Cassazione civile, Sez. lav., 3 febbraio 2023, n. 3351 – Pres. Esposito – Rel. Patti
< >Come tutti i rapporti che non siano cessati prima della dichiarazione di fallimento, anche il rapporto di lavoro ancora in corso a tale data, salvo che sia autorizzato l'esercizio provvisorio, entra in una fase di sospensione, sicché il lavoratore non ha diritto di insinuarsi al passivo per le retribuzioni spettanti nel periodo compreso tra l'apertura del fallimento e la data in cui il curatore abbia effettuato la dichiarazione prevista dall’art. 72, comma 1, ult. parte legge fall., in quanto il diritto alla retribuzione non sorge in ragione dell’esistenza e del protrarsi del rapporto di lavoro ma presuppone, in conseguenza della natura sinallagmatica del contratto, la corrispettività delle prestazioni.
Qualora, il curatore fallimentare opti per lo scioglimento del rapporto, esso cessa per effetto, non già della dichiarazione di fallimento ex se, bensì, in presenza di un giustificato motivo oggettivo quale, come nel caso in esame, la cessazione dell'attività di impresa, per effetto dell’esercizio di una facoltà comunque sottoposta al rispetto delle norme limitative dei licenziamenti individuali e collettivi [massima non ufficiale].
<1. Le conseguenze del fallimento sui rapporti di lavoro - 2. Recesso e licenziamento nella liquidazione giudiziale - 3. La tutela applicabile al recesso illegittimo dal rapporto di lavoro sospeso - NOTE
Con la sentenza in epigrafe, decidendo su un caso ancora disciplinato dall’art. 72 della legge fallimentare [1], la Cassazione torna ad esprimersi sulla sorte dei rapporti di lavoro in seguito a sentenza dichiarativa di fallimento. Conformemente al proprio consolidato indirizzo [2], la Corte si è pronunciata nel senso della inesistenza di una regola di automatica risoluzione dei contratti di lavoro pendenti che, in quanto assoggettati alla medesima disciplina prevista dall’art. 72 cit. per la generalità dei rapporti giuridici, entrano invece in stato di sospensione. Nel ragionamento della Corte – sul punto conforme alla dottrina maggioritaria [3] – da un lato “il fallimento, non comportando la cessazione dell’impresa, non implica la necessaria cessazione dei rapporti di lavoro né per impossibilità sopravvenuta né per giusta causa” [4]; dall’altro il temporaneo venire meno dei reciproci obblighi contrattuali, non consente al lavoratore di invocare l’eccezione di inadempimento per il pagamento della retribuzione. Diretta conseguenza della prosecuzione dei rapporti di lavoro è la possibilità per il curatore di risolvere i contratti al necessario ricorrere delle medesime causali previste dalla generale disciplina sui licenziamenti individuali e collettivi. L’argomento in tal senso generalmente condiviso in dottrina e giurisprudenza, è quello per cui il comma 2 dell’art. 2119 c.c., nell’escludere che il fallimento integri una ipotesi di giusta causa di licenziamento, per altro verso non impone la necessaria continuazione dei rapporti di lavoro, con conseguente possibilità di recesso per motivo oggettivo o per licenziamento collettivo [5]. Sebbene relativo ad una fattispecie oggi diversamente normata, l’orientamento ribadito in sentenza offre possibili spunti di interpretativi anche all’ipotesi della liquidazione giudiziaria che, nonostante l’articolato sistema normativo, presenta un quandro ancora meno intellegibile di quanto non fosse la disciplina elaborata dalla giurisprudenza sull’abrogato testo normativo [6].
