Massimario di Giurisprudenza del LavoroISSN 0025-4959
G. Giappichelli Editore

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Il revirement della cassazione in punto di interpretazione dell´art. 18, comma 4, dello Statuto dei lavoratori post riforma 2012 (di Annaclara Conti, Avvocato giuslavorista, Foro di Roma)


Si esaminano due recenti sentenze della Corte di Cassazione in materia di licenziamento illegittimo e di sanzioni disciplinari “conservative” alla stregua del contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro.

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Parole chiave: licenziamento disciplinare – clausole generali della contrattazione collettiva – reintegrazione.

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The “revirement” of the supreme court in relation of art. 18, paragraph 4°, Statuto dei lavoratori after the 2012 amendments

Two recent decisions rendered by the Supreme Court of Italy regarding the subject of unlawful dismissal and “conservative” disciplinary sanctions in the light of the relevant collective agreement applied to the employment relationship are perused.

Keywords: unfair dismissal – general clauses of collective agreements – reinstatement or re-engagement.

SOMMARIO:

1. Premesse - 2. Il precedente orientamento giurisprudenziale - 3. Il revirement della Cassazione - 4. Le insidiose “estremizzazioni” della tesi della sussunzione - 5. Qualche considerazione a margine delle sentenze esaminate - 6. Osservazioni conclusive - NOTE


1. Premesse

Come è noto, la norma introduttiva della tutela reale del posto di lavoro, la legge n. 300/1970 (c.d. Statuto dei lavoratori), che ha precluso al licenziamento ingiustificato l’efficacia estintiva del rapporto di lavoro, è stata fortemente ridimensionata per effetto delle modifiche apportate con la n. 92/2012 (la c.d. legge Fornero) con la quale sono stati introdotti diversi livelli di tutela applicabile. Limitandoci alle previsioni contenute nei novellati commi 4 e 5 dell’art. 18 dello stat. lav., la richiamata legge n. 92/2012 ha introdotto una tutela reintegratoria definita “debole”; caratterizzata per il fatto che all’ordine di reintegrazione si accompagna la condanna del datore di lavoro al pagamento di una indennità risarcitoria, che in ogni caso non potrà superare le dodici mensilità della retribuzione globale di fatto. Tale tutela si applica quando il giudice accerti l’insussistenza del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro perché non sussiste il fatto contestato ovvero perché tale fatto “rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili”. Al 5° comma è previsto che nelle altre ipotesi in cui si accerti che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, il giudice dichiara risolto il rapporto di lavoro sin dalla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto tenendo conto dell’anzianità del lavoratore, del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti. Si tratta della tutela indennitaria c.d. “forte” poiché, a fronte della risoluzione del rapporto di lavoro, prevede una indennità risarcitoria più consistente nel suo ammontare rispetto a quella prevista dalla medesima norma, comma 6, che, in relazione a violazioni procedurali, prevede una forbice tra sei e dodici mensilità, entro la quale procedere alla determinazione dell’indennità risarcitoria più [continua ..]


2. Il precedente orientamento giurisprudenziale

In considerazione di tale nuovo contesto normativo, la Cassazione si era mossa con il rigore necessario alla corretta applicazione del disposto legislativo ed ai principi, sinteticamente enunciati, che l’avevano ispirato. Ed invero, secondo il pregresso indirizzo, la tutela reintegratoria ex art. 18, comma 4, versione 2012, “costituisce l’eccezione alla regola rappresentata dalla tutela indennitaria”, postulando la reintegrazione la “conoscenza preventiva, da parte del datore di lavoro, della illegittimità del provvedimento espulsivo”, ossia “l’abuso consapevole del potere disciplinare” [1]. Pertanto, sulla base di tale ricostruzione, è stato affermato che il licenziamento illegittimo è meritevole della tutela reintegratoria “solo ove il fatto contestato e accertato sia espressamente contemplato da una previsione di fonte negoziale vincolante per il datore di lavoro, che tipizzi la condotta del lavoratore come punibile con sanzione conservativa” [2]. In difetto di tale specifica previsione, alla stregua del riferito precedente indirizzo, non è consentito al giudice applicare la tutela reintegratoria, con operazioni implicanti il ricorso all’analogia o all’interpretazione estensiva al caso non previsto, sul presupposto del pari disvalore disciplinare [3]. Al riguardo pare corretto affermarsi che, mentre l’interpretazione analogica è ammessa solo con riguardo agli atti aventi forza di legge o valore di legge ai sensi dell’art. 12 delle preleggi; l’interpretazione estensiva ai sensi dell’art. 1365 c.c. non è ammessa per norme che introducono un’eccezione alla regola generale: laddove la regola generale, introdotta dal legislatore del 2012, è quella secondo la quale, in caso di licenziamento illegittimo spetta la tutela indennitaria ex art. 18, comma 5, stat. lav.; mentre l’eccezione è data dalla tutela reintegratoria, applicabile, ex art. 18, comma 4, (oltre che per l’insussistenza del fatto contestato) quando per l’infrazione in addebito il ccnl preveda una sanzione conservativa. Coerentemente, sempre il precedente orientamento giurisprudenziale, ha avvisato che “l’apertura all’analogia o a un’interpretazione che allargasse la portata della norma collettiva oltre i limiti sopra delineati (...) produrrebbe [continua ..]


