L’autore analizza i vari recenti segnali regolativi che testimoniano l’improcrastinabilità di una piena realizzazione del diritto alla formazione permanente, specie in un momento come quello attuale, determinato dalle criticità derivanti dal mix tra quarta rivoluzione industriale e pandemia. In particolare, vengono esaminate le novità introdotte dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, dal Fondo Nuove Competenze, nonché da alcuni recenti interventi dell’autonomia collettiva.
The author analyzes the various recent regulatory signals that testify to the non-postponement for a relaunch of lifelong learning, especially at a critical moment like the current one, determined by the problems arising from the mix between the fourth industrial revolution and the pandemic. In particular, the essay examines the innovations introduced by the National Recovery and Resilience Plan, by the “Fondo Nuove Competenze”, as well as by some recent collective agreements.
Keywords: Lifelong learning – skills and competences – employability – citizenship.
1. La formazione permanente come fattore imprescindibile di un nuovo modello di sviluppo, oltre che come chiave per l’occupabilità e per l’inclusione sociale e civica - 2. Segue: la necessità di porre rimedio ai ritardi nella piena concretizzazione del diritto alla formazione - 3. La consapevolezza della necessità di un rilancio del sistema duale, per un apprendimento orientato al lavoro - 4. Il potenziamento organizzativo dei Centri per l’impiego - 5. Segue: il nodo della individuazione, della validazione e della certificazione delle competenze - 6. Il reddito di cittadinanza ed i riflessi sul piano della formazione del lavoratore - 7. La tradizionale sensibilità delle parti collettive per la formazione continua degli occupati - NOTE
Il profondo ed irreversibile processo di trasformazione del lavoro che la rivoluzione digitale ha generato (e che la pandemia ha drammaticamente accelerato) pone ancora una volta all’ordine del giorno, quasi come una sorta di “ultima chiamata”, l’importanza della formazione permanente del lavoratore. Il poter disporre di un adeguato ed efficace sistema di formazione dei lavoratori costituisce addirittura una delle “precondizioni dello sviluppo” economico e sociale [1], nella prospettiva di creare solide basi per un lavoro di qualità, realmente competitivo, proiettato verso il futuro [2], capace di favorire “lo sviluppo delle professionalità e la valorizzazione delle differenze” [3]. Nel tempo ha preso forma la piena consapevolezza (anche politica) del fatto che “il nuovo paradigma produttivo (…) crea nuove figure professionali e richiede competenze costantemente aggiornate”, le quali si possono creare soltanto “attraverso interventi pubblici tesi a rafforzare il sistema di istruzione, quello della formazione professionale nonché l’armonizzazione tra accumulazione di conoscenze e lavoro” [4], auspicandosi addirittura l’implementazione, in un futuro prossimo, di meccanismi promozionali che prevedano il rimborso delle spese sostenute dalle imprese per formare i propri dipendenti [5]. È, da ultimo, perfetta testimonianza di questo spirito che aleggia ormai in modo diffuso, la particolare enfasi che pone sulla formazione il recente Patto Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), presentato al Parlamento nell’aprile 2021, oltre che l’istituzione del Fondo Nuove Competenze, avvenuta con il decreto n. 34 del 2020 (il cosiddetto Decreto Rilancio). Nel PNRR si sottolinea l’impegno del Governo: “ad accompagnare la trasformazione del mercato del lavoro con adeguati strumenti che facilitino le transizioni occupazionali; a migliorare l’occupabilità dei lavoratori; a innalzare il livello delle tutele attraverso la formazione”. In particolare gli obiettivi strategici che il Piano si propone sono: innanzi tutto, l’aumento del tasso di occupazione, facilitando le transizioni lavorative e dotando le persone di una formazione adeguata; la riduzione del cosiddetto mismatch di competenze, vale a dire del disallineamento tra le competenze offerte dal lavoratore e le competenze [continua ..]
