Massimario di Giurisprudenza del LavoroISSN 0025-4959
G. Giappichelli Editore

indietro

stampa articolo indice fascicolo leggi articolo leggi fascicolo


Il finto permesso sindacale: la bugia che il datore di lavoro non perdona (di Eleonora Petringa, Avvocato giuslavorista nel Foro di Roma)


>

Cassazione civile – Sez. lav. – sent. 6 settembre 2022, n. 26198 – Pres. Doronzo – Rel. Pagetta

< >

È legittimo il licenziamento comminato dal datore di lavoro nei confronti del prestatore che usufruisce di un giorno di permesso sindacale per dedicarsi ad attività personali, non riconducibili alla funzione per cui il permesso era stato riconosciuto, a nulla rilevando che per l’assenza ingiustificata di un giorno o per l’abban­dono della postazione di lavoro il contratto collettivo preveda una mera sanzione conservativa.

Tanto poiché l’indebito utilizzo del permesso sindacale ha rilievo sul piano disciplinare, integrando gli estremi dell’abuso del diritto e, pertanto, non può essere esaminato nella più ridotta prospettiva delle sole giornate di assenza ingiustificata.

<
SOMMARIO:

1. Il caso - 2. I concetti di licenziamento disciplinare e di proporzionalità della sanzione - 3. La tipizzazione della condotta disciplinarmente rilevante da parte della contrattazione collettiva e i limiti (o non limiti) del sindacato giurisdizionale - 4. Brevi riflessioni conclusive - NOTE


1. Il caso

Il caso riguarda il licenziamento di un lavoratore per indebita fruizione del permesso sindacale concessogli dall’azienda ex art. 30 legge n. 300/1970. All’esito della fase sommaria il licenziamento impugnato era stato ritenuto sproporzionato. La sentenza emessa a seguito del giudizio di opposizione dichiarava invece legittimo il licenziamento e in sede di reclamo veniva confermata. La Suprema Corte con l’ordinanza n. 26198/2022 ha rigettato il ricorso del lavoratore e, nel confermare anch’essa la legittimità del licenziamento, ha escluso che la fattispecie concreta – l’utilizzo da parte del dipendente del permesso sindacale per dedicarsi ad attività personali, in particolare per lo svolgimento di attività lavorativa in favore di terzi – fosse riconducibile alle norme collettive che puniscono con una mera sanzione conservativa l’assenza ingiustificata dal lavoro. Per gli Ermellini infatti non si tratta di un’assenza ingiustificata ma di un comportamento del dipendente connotato da un quid pluris rappresentato dalla utilizzazione del permesso sindacale per finalità diverse da quelle istituzionali; questo, secondo la Suprema Corte, esclude la riconducibilità della condotta alle richiamate norme collettive che puniscono con sanzione conservativa la assenza dal lavoro, la mancata presentazione o l’abbandono ingiustificato del posto di lavoro. Secondo la Corte di legittimità, infatti, la condotta del dipendente configura un vero e proprio abuso del diritto, sanzionabile sul piano disciplinare con il licenziamento.


2. I concetti di licenziamento disciplinare e di proporzionalità della sanzione

Per la Suprema Corte, quindi, le bugie del lavoratore non sono tutte uguali, alcune possono scuotere la fiducia del datore di lavoro fino al punto di causare (e giustificare) il licenziamento del dipendente. La pronuncia, nella sua trama argomentativa, richiama concetti chiave del diritto del lavoro (primo fra tutti, quello di licenziamento disciplinare) che è opportuno tratteggiare al fine di percepire l’essenza del principio di diritto enunciato dalla Corte. Appare utile ricordare che la definizione di licenziamento disciplinare non è presente nei testi di legge: dove infatti troviamo solo un riferimento al licenziamento individuale per «giusta causa» (art. 1, legge n. 604/1966, che rinvia per la relativa nozione all’art. 2119 c.c.) o al licenziamento per «giustificato motivo», que­st’ul­timo può dipendere «da un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro ovvero da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’or­ganizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa» (art. 3, legge n. 604/1966) [1]. E così alla nozione di licenziamento disciplinare si approda escludendo i licenziamenti che sono motivati da ragioni organizzative o produttive e quelli che dipendono da vicende che, sebbene riguardanti la persona del lavoratore, non abbiano rilevanza sul piano disciplinare (si pensi ad esempio alla sopravvenuta inidoneità alle mansioni e al licenziamento per superamento del periodo di comporto del lavoratore assente per malattia o infortunio) [2]. Per disciplinare quindi si intende il licenziamento intimato per motivi connessi alla condotta del lavoratore, tali da determinare la lesione del vincolo fiduciario tra datore e dipendente [3]. La condotta del lavoratore, disciplinarmente rilevante, può sua volta costituire giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento, due ipotesi che si differenziano sostanzialmente per l’intensità della lesione e per gli effetti che ne conseguono: se l’inadempimento appare talmente grave da non consentire «la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto», per come si esprime l’art. 2119 c.c., il datore di lavoro potrà recedere immediatamente, senza cioè essere tenuto al preavviso; se invece l’inadempimento del lavoratore è «notevole», come recita [continua ..]


