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La Cassazione sul caso Foodora
Adalberto Perulli
Il saggio passa in rassegna critica i principali punti della sentenza Cass. n. 1663/2020 sul caso Foodora. La sentenza afferma che l’art. 2, d.lgs. n. 81/2015 è una “norma di disciplina” e che ha una funzione antifraudolenta. Questi argomenti vengono contestati. Viene invece apprezzato l’orientamento della Corte circa il distinguo tra etero-organizzazione e coordinamento (art. 409, n. 3, c.p.c.), così come la distinzione, invero poco chiara, con il potere di direzione del datore di lavoro e la fattispecie di subordinazione.
The essay reviews the main points of the Cassation sentence n. 1663/2020 on the Foodora case. The ruling states that art. 2 of Legislative Decree n. 81/2015 is a “disciplinary rule” and which has an anti-fraudulent function. These arguments are disputed. Instead, the Court’s orientation on the distinction between hetero-organization and coordination (art. 409, n. 3, Code of Civil Procedure) is appreciated, as well as the distinction, indeed unclear, with the employer’s management power and the subordination cases.
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Sommario:
1. Una sentenza concettualmente debole - 2. La tesi della norma elusiva e rimediale - 3. Una ridda di concetti senza 'filo conduttore' - 4. L'inconsistenza giuridica del concetto 'norma di disciplina' - 5. L'organizzazione 'anche' con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro - 6. Etero-organizzazione versus potere direttivo - 7. Etero-organizzazione versus coordinamento - 8. Non esiste un 'terzo genere'? - 9. La disciplina 'ontologicamente incompatibile' - NOTE
1. Una sentenza concettualmente debole
Dopo che il caso Foodora, aprendo una nuova frontiera del diritto del lavoro all’epoca delle piattaforme digitali, aveva rilanciato la valenza operativa di una norma tanto dibattuta teoricamente quanto irrilevante sul piano applicativo, ci si attendeva dalla Cassazione una sentenza di spessore dogmatico. È giunto invece un arresto debole ed interlocutorio, che apre più questioni di quelle che intende risolvere. Ciò che è mancato non è la conferma (o meno) della pronuncia con cui la Corte d’Appello di Torino, capovolgendo il ragionamento del Tribunale, escludeva la tesi, invero insostenibile, della “norma apparente”, quanto un più approfondito vaglio delle questioni di diritto che, in apicibus, interessano il dibattito dottrinale sulla natura della norma, sulla sua collocazione nello scacchiere tipologico, sulle necessarie distinzioni con le fattispecie contermini (subordinazione ex art. 2094 c.c. e collaborazioni coordinate e continuative ex art. 409, n. 3, c.p.c.), sino alla questione del significato da attribuire alla prevista estensione della disciplina del rapporto di lavoro subordinato ai casi riconducibili all’art. 2, comma 1. Su tutte queste rilevanti questioni la Corte ha sostanzialmente mancato di prendere una posizione argomentata e strutturata, tale comunque da far apprezzare uno sforzo ermeneutico volto in una direzione piuttosto che in un’altra.