3. Il revirement della Cassazione

A fronte di questo scenario si è, di recente, contrapposta una diversa tesi che trova efficace rappresentazione nella sentenza della Cass. 11 aprile 2022 n. 11665, per la quale: “In tema di licenziamento disciplinare, al fine di selezionare la tutela applicabile tra quelle previste dall’art. 18, commi 4 e 5, della l. n. 300 del 1970, come novellato dalla l. n. 92 del 2012, il giudice può sussumere la condotta addebitata al lavoratore, e in concreto accertata giudizialmente, nella previsione contrattuale che, con clausola generale ed elastica, punisca l’illecito con sanzione conservativa; né detta operazione di interpretazione e SUSSUNZIONE trasmoda nel giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato, restando nei limiti dell’attuazione del principio di proporzionalità, come eseguito dalle parti sociali attraverso la previsione del contratto collettivo”. Orbene, nonostante la Cassazione abbia affermato in motivazione di aver proceduto ad “una necessaria chiarificazione” del proprio precedente orientamento, in realtà i principi enunciati si pongono in netto contrasto con i precedenti, riferiti, arresti giurisprudenziali in materia. Infatti, muovendo dall’ordinanza interlocutoria del 27 maggio 2021, n. 14777, della Sesta Sezione della Corte di Cassazione (c.d. Sezione “filtro”) [10], che ha sollecitato una “ulteriore riflessione” sulla portata dei commi 4 e 5 dell’articolo 18 stat. lav., come modificato dalla legge n. 92/2012, non v’è dubbio che Cass. n. 11665/2022 [11] faccia registrare un significativo revirement di orientamento, offrendo nuovamente larghi margini per l’applicazione della tutela reintegratoria in caso di licenziamento illegittimo. Tutela reintegratoria che, come s’è detto, nelle intenzioni del legislatore del 2012, avrebbe dovuto costituire l’eccezione, rispetto alla regola della tutela indennitaria. Si legge in motivazione che “in tema di licenziamento disciplinare, al fine di selezionare la tutela applicabile tra quelle previste dall’articolo 18 commi 4 e 5 della legge 300 del 20 maggio 1970 […], è consentita al giudice la sussunzione della condotta addebitata al lavoratore ed in concreto accertata giudizialmente nella previsione contrattuale che punisca l’illecito con sanzione conservativa [continua ..]


4. Le insidiose “estremizzazioni” della tesi della sussunzione

Tale preoccupata previsione, pare trovare conferma nella giurisprudenza che, a quanto consta, da ultimo s’è pronunciata in materia; vale a dire in Cass. 28 giugno 2022, n. 20780, nella quale si legge che qualora, in materia di licenziamento disciplinare, “nel testo della disposizione pattizia vi sia una mera elencazione dei provvedimenti disciplinari applicabili, senza alcuna previa individuazione delle condotte, ma con un rinvio a clausole generali quali la gravità o recidività della mancanza o il grado della colpa, la mancata tipizzazione non preclude al giudice di svolgere quell’attività di interpretazione integrativa del precetto normativo, sempre al fine di individuare quale sia la tutela in concreto applicabile”. Deve precisarsi che, nel caso scrutinato dalla richiamata pronuncia [16], la contrattazione collettiva non individua, neppure con clausole generiche o elastiche, eventuali condotte, disciplinarmente rilevanti, punibili con sanzione conservativa; nondimeno, la Suprema Corte, sulla scorta dei precedenti, citati arresti, nei quali la contrattazione collettiva una qualche, seppur generica, previsione la conteneva, demanda al giudicante “l’interpretazione della fonte negoziale per verificare la sussumibilità del fatto contestato nella previsione collettiva anche attraverso una valutazione di maggiore o minore gravità della condotta”; precisando, al pari delle recenti rammentate pronunce, che “Tale operazione non si esaurisce in una generica valutazione di proporzionalità della stessa rispetto alla sanzione irrogata, dal che deriverebbe l’applicazione dello Statuto, articolo 18, comma 5, ma realizza una vera e propria sussunzione dei fatti contestati al dipendente nell’una o nell’altra fattispecie contemplata dalla disciplina collettiva. Ed infatti la tutela reintegratoria attenuata dettata dallo Statuto dei lavoratori riformulato, articolo 18, comma 4, è applicabile in presenza di una valutazione di non proporzionalità attraverso il parametro della riconducibilità della condotta accertata ad una ipotesi punita con sanzione conservativa dalla contrattazione collettiva. L’interpretazione della norma collettiva formulata attraverso una clausola generale o elastica non può prescindere evidentemente da un giudizio che afferisce alla ricostruzione della portata precettiva di una norma. [continua ..]


