Massimario di Giurisprudenza del LavoroISSN 0025-4959
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Doppia conforme: le sezioni unite e il riscatto della posizione di previdenza complementare nei fondi preesistenti (di Emilio Rocchini, Professore a contratto di Diritto del lavoro – Università degli Studi Link di Roma)


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Cassazione civile, Sez. Un., sentenza 14 aprile 2022, n. 12209 – Pres. Spirito-Rel. Mancino

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In tema di previdenza complementare, il diritto alla portabilità della posizione previdenziale individuale, previsto originariamente dall’art. 10 del d.lgs. n. 124/1993 ed oggi dall’art. 14 del d.lgs. n. 252/2005, comportante il trasferimento dei contributi maturati da un dipendente, cessato prima di aver conseguito il diritto alla pensione complementare, verso un fondo cui il medesimo acceda in relazione ad una nuova attività, si applica a tutti i fondi complementari preesistenti all’entrata in vigore della L. n. 421/1992, indi-pendentemente dalle loro caratteristiche strutturali, ivi compresi quelli funzionanti secondo il sistema c.d. a ripartizione o a capitalizzazione collettiva e a prestazione definita, essendo comunque ravvisabile una posizione individuale di valore determinabile, la cui consistenza va parametrata ai contributi versati al fondo, compresi quelli datoriali, ed ai rendimenti provenienti dal loro impiego produttivo.

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SOMMARIO:

1. L’antefatto - 2. Il nuovo dictum delle Sezioni Unite - 3. La nozione di posizione individuale: il tema dei rendimenti - 4. Critiche, ma non troppe, alla conferma giurisprudenziale: coerenze e dissonanze nel sistema di previdenza complementare - NOTE


1. L’antefatto

In contrasto con gli orientamenti espressi da ampia e autorevolissima parte della dottrina [1], le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, ormai sette anni or sono, intervennero per statuire l’applicabilità dell’art. 10, d.lgs. n. 124/1993 (ora “assorbito” dall’art. 14, d.lgs. n. 252/2005 [2]) nella parte in cui consentiva (e consente) il riscatto (ma più in generale la “mobilità”) della posizione individuale di previdenza complementare a tutte le forme pensionistiche complementari [3]. La questione, nello specifico, si era posta in riferimento ai fondi pensione cd. preesistenti (id est, istituiti prima dell’entrata in vigore della legge n. 421/1992) [4] a prestazioni definite e retti da una gestione a ripartizione, per i quali la giurisprudenza di merito [5] e di legittimità [6] dominanti ritenevano non applicabile la regola del riscatto/trasferimento della integrale – cioè comprensiva anche degli eventuali contributi datoriali – posizione individuale stabilita dall’art. 10, d.lgs. n. 124/1993 [7]. Contro tale orientamento, tuttavia, era lentamente emerso un differente indirizzo, per cui il mancato richiamo dell’art. 10 menzionato da parte dell’art. 18, d.lgs. n. 124/1993 – relativo alle disposizioni non applicabili alle forme pensionistiche preesistenti (oggi identificate dall’23, d.lgs. n. 252/2005) – avrebbe determinato l’estensione sic et simpliciter della regola del riscatto/trasferimento integrale a tutti i fondi pensione, senza distinzione alcuna in merito alla loro conformazione o alle regole di gestione [8]. L’intervento delle Sezioni Unite ha composto il contrasto creatosi aderendo a questa seconda opinione giurisprudenziale, sia in ragione della mancata “moratoria” operata circa la portata dell’art. 10 in parola anche ai fondi preesistenti; sia in conseguenza della affermata possibilità di enucleare e quantificare tempo per tempo una posizione individuale anche nelle forme pensionistiche a ripartizione e a prestazioni definite, resa possibile per il tramite dell’applicazione di specifiche metodologie di calcolo elaborate dalla statistica e matematica attuariale; che, infine, in riferimento alla asserita applicabilità dell’art. 1925 c.c. alla previdenza complementare. Ebbene, proprio il [continua ..]