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2. La tesi della norma elusiva e rimediale
La Corte di Cassazione, dopo aver succintamente richiamato le diverse tesi “accademiche”, ha sostanzialmente evitato di confrontarsi con esse, adottando una specie di scorciatoia concettuale ed affidandosi alla qualificazione della norma come “anti-elusiva” e “rimediale”. Una volta identificata la ratio anti-fraudolenta e rimediale della norma, l’art. 2 viene concepito come una “norma di disciplina”, onde non avrebbe più senso decisivo “interrogarsi sul se tali forme di collaborazione ... siano collocabili nel campo della subordinazione ovvero dell’autonomia” (punto 25). L’affermazione della Corte lascia alquanto interdetti, sia per l’impiego di termini inconsueti e giuridicamente discutibili (in particolare quello di “norma di disciplina”, sulla cui inconsistenza dogmatica poi diremo), sia per l’affermazione, invero assai problematica in un sistema ancora ordinato per tipi contrattuali, sulla perdita di senso della qualificazione dei rapporti nell’ambito, appunto, delle diverse fattispecie negoziali che compongono il nostro diritto contrattuale [1]. Analizziamo più da vicino i due concetti chiave di questa ricostruzione. Secondo la Corte in un’ottica “di prevenzione”, il legislatore avrebbe inteso scoraggiare «l’abuso di schermi contrattuali che a ciò si potrebbero prestare», selezionando «taluni elementi ritenuti sintomatici ed idonei a svelare possibili fenomeni elusivi delle tutele previste per i lavoratori». In ogni caso il legislatore avrebbe poi «stabilito che quando l’etero-organizzazione, accompagnata dalla personalità e dalla continuità della prestazione, è marcata al punto da rendere il collaboratore comparabile ad un lavoratore dipendente, si impone una protezione equivalente e, quindi, il rimedio dell’applicazione integrale della disciplina del lavoro subordinato» (punto 26). In sostanza la Corte individua nella disposizione in esame una scelta di politica legislativa «volta ad assicurare al lavoratore la stessa protezione di cui gode il lavoro subordinato ... al fine di tutelare prestatori evidentemente ritenuti in condizione di “debolezza” economica, operanti in una “zona grigia” tra autonomia e [continua ..]
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3. Una ridda di concetti senza 'filo conduttore'
Il discorso condotto dalla Corte appare molto problematico per l’impiego di cinque “concetti” che vengono con molta disinvoltura impiegati e “mescolati” fra loro nella (invero stringatissima) motivazione. I concetti sono i seguenti: “norma antielusiva”, “ottica rimediale”, debolezza economica, norma di disciplina, “zona grigia”. Questi concetti sono incoerenti fra loro e il loro impiego, senza l’accortezza di individuare un fil rouge unificante, rischia di creare più confusione che “orientamento nel pensiero”. Partiamo dalle nozioni di norma antielusiva e di norma rimediale, che sono – com’è intuitivo – tra loro strettamente correlati. Una norma “antielusiva” è un disposto volto a contrastare atti diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento; nel nostro caso l’impiego di tale concetto non può avere altro significato che indicare una norma finalizzata ad evitare il fraudolento aggiramento/disapplicazione della disciplina, imperativa ed indisponibile, propria della fattispecie di subordinazione (art. 2094 c.c.). Quindi, se l’art. 2, comma 1, fosse davvero una norma antielusiva, l’elusione contrastata dal disposto consisterebbe necessariamente nella disapplicazione, da parte del committente, della disciplina del rapporto di lavoro subordinato a fronte di una fattispecie dissimulata di subordinazione. Questa conclusione è strettamente necessaria sotto il profilo logico-giuridico. Infatti, salvo incorrere in una vistosa contraddizione logica, non si potrebbe definire elusione fraudolenta la disapplicazione della disciplina tipica del rapporto di lavoro subordinato nei confronti di una fattispecie concreta che non è riconducibile a subordinazione. In sostanza, se l’art. 2, comma 1, fosse una norma antielusiva (e rimediale) sarebbe finalizzata a contrastare un fenomeno di elusione delle normativa di subordinazione. Ma se così fosse, bisognerebbe ulteriormente dedurne che l’art. 2 è una norma rimediale che opera qualora si realizzi una fraudolenta disapplicazione della disciplina di subordinazione in casi concreti caratterizzati da indici tipici e significativi di subordinazione. Altrimenti ragionando, infatti, [continua ..]