La sfida epocale alla quale ci troviamo dinanzi fa, insomma, assumere oggi al nodo della formazione – invero ormai annoso nel dibattito lavoristico – il sapore dell’indifferibilità, se non addirittura, come è stato detto, della urgenza [14]. La dottrina lavoristica già negli anni Ottanta rilevava come l’innovazione tecnologica avrebbe implicato la necessità di una formazione continua del lavoratore, al fine di scongiurare una rapida obsolescenza professionale, tanto che doveva ritenersi che la formazione dovesse penetrare, da quel momento in poi, nello schema causale del contratto di lavoro standard, al fine di tutelare nel tempo la professionalità e le effettive chance occupazionali del dipendente [15]. Si è trattato di suggestioni ricostruttive importanti e cariche di significative potenzialità; suggestioni che, per quanto non pienamente raccolte dal mainstream, già davano conto della centralità del tema e che dimostrano come da tempo i più attenti filoni dottrinali avessero maturato la piena consapevolezza della crucialità della formazione per il buon andamento e la fluidità del mercato del lavoro, argomento oggetto, tra l’altro, del Congresso AIDLaSS del 2006, di Santa Margherita di Pula [16]. Tuttavia, in questi anni, il quadro regolativo nazionale è stato dominato, come è noto, da una persistente incapacità di concretizzare in modo organico, sul piano applicativo, le evidenze cui era pervenuta la dottrina, con riguardo al tema della formazione permanente. Beninteso, non senza rilevanti eccezioni. Si pensi, innanzi tutto, alla previsione di un preciso (benché inedito) obbligo formativo previsto dall’attuale formulazione dell’art. 2013 c.c. – come risultante dalla novellazione attuata con il Jobs Act – a fronte del mutamento di mansioni, esattamente nel segno dell’arricchimento della struttura causale del contratto di cui si è appena detto. E si pensi, qualche anno prima, al regime favorente, con varie tecniche, la formazione continua attraverso il riconoscimento di un ricco catalogo di opzioni, giocate attraverso l’azione sia pubblica che privata e corrispondente ad un’autonoma scelta del lavoratore ovvero alla iniziativa aziendale, attraverso i piani formativi d’impresa o territoriali concordati tra le parti sociali. Qui [continua ..]
Una delle principali concause della difficoltà del legislatore di incidere in modo efficace sulla materia della formazione è stata certamente rappresentata dalle ben note criticità che accompagnano il giovane, nel delicato passaggio dal mondo dell’apprendimento a quello del lavoro [23]. Benché, a stretto diritto, il tema della formazione continua non vada confuso con quello – solo in parte omologo – della relazione tra formazione ed inserimento professionale [24], va da sé che i due temi si pongono in strettissima correlazione e non possono essere considerati isolatamente [25]. Il sistema duale, nelle sue varie declinazioni tipologiche, ha scontato in Italia pesanti ritardi nella regolazione ed inefficienze tanto gravi da comprometterne fino ad oggi un effettivo decollo. Non è questa, evidentemente, la sede per ripercorrere le ragioni che stanno a monte. È tuttavia fuori discussione e sotto gli occhi di tutti che, su questo fronte, è necessario un cambiamento di rotta, realizzabile attraverso un potenziamento dell’alternanza scuola-lavoro e dei tirocini formativi, da un lato e del contratto di apprendistato, dall’altro, al fine di sfruttare le potenzialità in termini di sviluppo educativo e professionale dei giovani che possono derivare da una sinergia tra Scuola, Università e Impresa [26]. In questa specifica prospettiva, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) ha elaborato un progetto con l’obiettivo di potenziare il sistema duale, “al fine di rendere i sistemi di istruzione e formazione più in linea con i fabbisogni del mercato del lavoro, nonché di promuovere l’occupabilità dei giovani e l’acquisizione di nuove competenze (approccio “learning on-the-job”), soprattutto nelle aree più marginali e periferiche”. In particolare, tale progetto “promosso nel più ampio contesto del Piano Nazionale Nuove Competenze, mira a favorire l’introduzione e lo sviluppo di corsi di formazione che rispondano alle esigenze delle imprese e del tessuto produttivo locale, riducendo così il mismatch tra le competenze richieste dal mercato del lavoro e i programmi formativi del sistema di istruzione e formazione” [27]. Viene così ribadita con chiarezza l’esigenza di rafforzare il profondo legame che deve [continua ..]
