisso oppure un sistema adeguato dal giudice nell’esercizio della [continua ..]


14. I falsi presupposti: l’Italia non avrebbe una legge sui minimi retributivi che tutti gli altri hanno

Nei ripetuti interventi, vecchi e nuovi, si riafferma o si continua a chiedere se sia utile anche se non necessaria una legge che fissi in modo preciso un unico minimo retributivo. La verifica viene fatta qui presupponendo che una legge su minimo orario fisso deve sempre rispettare la Costituzione e l’eventuale utilità pratica o immediata non giustifica una violazione né grande né piccola. Si parte da un doppio presupposto di fatto, uno negativo e l’altro positivo, solo apparenti ed in certo senso speculari: si dice che l’Italia “non ha una legge” sui minimi di retribuzione, mentre all’estero “ce l’hanno quasi tutti”. È una falsa apparenza, perché, come detto, in Italia c’è l’art. 36 Cost. con l’art. 2099 c.c. (come si vedrà anche dopo); inoltre le leggi straniere sono – tutte – disomogenee tra di loro e comunque disomogenee rispetto al caso italiano. Una legge sui minimi, se anche mancasse, non è obbligatoria in particolare in base alle norme UE, per cui comunque, come visto, è da preferire la contrattazione collettiva. Le difficoltà della comparazione sono note. Prima si accennava alle grandi difficoltà di comparazione fra c.c.n.l. di settori diversi, ma uguali se non maggiori difficoltà ci sono per la comparazione di un singolo strumento giuridico, ritenuto “simile” a quello di altri Stati. Si pensi solo allo Smic francese, con differenze per età che in Italia non sarebbero nemmeno pensabili. Basta tornare al confronto sempre riproposto fra i vari Stati UE. Si dice [81] che una legge sul salario minimo esisterebbe in 21 paesi su 27 dell’Unione Europea e non l’avrebbero Italia, Danimarca, Finlandia, Austria, Svezia e Cipro. Le differenze di retribuzione mensile sarebbero notevoli, ma con numeri [82] privi di significato, che tendono solo a colpire l’immaginazione. Un dato è invece insormontabile e cioè che è impossibile confrontare minimi numerici non solo fra Stati, ma anche fra varie categorie/settori, dove tutto e tutti sono diversi. Le diversità che fanno riflettere sono non solo per categoria/settore, ma anche per il resto: come già detto, bisognerebbe vedere l’orario, il trattamento complessivo per periodi significativi, il trattamento c.d. normativo che ha sempre valore economico, il tipo [continua ..]


15. Il sistema dell’art. 36 Cost. con discrezionalità contrapposto ad uno fantasioso di “algoritmi” (l’efficacia della legge “indeterminata”)

Spesso si dice, come visto, che nel sistema italiano i minimi contrattuali o esistenziali sarebbero assicurati dalla giurisprudenza, e mancherebbe una legge. Si fa riferimento alla corrente giurisprudenziale, sorta immediatamente dopo l’entrata in vigore della Costituzione, che ha applicato l’art. 36 Cost., precisando per sentenze i minimi in base ai due criteri di proporzionalità e sufficienza personale e familiare. Quanto appena affermato comprende già una critica, perché invece la legge c’è ed è l’art. 36 Cost., per cui i giudici determinano nei singoli casi le misure precise delle retribuzioni e di ogni trattamento (anche in connessione con l’art. 2099 c.c.). Semmai si potrebbe dire che manca in Italia una legge che precisi in anticipo, mentre in base all’art. 36 Cost. sono indicati i criteri ma le quantificazioni spettano ai giudici. Il sistema funziona attraverso divisioni in categorie o settori o comparti definiti dai contratti collettivi in base al principio di libertà sindacale [83]. In base alla Costituzione non si può fare a meno del pluralismo sindacale, anche se non gradito. Va affrontato il problema se una normativa come quella dell’art. 36 Cost., che detta solo i criteri, sia meno o più efficace rispetto a una legge che definisca in anticipo dati precisi. Si ripropone cioè un altro antico e difficile dilemma se sia preferibile una norma “indeterminata” [84] i cui contenuti andranno riempiti dai giudici, come quella sulla “correttezza e buona fede”, o sia preferibile al contrario una norma che precisi già tutto, togliendo discrezionalità ai giudici che dovrebbero semplicemente indicare la norma da applicare al caso concreto, per cui i processi sarebbero effettuati attraverso “algoritmi” e basterebbe premere dei tasti per fare le sentenze. In modo sommario, e soprattutto senza alcuna base, talvolta si sente dire che bisognerebbe limitare la discrezionalità dei giudici, che deciderebbero male. Si può ricordare, fra molti e vari esempi, quello dell’art. 30, comma 1, della legge 4 novembre 2010, n. 183, che poneva un ordine ma che rassomigliava più ad un innocuo “richiamo”, di usare, per le «clausole generali», un «controllo giudiziale limitato esclusivamente, in conformità ai princìpi generali [continua ..]