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4. L'inconsistenza giuridica del concetto 'norma di disciplina'
Se l’art. 2 descrive una fattispecie caratterizzata da elementi tipici al ricorrere dei quali si producono determinati effetti giuridici, è errato qualificarla come una “norma di disciplina” (punti 25 e 39). Peraltro, l’enunciato “norma di disciplina” è tautologico, e, sul piano giuridico-normativo, esprime un vero e proprio non senso [4]. Una “disciplina” è per definizione un “complesso di norme” riferite ad un istituto, che si declina nell’ambito di determinati settori dell’ordinamento giuridico. Una norma non può essere “di” disciplina, perché è essa stessa, nel suo contenuto regolamentare, una “disciplina”; ma questa regolamentazione, prevista in astratto dalla norma, diventa applicabile solo al ricorrere di determinate condizioni, che chiamiamo appunto condizioni o “requisiti di fattispecie”. Come abbiamo già rilevato, l’art. 2 è una norma che descrive una fattispecie astratta, caratterizzata da alcuni elementi tipici (rectius, sovra-tipici, nel senso spiegato retro): una prestazione di lavoro, continuativa, prevalentemente personale, organizzata dal committente. Come si può sostenere che questa norma, contenente queste condizioni di applicabilità, non descriva una fattispecie? Su questo punto il ragionamento della Corte risulta davvero incomprensibile. Nel caso dell’art. 2, comma 1, i rammentati requisiti di fattispecie sono elementi tipologici in presenza dei quali una fattispecie concreta viene sussunta nell’ambito della fattispecie astratta (sovra-tipica), in vista dell’effetto. Come insegna la migliore dottrina, è attraverso la fattispecie che si contribuisce, per il medium del metodo sussuntivo, ad «individuare la sezione di realtà sociale determinata dalla norma come proprio ambito operativo, e quindi i problemi ai quali la norma intende rispondere» [5]. Del resto, la stessa Corte riconosce che tali elementi di fattispecie sono «sufficienti a giustificare l’applicazione della disciplina del rapporto di lavoro subordinato» (punto 24). Se ne deve dedurre che laddove questi elementi di fattispecie non ricorrono, nessuna “disciplina” troverà applicazione ex art. 2. È ovviamente fatta [continua ..]
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5. L'organizzazione 'anche' con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro
La Corte affronta il problema del significato da attribuire all’etero-organizzazione «anche con riferimento ai tempi e ai luogo di lavoro». L’intervenuta soppressione delle parole «anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro» ad opera della legge n. 128/2019 ha fortemente ridimensionato l’importanza pratica della questione, senza far perdere ad essa un rilievo sistematico complessivo in ordine alla corretta ricostruzione e collocazione dell’art. 2, comma 1, nell’ambito del nostro sistema di diritto positivo. Vale rilevare come la nuova formulazione adottata dal legislatore è in sintonia con l’interpretazione che era stata da me formulata secondo la quale l’art. 2 ha una portata ampliativa (e non meramente confermativa, o addirittura restrittiva) del campo di applicazione delle tutele giuslavoristiche, attraverso una tecnica di assimilazione di figure lavorative autonome al prototipo del lavoro subordinato [6]. Sopprimendo il riferimento ai tempi e al luogo di lavoro si elimina in radice quel possibile fraintendimento che aveva condotto una parte della dottrina a ritenere che le prestazioni etero-organizzate di cui all’art. 2, comma 1, ritagliassero un ambito applicativo della disciplina del lavoro subordinato addirittura più ristretto rispetto a quello della fattispecie di subordinazione, fornendo in tal modo una ricostruzione paradossale della norma, contraria alla propria ratio legis. Questa interpretazione ha oggi l’avvallo della Corte di Cassazione, la quale ha chiarito che «se è vero che la congiunzione “anche” potrebbe alludere alla necessità che l’etero-organizzazione coinvolga i tempi e modi della prestazione, non ritiene tuttavia la Corte che dalla presenza nel testo di tale congiunzione si debba far discendere tale inevitabile conseguenza» (punto 34). Come dire che il riferimento ai tempi e al luogo di lavoro esprime solo «una possibile estrinsecazione del potere di etero-organizzazione, con la parola “anche” che assume valore esemplificativo» (punto 35).