Il comma 1 dell’art. 189 d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 (in attuazione della legge 19 ottobre 2017, n. 155), mantenendo ferma la struttura di fondo dell’art. 72, legge fall., prevede che: “l’apertura della liquidazione giudiziale […] non costituisce motivo di licenziamento. I rapporti di lavoro subordinato in atto alla data della sentenza dichiarativa restano sospesi fino a quando il curatore, con l’autorizzazione del giudice delegato, sentito il comitato dei creditori, comunica ai lavoratori di subentrarvi, assumendo i relativi obblighi, ovvero il recesso”. Con la dichiarazione di insolvenza, il rapporto di lavoro entra quindi in fase di sospensione non retribuita (e senza accredito di contribuzione), in attesa delle scelte del curatore in merito al subentro nei rapporti negoziali. Alle diverse determinazioni del curatore, i successivi commi dell’art. 189 cit., ricollegano conseguenze affatto differenti quanto alla disciplina dei rapporti di lavoro e alla loro eventuale cessazione [7]. In caso di subentro, il curatore assume ad ogni effetto, ma con efficacia ex nunc (art. 189, comma 2, secondo periodo), la qualità di datore, con conseguente assoggettamento dei rapporti subentrati alla intera disciplina lavoristica, ivi inclusa (art. 189, comma 9, legge cit.) quella in materia di licenziamenti individuali e collettivi. Nell’ipotesi in cui, invece, il curatore non abbia assunto alcuna determinazione nei successivi quattro mesi, è prevista (art. 189, comma 3, cit.) la risoluzione di diritto dei rapporti di lavoro. I quattro mesi – prorogabili, su approvazione del giudice delegato di ulteriori otto [8] – rappresentano il termine massimo entro il quale è possibile per il lavoratore conoscere le proprie sorti, senza dover ricorrere alla messa in mora prevista dalla precedente normativa in materia di fallimento [9]. In pendenza del predetto termine, con soluzione innovativa rispetto alla precedente disciplina, il comma 3 dell’art. 189 cit. riconosce al curatore il potere-dovere di risoluzione anticipata qualora accerti che “non sia possibile la continuazione o il trasferimento dell’azienda o di un suo ramo o comunque sussistano manifeste ragioni economiche inerenti l’assetto dell’organizzazione del lavoro”. La diversa formulazione letterale del comma 3 dell’art. 189 rispetto a quella del successivo comma 9 (che [continua ..]
La circostanza per cui i rapporti di lavoro, nella fase di pendenza delle deliberazioni del curatore, siano sottratti alla ordinaria disciplina sui licenziamenti, pone il quesito della sanzione applicabile al caso di esercizio illegittimo del potere di recesso da parte del curatore. Deve infatti ritenersi che la specificità della causale giustificativa prevista dal comma 3 dell’art. 189, non consenta di ricondurre la sua eventuale violazione nell’ambito della disciplina dei rimedi per i licenziamenti illegittimi. Ed invero, se l’applicazione del consolidato ma controverso [21] principio del parallelismo delle tutele [22] potrebbe far propendere per l’applicazione delle sanzioni d’area lavoristiche, è pur vero che le ragioni sottese a questa ipotesi di cessazione, rendono preferibile l’adozione dei rimedi di diritto comune, sanzionando la violazione della norma imperativa con la ricostituzione del rapporto. Se infatti la sospensione è prevista per accordare al curatore un congruo termine per valutare la possibilità di ripresa dell’attività lavorativa anche mediante il trasferimento dell’azienda o di un suo ramo, sarebbe vanificata qualunque chances occupazionale (anche nel senso della semplice “continuità materiale” del rapporto [23]) per il lavoratore che non potesse accedere ad una tutela conformativa a cagione dell’assenza del requisito numerico utile per l’accesso alla tutela reale. E ciò, ancor più tenuto conto dell’assenza di costi per la liquidazione giudiziale durante la fase di sospensione (almeno in assenza di proroga) e della possibilità che i rapporti si risolvano comunque automaticamente allo spirare del termine di legge. La nullità di diritto comune sembra peraltro maggiormente rispettosa delle esigenze della procedura anche con riferimento alle aziende rientranti nell’area della tutela reale, in quanto scollegata dalla sanzione minima delle 5 mensilità, foriera di costi per la procedura e poco sensata nel caso di sospensione del sinallagma contrattuale in esame. Soluzione questa che, invero, sembra doversi estendere anche al rapporto di lavoro dirigenziale. Per questa categoria di lavoratori, infatti, l’esclusione della disciplina legale in materia di licenziamenti non può essere intesa nel senso della sopravvivenza in loro favore di quella [continua ..]