3. La tipizzazione della condotta disciplinarmente rilevante da parte della contrattazione collettiva e i limiti (o non limiti) del sindacato giurisdizionale

Venendo a esaminare l’ipotesi in cui l’illecito disciplinare è tipizzato nel contratto collettivo, è opportuno ricordare come sia opinione comune tanto in dottrina quanto in giurisprudenza che, poiché la giusta causa di licenziamento è una nozione legale, il giudice non può ritenersi vincolato dalle previsioni dettate al riguardo dal contratto collettivo, potendo e dovendo ritenere la sussistenza della giusta causa per un grave inadempimento o per un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile, ove tale grave inadempimento o tale grave comportamento abbia fatto venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore, e potendo e dovendo specularmente escludere che il comportamento del lavoratore costituisca di fatto una giusta causa, pur essendo qualificato tale dal contratto collettivo, in considerazione delle circostanze concrete che lo hanno caratterizzato [9]. Anche il tenore letterale dell’art. 30 della legge 4 novembre 2010, n. 183 (il “Collegato Lavoro”), secondo cui «Nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento, il giudice tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi ovvero nei contratti individuali di lavoro …», lascia intendere che le previsioni contrattuali possono sì costituire un parametro di riferimento per la valutazione giudiziale, ma non condizionano l’intervento del giudice. Quindi la tipizzazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta nei contratti collettivi ha un valore meramente esemplificativo e non è vincolante per il giudice. Il giudice può fare riferimento ai contratti collettivi e alle valutazioni che le parti sociali compiono in ordine alla valutazione della gravità di determinati comportamenti rispondenti, in linea di principio, a canoni di normalità ma il relativo accertamento va operato caso per caso, valutando la gravità alla luce delle circostanze di fatto del caso concreto, prescindendo dalla tipologia determinata dai contratti collettivi. Di conseguenza, il giudice si può spingere fino al punto di escludere che il comportamento addebitato al lavoratore costituisca una giusta causa, pur essendo qualificato come tale dai contratti [continua ..]


4. Brevi riflessioni conclusive

La sentenza in commento si inserisce nel solco tracciato dai citati orientamenti, riproponendo [13] la connessione – per nulla scontata – tra abuso del diritto e giusta causa di licenziamento a cui in passato la giurisprudenza ha fatto rare volte ricorso. Ora, senza poter approfondire, nel caso di specie, tutta la complessa tematica dell’abuso del diritto – categoria non espressamente disciplinata nel nostro codice civile – qui è sufficiente richiamare la definizione classica di abuso, che si sostanzia nella condotta di chi esercita un diritto per finalità diverse da quelle per cui gli è stato riconosciuto dall’ordinamento [14]. Proprio alla luce di tale definizione la Cassazione, nella fattispecie, è giunta a qualificare la condotta del lavoratore come una ipotesi di abuso del diritto, in quanto nel caso concreto il permesso sindacale è stato utilizzato dal dipendente per finalità estranee a quelle per cui è normativamente riconosciuto [15]. Già in altre occasioni la Suprema Corte era stata interrogata sulle conseguenze derivanti dall’impiego (o uso improprio) di un permesso sindacale per motivi personali, pur non ravvisando l’esistenza di una giusta causa di licenziamento. Infatti in passato ha ritenuto che l’indebita utilizzazione dei permessi sindacali si traducesse in una mancanza della prestazione per causa imputabile al lavoratore e che quindi comportasse esclusivamente la cessazione dell’obbligo retributivo dovuto per la fruizione del permesso [16]. Altrove la Suprema Corte era giunta alla conclusione opposta a quella della sentenza quest’oggi esaminata, confermando la decisione dei giudici di appello che, nonostante l’acclarata irregolarità compiuta dal lavoratore (un sindacalista che in diverse occasioni aveva ottenuto il permesso per essere presente a una riunione organizzata dalla propria sigla sindacale ma che, in realtà, non vi aveva preso parte, risultando comunque assente giustificato in azienda), avevano ritenuto sproporzionata la sanzione del licenziamento [17]. Nella sentenza di cui si tratta invece, la Corte, pur partendo dalle medesime premesse giuridiche perviene a una conclusione diversa: l’abuso e lo scorretto utilizzo del permesso sindacale legittimano (e come) il licenziamento [18]. Rammenta la Cassazione – nella pronuncia in commento – [continua ..]


NOTE