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6. Etero-organizzazione versus potere direttivo
La Corte di Cassazione, pur nell’ambito di osservazioni molto stringate e sostanzialmente “elusive” del nodo teorico posto dal tessuto normativo in esame, si riferisce al potere di etero-organizzazione di cui all’art. 2, comma 1, come prerogativa autonoma e distinta dal potere di etero-direzione, confermando, nella sostanza, quelle visioni dottrinali che distinguono tale posizione giuridica soggettiva del committente dal tipico “potere direttivo” del datore di lavoro. Con l’introduzione delle collaborazioni etero-organizzate dal committente ad opera dell’art. 2, comma 1, l’interprete che non intenda negare il diritto positivo è tenuto a prendere atto di questa necessaria distinzione, calibrando di conseguenza la propria attività ricostruttiva. È ciò che ha fatto sul piano metodologico la Cassazione nel caso Foodora laddove, rigettando la tesi della “norma apparente”, ha affermato che «i concetti giuridici, in specie se direttamente promananti dalle norme, sono convenzionali, per cui se il legislatore ne introduce di nuovi l’interprete non può che aggiornare l’esegesi a partire da essi» (punto 17). Orbene, l’introduzione dell’etero-organizzazione di cui all’art. 2, comma 1, come concetto di diritto positivo ulteriore e diverso dal potere direttivo previsto dall’art. 2094 c.c., impone necessariamente un’opera di rivisitazione del concetto di etero-direzione, il quale, ammesso e non concesso che abbia mai avuto nell’interpretazione dottrinale e nel diritto vivente una valenza “organizzativa”, dovrà essere re-interpretato in modo tale da non esaurirlo nel dato dell’organizzazione delle modalità esecutive della prestazione di lavoro; e ciò per la semplice, ma decisiva, circostanza che quel dato è un elemento tipologico di una diversa fattispecie, irriducibile a quella dell’art. 2094 c.c. Infine la Cassazione, quando esplicita il significato dell’etero-organizzazione, parla di un “inserimento” e di una “integrazione” della prestazione con l’organizzazione di impresa (punto 32), vale a dire elementi del tutto conformi a quanto la giurisprudenza affermava con riferimento alle collaborazioni coordinate e continuative ex art. 409, [continua ..]
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7. Etero-organizzazione versus coordinamento
Nell’ambito della complessiva ricostruzione dei nessi tipologici che distinguono, accomunandole, le fattispecie del lavoro etero-organizzato dalle collaborazioni coordinate e continuative, la dottrina ha debitamente valorizzato l’innovativa disposizione dell’art. 15, legge n. 81/2017, la quale, in modo ormai inequivocabile, ha collocato il coordinamento all’interno di un programma negoziale stabilito di comune accordo dalle parti, diversamente dalla prerogativa unilaterale di organizzazione delle modalità esecutive della prestazione di cui all’art. 2, comma 1. I cardini di questa tesi sono accolti dalla Corte di Cassazione, la quale, una volta ricondotta la etero-organizzazione ad «elemento di un rapporto di collaborazione funzionale con l’organizzazione del committente», evidenzia «la differenza rispetto ad un coordinamento stabilito di comune accordo dalle parti che, invece, nella norma in esame, è imposto dall’esterno, appunto etero-organizzato» (punto 32; lo stesso concetto è ribadito al punto 53). Questa conclusione non è controvertibile sulla base di interpretazioni volte a consentire di “reintrodurre” un potere unilaterale di coordinamento, vuoi attraverso una equiparazione tra coordinamento ed organizzazione, vuoi limitando tale prerogativa del committente alla sola specificazione del risultato convenuto e non anche alle modalità esecutive dell’attività funzionali all’adempimento [7].
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8. Non esiste un 'terzo genere'?