16. Come nel ’59?

Bisogna chiedersi ancora il perché delle tante proposte sul «salario minimo», nella formula ampia di rendere vincolanti i contratti collettivi per qualunque lavoro o nella forma ridotta, con il dibattito che n’è seguito, di un minimo orario fisso. Il gran numero di iniziative legislative dovrebbe far dedurre un interesse forte, ravvivato dall’entrata in vigore Direttiva UE 2020/2041, ma a conclusioni opposte si arriva considerando che in Parlamento tutto è rimasto fermo al punto di partenza, anche quando i partiti, che avevano proposto i disegni legge, potevano facilmente approvare una legge. È mancata una vera volontà e per questo tutto è rimasto ad una fase iniziale, con disegni di legge numerosi e molto diversi (si pensi solo alla differenza fra lordo e netto) [88]. Si può discutere se sia bene o no estendere erga omnes i contratti collettivi, senza giudizi drastici: comunque bisogna rispettare l’art. 39 Cost. E poi – come non ripeterlo? – l’art. 39, se non andasse bene, può essere cambiato, ma fin quando è in vigore non può essere violato e nemmeno evitato. Una violazione fu possibile nel 1959 con la legge n. 741 per esigenze «provvisorie, transitorie ed eccezionali» [89], ma quell’esperienza controversa è irripetibile. Ci si può chiedere se nel 2022, come nel 1959 con la legge n. 741, ci sia l’esi­genza unica e doppia, mediante una legge, di rendere i contratti collettivi vincolanti per tutti («erga omnes») per imporre minimi di retribuzione, o viceversa per imporre i minimi a causa d’asserita carenza dei contratti collettivi; se, come nel 1959, per garantire i minimi sia necessario imporre con apposita legge l’obbligo per tutti di applicare i contratti collettivi. La differenza è che ora, almeno con le proposte residue, si vorrebbe imporre per legge un piccolo frammento con minimo orario fisso, senza considerare altro. Soprattutto, non è come il ’59. Oggi non c’è un problema di minimi e nemmeno di applicazione dei contratti collettivi. A quanto risulta [90], di contratti collettivi con minimi inferiori a “9 euro ad ora” ce ne sarebbero pochi o non ce ne sarebbero affatto, se si evitano le apparenze e si distingue in base ad elementi essenziali, ad es. il tipo di attività come quelle [continua ..]


17. L’ipotesi impossibile che la legge serva a rafforzare i sindacati deboli

Si è affermato che però l’autonomia collettiva sarebbe insufficiente. Ad essere benevoli, si potrebbero ipotizzare contratti collettivi con sindacati tanto deboli, da non riuscire ad imporre nemmeno minimi esistenziali. È anche troppo facile obiettare, però, che in questi casi si ha violazione dell’art. 36 Cost., per cui si può sempre andare davanti ai giudici, se non basta la semplice minaccia di agire in giudizio. Forse, ma fantasticando, una legge che colpisca l’autonomia sindacale attraverso formule varie potrebbe servire per eliminare di fatto i sindacati tanto “deboli”, da non essere riusciti a firmare contratti collettivi con minimi insufficienti: “deboli”, fra virgolette, perché sotto c’è l’allusione che si tratti in verità di sindacati non genuini. Se anche le fantasie fossero vere, non è questo il metodo: ci sono metodi migliori, ma soprattutto c’è l’art. 36 Cost., in base al quale i minimi insufficienti possono e debbono essere dichiarati nulli e sostituiti con quelli congrui.


18. Conclusioni con domanda retorica per legge con pochi vantaggi

Dato che di estensione erga omnes dei contratti collettivi in violazione dell’art. 39, comma 2, Cost. è inutile parlare, resta la proposta di un minimo orario fisso. Si può usare la vecchia e rozza allegoria del “cui prodest” e cioè “a chi giova?”. Quanti avrebbero aumenti salariali con l’introduzione di un minimo orario fisso? I dati che girano sono spesso fantasiosi, in particolare perché si confondono i minimi con le inadempienze. Se i minimi tabellari fossero sotto un certo minimo orario, si potrebbe intervenire sui contratti collettivi, ma, se sotto il minimo orario fossero le retribuzioni in violazione dei contratti collettivi, bisogna intervenire sulla vigilanza. I dati in Rete, che sorgono e s’estinguono in pochi attimi, sono insicuri. Non è questione di numeri. Una legge sarebbe sempre giusta e doverosa, se efficace contro feroci inadempienze, anche se poche. Sotto però, riflettendo ancora, potrebbe esserci l’intenzione di incidere sulla contrattazione collettiva e sui giudici. Per la contrattazione, oltre la vecchia e decrepita accusa d’incapacità dei sindacati, s’introdurrebbe la possibilità di utilizzare la legge per cercare di modificarne i contenuti ed anche i tipi, in particolare teorizzando “aiuti”. Rovesciando il sistema formulato dalla Direttiva 2022/2041, s’affermerebbe il principio della supremazia della legge sull’autonomia collettiva. Imponendo per legge un minimo retributivo fisso resta la sensazione, di sentimento più che di razionalità, che si voglia superare la discrezionalità dei giudici, per limitare se non eliminare le norme “indeterminate” dell’art. 36 Cost. difficilmente controllabili, anche se di grande efficacia. Si può criticare come venga usata, ma la discrezionalità è necessaria, come riaffermato dalla Corte costituzionale. La conclusione è con domanda retorica: come si fa a non aderire ad una proposta di garantire a tutti un minimo orario fisso essenziale e molto basso? Nessuno si potrà opporre, anche scontando l’equivoco di confondere i minimi contrattuali con le inadempienze. La conclusione è semplice e breve: un minimo fisso potrebbe costituire un livello essenziale delle prestazioni «concernenti i diritti civili e sociali» in base all’art. 117, comma 2, lett. m), della [continua ..]


NOTE