5. Qualche considerazione a margine delle sentenze esaminate

I provvedimenti ricordati, di cui si è cercato di sintetizzare i passaggi più significativi, paiono in primo luogo, evidenziare alcuni limiti dell’impianto normativo del 2012, concepito, per la parte qui di interesse, in chiave di riforma della disciplina del licenziamento individuale; ma che, come rilevato da subito da autorevole dottrina, è risultato “un infelice compromesso tecnico” tra istanze provenienti da opposte forze politiche, giacché “una legge tecnicamente discutibile partorita da un esecutivo tecnico è un ossimoro difficile da digerire” [17]. La ratio sottesa alla modifica del testo dell’art. 18 stat. lav., in considerazione del mutato contesto economico e sociale in cui si collocava la c.d. riforma Fornero, s’è detto che era quella di limitare ad ipotesi residuali gli effetti ripristinatori del rapporto di lavoro, in caso di licenziamento illegittimo; prediligendo la tutela indennitaria forte, calibrata nella sua entità a seconda del grado di illegittimità del licenziamento. Del resto, l’obiettivo, più o meno dichiarato, era anche quello di deflazionare il contenzioso, incrementando invece soluzioni conciliative di tipo economico. Di fatto – “anche grazie al ruolo decisivo della giurisprudenza, che utilizzando l’incerta formulazione del nuovo testo normativo, ha evitato di adeguarsi alla ratio della riforma” [18] – si è verificato un incremento del tasso di incertezza delle soluzioni interpretative adottabili e si è assistito a un nuovo fenomeno di attribuzione di importanti ruoli di “supplenza” della magistratura, con inevitabile esposizione della norma al rischio di letture pregiudiziali ed ideologiche. E infatti, la dottrina più attenta ha da subito messo in luce che, a differenza del caso in cui il vizio di proporzionalità sia palese ed accertabile a priori, in quanto tabellata dal c.c.n.l. la minore sanzione irrogabile per quella determinata infrazione, quando la contrattazione collettiva non preveda un chiaro catalogo di infrazioni perseguibili con sanzione non espulsiva, il giudizio di “sproporzione è frutto di una opinabile (e non sempre prevedibile) valutazione giudiziale: il che, come dire, attenua la colpevolezza di chi ha malamente esercitato il potere disciplinare, eccedendo nella scelta della [continua ..]


6. Osservazioni conclusive

Conclusivamente, ribadita la fragilità normativa della disposizione di cui all’art. 18 nella sua nuova formulazione, e quindi la sua naturale esposizione a possibili interpretazioni contrastanti, devono però sottolinearsi le non poche perplessità che suscitano i rimedi offerti dal nuovo orientamento della Suprema Corte. Come già accennato, prima l’opera di sussunzione prevista dalla Cassazione n. 11665/2022 (e le altre consimili ricordate) e poi l’interpretazione integrativa/addi­tiva di cui alla sentenza della Suprema Corte n. 20780/2022 in particolare, portano a mettere in discussione il principio ispiratore della riforma del 2012 che è quello secondo cui il giudice non debba operare un giudizio di proporzionalità rispetto alla fattispecie conosciuta ai fini della tutela reintegratoria; e ciò sia con riferimento a situazioni in cui la norma contrattuale collettiva non preveda tipizzazioni stringenti, ma clausole generiche e fattispecie imprecisate o elastiche, sia con riferimento a situazioni in cui il contratto collettivo non contenga la casistica e nemmeno la gradazione di gravità: se l’attività del magistrato, come consentita e avallata dalla Cassazione, non integra una valutazione di proporzionalità e gravità ai fini dell’individuazione della tutale reintegratoria, non si può negare che ci si trovi ai limiti; quando non oltre. Ma la questione potrebbe non limitarsi all’interpretazione dell’art. 18 della legge n. 300/1970. Si ricorda, a tale proposito, che le questioni poste dalle sentenze commentate riguardano soltanto la disciplina dei licenziamenti contenuta nello Statuto dei lavoratori e non anche a quella relativa ai licenziamenti in cui sono implicati lavoratori assunti a partire dal 7 marzo 2015, cui si applica il d.lgs. n. 23/2015: il c.d. Jobs Act. Quest’ultima disciplina, infatti, non solo ha fatto venir meno una delle due ipotesi di tutela reale previste dall’art. 18, comma 4, ma ha anche esplicitamente escluso “ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento”, limitando così il sindacato del giudice, ai fini della reintegra, all’accertamento della “insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore” (art. 3, comma 2, d.lgs. n. 23/2015) [23]. Il contrasto tra la legge Fornero, così come interpretata, e la successiva [continua ..]


NOTE
Fascicolo 3 - 2022