La Corte di Cassazione non ritiene di inquadrare la fattispecie di cui all’art. 2, comma 1, in un genere intermedio tra autonomia e subordinazione, «con la conseguente esigenza di selezionare la disciplina applicabile». In effetti l’impiego del concetto di terzo genere o di “categoria intermedia”, molto in uso nel dibattito internazionale, non ha mai attecchito nella ricostruzione dottrinale italiana; basti pensare al tema della parasubordinazione, che è sempre stata concepita vuoi come categoria meramente processuale, vuoi come sub-categoria del lavoro autonomo. In una logica tipologica e per grandi categorie di inquadramento concettuale, non v’è dubbio che le collaborazioni etero-organizzate di cui all’art. 2, comma 1, rientrano nell’ampio genus del lavoro indipendente. Tuttavia, quel genus denominato “lavoro autonomo”, già nella sua topografia codicistica, appare come un universo composito e plurale, in cui le stesse componenti basiche della categoria (assenza di subordinazione, autonomia esecutiva ed organizzativa, assunzione del rischio dell’attività, continuità o meno della prestazione, “dipendenza economica” rispetto al committente) sono modulate e differenziate in ragione di una dispersione tipologica che colloca i relativi rapporti lungo un continuum di intensità crescente (dalla disciplina generale del Libro V alle fattispecie tipiche del Libro IV sino a quelle sovra-tipiche dell’art. 409, n. 3, c.p.c. e dell’art. 2, comma 1). Nell’ambito di questa ricostruzione plurale del lavoro autonomo resta a mio avviso aperta la possibilità di impiegare, sia pure in una prospettiva descrittiva piuttosto che di stretto diritto positivo, la nozione di categoria “terza” o “intermedia”, per indicare quelle forme di lavoro autonomo che risultano più “compromesse” nella loro morfologia, distanziandosi dal modello puro del contratto d’opera (art. 2222 c.c.). Anche il lavoro autonomo, al cui interno si stagliano con maggiore nettezza di un tempo le forme della “dipendenza economica” o dell’assoggettamento a poteri organizzativi del committente che condizionano sensibilmente l’autonomia del prestatore (magari, come nel caso dei riders, non nella fase “genetica” del rapporto, ma [continua ..]
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9. La disciplina 'ontologicamente incompatibile'
La Cassazione sembra chiudere la porta ad ogni possibile interpretazione selettiva delle tutele, affermando: 1) che «la norma non contiene alcun criterio idoneo a selezionare la disciplina applicabile, che non potrebbe essere affidata ex post alla variabile interpretazione dei singoli giudici» (punto 40); 2) che l’art. 2, comma 1, non descrive una fattispecie intermedia tra autonomia e subordinazione, onde non si pone «la conseguente esigenza di selezionare la disciplina applicabile». Tuttavia, la Corte lascia aperto un pertugio statuendo che «non possono escludersi situazioni in cui l’applicazione integrale della disciplina della subordinazione sia ontologicamente incompatibile con le fattispecie da regolare, che per definizione non sono comprese nell’ambito dell’art. 2094 c.c.» (punto 41). C’è una certa contraddittorietà tra questo punto, peraltro affrontato dalla Corte come mero obiter, e la chiusura verso soluzioni interpretative di matrice selettiva. Eppure, il richiamo all’incompatibilità ontologica apre di fatto una pista di ricerca molto rilevante per i profili applicativi, dalla quale dipenderà in larga misura la possibilità di trovare un bilanciamento tra universalismo e selettività delle tutele nell’ambito delle collaborazioni etero-organizzate. Del resto, anche se la Corte, nella parte ricostruttiva della sentenza, indica nell’art. 2 una norma antielusiva e rimediale (con tutte le contraddizioni sopra evidenziate), al contempo afferma: 1) che le fattispecie incluse nell’art. 2 «non sono comprese nell’ambito dell’art. 2094 c.c.» (punto 41); 2) avvalla la tesi del distinguo normativo tra etero-direzione ed etero-organizzazione; 3) esclude la tesi del tertium genus e conferma che la fattispecie in esame rientra senz’altro nell’alveo del lavoro autonomo. Tale conclusione circa la natura autonoma del rapporto di collaborazione etero-organizzata trova conferma, altresì, nella recente novella che ha sostituito la personalità della prestazione con la prevalente personalità, concetto, quest’ultimo, decisamente incompatibile con il rapporto di lavoro subordinato [10]. Ma se così è, una riflessione più attenta sulla possibilità di ritagliare, nell’ambito [continua ..]
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