Un altro importante macro-obiettivo individuato dal Piano di Ripresa e Resilienza (PNRR) è costituito dal rafforzamento del sistema dei Centri per l’impiego. Si tratta di una linea di intervento intimamente connessa con il tema della formazione, al fine di favorire “processi di miglioramento dell’offerta di servizi di qualità, analisi dei fabbisogni di competenze, definizione di piani formativi individuali, servizi efficaci di accoglienza, orientamento e presa in carico” [32]. È questo, tra l’altro, un profilo nel segno della continuità con la legislazione precedente: sul punto, infatti, era già intervenuto, come noto, il cosiddetto Decreto Dignità, attraverso la previsione della destinazione di quote delle facoltà assunzionali delle regioni all’operatività dei Centri per l’impiego, allo scopo di rafforzarne l’organico [33]. In particolare, il PNRR evidenzia l’importanza di promuovere “interventi di capacity building a supporto dei Centri per l’Impiego, con l’obiettivo di fornire servizi innovativi di politica attiva, anche finalizzati alla riqualificazione professionale (upskilling e reskilling), mediante il coinvolgimento di stakeholder pubblici e privati, aumentando la prossimità ai cittadini e favorendo la costruzione di reti tra i diversi servizi territoriali” [34]. La ricollocazione e la riconversione professionale esigono infatti un adeguato percorso formativo, che sia congruente con le specificità del singolo soggetto da reinserire nel mercato del lavoro e le esigenze delle imprese. I Centri per l’impiego, proprio in questa prospettiva, procedono ad una presa in carico del singolo soggetto e ad una sua profilazione per analizzare quanto esso sia occupabile [35], così svolgendo una funzione fondamentale di indirizzo al lavoro. A questo riguardo, tra l’altro, il PNRR prevede l’istituzione di un programma nazionale denominato GOL (Garanzia di Occupabilità dei Lavoratori), il quale comporta un sistema di presa in carico unico dei disoccupati e delle persone in transizione occupazionale (percettori di RdC, NASPI, CIGS) [36]. Il XIX Rapporto sulla formazione continua presentato dall’ANPAL nel 2020 sottolinea, del resto, come la persona priva di lavoro debba assumere un ruolo proattivo al fine del reinserimento nel mercato del lavoro, [continua ..]
Una questione cruciale, strettamente correlata al tema del potenziamento dei Centri per l’impiego, è quella della validazione e della certificazione delle competenze acquisite dal lavoratore, all’esito di un determinato percorso di formazione. La materia, come noto, è stata disciplinata dall’art. 4, commi 51 ss., della legge n. 92/2012, nonché dal d.lgs. n. 13/2013 [39]. Tali provvedimenti hanno previsto la creazione di un sistema pubblico nazionale di certificazione delle competenze, che consenta al singolo di ottenere il formale riconoscimento delle competenze acquisite in contesti formali, non formali e informali. Ciò per far sì che i lavoratori possano vedersi riconosciute le competenze maturate, per poi spenderle nel mercato del lavoro in modo adeguato, con le conseguenti ricadute generali in termini di positività sull’effettiva occupabilità dei lavoratori, da un lato e sulla competitività del sistema economico-produttivo e delle imprese, dall’altro lato [40]. I ritardi di questi anni nella realizzazione di un sistema nazionale di certificazione delle competenze hanno pregiudicato fortemente l’efficacia delle azioni di ricollocazione dei disoccupati, il che – unito alle difficoltà che hanno rallentato la messa in atto del fascicolo elettronico del lavoratore e del sistema informativo unitario – ha fatto emergere l’importanza di dare seguito quanto prima al d.lgs. n. 13/2013. In particolare, il fascicolo elettronico del lavoratore è stato introdotto, come noto, dall’art. 14 del d.lgs. n. 150/2015, in sostituzione del libretto formativo del cittadino, nel quale dovevano essere registrate “la formazione specialistica e la formazione continua svolta durante l’arco della vita lavorativa ed effettuata da soggetti accreditati dalle regioni, nonché le competenze acquisite in modo non formale e informale secondo gli indirizzi dell’Unione europea in materia di apprendimento, purché riconosciute e certificate” [41]. L’art. 14 del decreto n. 150 prevede che le “informazioni del sistema informativo unitario delle politiche del lavoro costituiscono il patrimonio informativo comune del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, dell’INPS, dell’INAIL, dell’ISFOL, delle regioni e province autonome, nonché dei centri per [continua ..]
Il tema della formazione si lega indissolubilmente all’istituto del reddito di cittadinanza, obiettivo che il legislatore si è posto come mezzo di contrasto alla povertà [50]. A questo proposito, una prima connessione, relativa al tema della formazione, viene ad emersione con riguardo al principio della condizionalità [51]. L’introduzione del reddito di cittadinanza ha avuto, tra i propri vari scopi, il fatto di costituire un incentivo a rientrare nel mercato del lavoro, attraverso anche l’eventuale previsione di un percorso formativo vincolante [52]. D’altra parte, ciò è perfettamente conforme al c.d. active inclusion approach di derivazione europea, secondo cui “quasi tutti i legislatori hanno (…) previsto doverosi comportamenti attivi dei beneficiari” di un determinato diritto sociale, come, appunto, l’obbligo “di accettazione di offerte di lavoro e/o di partecipazione a programmi di formazione e di reinserimento sociale e/o professionale” [53]. In questa direzione, l’art. 7, comma 5, lett. c), del d.l. n. 4/2019, convertito nella legge n. 26/2019, ha previsto come causa di decadenza dal reddito di cittadinanza il fatto di non partecipare, in assenza di giustificato motivo [54], alle iniziative di carattere formativo o di riqualificazione proposte al soggetto [55]. Si tratta – come noto – di una soluzione tutt’altro che inedita, elaborata fin dai tempi dell’indennità di mobilità, nell’ambito della legge n. 223/1991, il cui art. 9, comma 1, lett. a), sanciva, appunto, la cancellazione dalla lista di mobilità e la decadenza dai trattamenti per il lavoratore che rifiutasse “di essere avviato ad un corso di formazione professionale autorizzato dalla Regione” o che non lo frequentasse regolarmente. La stessa cosa, del resto, è valsa per il reddito di inclusione. Tale reddito – attivo, fino al 31 marzo 2019 [56], a fronte di una situazione di marginalità – implicava che i servizi sociali che si prendevano in carico le persone in difficoltà proponessero loro un percorso di formazione per uscire dalla marginalità. Con l’intesa che la mancata partecipazione, in assenza di giustificato motivo, alle iniziative di carattere formativo o di riqualificazione comportava anche in questo contesto la decadenza dal [continua ..]
A fare da controaltare rispetto alle criticità evidenziate, non può non farsi almeno un cenno, in chiusura, alla grande attenzione che le parti collettive hanno da sempre dedicato al tema della formazione permanente [59]. D’altra parte, a ben vedere, a maggior ragione in un contesto in così profonda trasformazione come quello attuale, l’autonomia collettiva è la sola a poter essere in grado di dare “le risposte puntuali ed adattabili per i vari settori” che le diverse specificità esigono [60]. Il tema è talmente ampio da non consentire, ovviamente, in questa sede, una trattazione adeguata. Ma almeno un paio di considerazioni paiono doverose. Un primo riferimento è alle forme di welfare aziendale che – tra le più ampie e diverse tipologie declinate [61] – paiono ammettere anche iniziative di formazione permanente [62], realizzando quindi un’operazione win-win, dove alla riduzione del cuneo fiscale si somma il doppio vantaggio della convergenza di interessi: il lavoratore guadagna in competenza e, quindi, occupabilità; mentre l’impresa si avvantaggia della crescita professionale. L’evoluzione del cosiddetto “secondo welfare”, dunque, si combina perfettamente con le esigenze determinate dalla “trasformazione profonda del modo di lavorare e del modo di fare impresa, connessa alla rivoluzione tecnologica” [63], il che mette perfettamente in risalto il sistema di sinergie che scelte di questo genere sono in grado di generare. D’altra parte, è fuori di ogni dubbio che il welfare riguarda “il generale benessere delle persone e della società”, non soltanto “con riferimento ai rischi sociali e ai bisogni ad essi collegati come la salute, (…) il reddito in età anziana, la disabilità e l’assistenza sociale”, ma anche in relazione all’occupazione e alla correlativa esigenza di formazione, lungo l’intero l’arco della vita professionale [64], di cui si fanno al contempo portatori i lavoratori, da un lato, ma anche le imprese, dall’altro. Una seconda considerazione da fare, poi, riguarda i fondi paritetici interprofessionali per la formazione [65]. La bilateralità di questo specifico contesto fa emergere ancora una volta lo stretto legame con il tema del welfare aziendale appena esaminato. [continua ..]