2. Il nuovo dictum delle Sezioni Unite

La successiva giurisprudenza si è assestata sulle posizioni espresse dalle Sezioni Unite [16]. Cionondimeno, la questione non poteva dirsi ancora conclusa, poiché la pronuncia del 2015, pur affermando l’esistenza di un diritto generale alla portabilità/riscatto della posizione individuale, lasciava irrisolta l’essenziale questione relativa all’esatta determinazione dell’oggetto – la posizione o “quota” individuale ex art. 2123 c.c. [17] – del trasferimento/riscatto. L’occasione per approfondire anche tale tema si è, dunque, concretizzata in occasione dell’ordinanza interlocutoria di remissione [18] che ha originato la sentenza che qui si commenta. Nell’occasione, peraltro, i giudici a quibus non si sono limitati a chiedere se nella nozione di posizione individuale insieme ai contributi datoriali e del lavoratore dovessero essere computati anche i rendimenti che questi hanno prodotto o avrebbero potuto produrre; ma hanno anche sollecitato un possibile ripensamento della precedente opinione delle Sezioni Unite, evidenziando alcune delle principali debolezze del percorso argomentativo allora seguito. Sotto tale profilo, l’ordinanza di remissione ha sottolineato l’evidente contraddizione rispetto a quanto statuito dalle stesse Sezioni Unite nella coeva sentenza relativa alla qualificazione della natura delle somme versate ai fondi pensione [19]. Tale pronuncia, infatti, seppur obiter dictum, aveva affermato che «la sostanziale autonomia fra rapporto di lavoro e previdenza complementare, trovano una conferma decisiva nel rilievo che, in caso di cessazione del rapporto senza diritto alla pensione integrativa …, il dipendente non ha alcun diritto alla percezione dei contributi versati dal datore di lavoro» e che «l’obbligazione che il datore di lavoro assume con il sistema di previdenza integrativa nei confronti del Fondo non è monetizzabile a favore del lavoratore, come accade invece per alcuni benefit» [20]. In secondo luogo, poi, richiamando le perplessità già avanzate dalla dottrina [21], l’ordinanza di remissione evidenzia come il ragionamento delle Sezioni Unite finisca, sul piano sistematico, con lo svalutare del tutto l’interesse mutualistico collettivo sotteso al progetto previdenziale; e, sul piano della [continua ..]


3. La nozione di posizione individuale: il tema dei rendimenti

Senza risolvere appieno le criticità già sollevate in relazione alla sentenza del 2015, dunque, le Sezioni Unite confermano la portata generale del principio espresso dall’art. 10, d.lgs. n. 124/1993 e dall’art. 14, d.lgs. n. 252/2005, nel senso di garantire la portabilità/riscattabilità della posizione individuale, indipendentemente dalla conformazione e dal regime di operatività della forma pensionistica complementare. L’intervento giurisprudenziale in commento, tuttavia, non si limita alla mera conferma del precedente. Come accennato, infatti, la richiesta del Giudice remittente riguardava l’esatta quantificazione della somma da trasferire/riscattare e, nel dettaglio, la computabilità nella stessa dei rendimenti maturati o maturabili, atteso che eventuali dubbi in ordine alla computabilità del contributo datoriale, fermi i dubbi già richiamati, potevano dirsi già fugati alla luce del dictum del 2015 [28]. Ebbene, nonostante le autorevolissime avvertenze della dottrina [29] (che le Sezioni Unite dimostrano di ben conoscere citandone ampi estratti), i Giudici di legittimità scelgono di dar rilevo alla possibilità tecnica di determinazione della reddittività della forma pensionistica complementare includendovi anche i rendimenti, alla condizione, però, che la forma pensionistica di appartenenza sia dotata di una certa autonomia gestionale e contabile, idonea a imputare direttamente al fondo i proventi degli atti di disposizione effettuati. In altre parole, secondo le Sezioni Unite nella posizione individuale oggetto di trasferimento devono essere considerati, oltre ai contributi datoriali e dell’iscritto, anche i rendimenti finanziari medio tempore maturati, a patto, però, che il fondo abbia effettivamente investito le proprie risorse e che la relativa redditività sia stata imputata al patrimonio del fondo medesimo. Ne risulterebbe, quindi, l’esclusione di ogni possibilità di includere i valori degli investimenti per tutte quelle forme pensionistiche complementari (ormai in esaurimento) prive di soggettività giuridica e autonomia gestionale in quanto strutturate unicamente alla stregua di “promesse pensionistiche” assunte dal datore di lavoro. La distinzione operata in merito alla computabilità dei rendimenti dai Giudici sarebbe avvalorata [continua ..]


4. Critiche, ma non troppe, alla conferma giurisprudenziale: coerenze e dissonanze nel sistema di previdenza complementare

Le conclusioni cui giunge la sentenza esaminata appaiono solo parzialmente soddisfacenti e non solo perché dimostrano di non aver compreso né maturato alcuna delle critiche mosse al proprio precedente pronunciamento del 2015. Resta, infatti, del tutto irrisolto il nodo del rapporto antinomico e conflittuale tra gli interessi mutualistici e collettivi sottesi al progetto della forma pensionistica complementare preesistente e quelli “egoistici” dell’individuo che, alla ricerca del miglior rendimento o nell’intenzione di capitalizzare una possibile prestazione di previdenza complementare, sceglie di sottrarsi e sottrarre risorse a quel progetto pensionistico. Parimenti irrisolta – e strettamente connessa al primo profilo da ultimo evocato – è la considerazione connaturata al regime gestionale a ripartizione e a prestazione definita che fa sì che l’importo delle pensioni complementari non corrisponda alla provvista versata da lavoratore e datore di lavoro, interiorizzando quegli elementi, appunto, di solidarietà irrimediabilmente svalutati dall’indirizzo espresso dalle Sezioni Unite. Né convincente appieno è la tesi propugnata per cui l’interpretazione che consente la portabilità/riscatto della posizione individuale comprensiva dei contributi del datore di lavoro e dei rendimenti sarebbe funzionale alla garanzia di mezzi adeguati alle esigenze di vita degli iscritti. Come accennato in precedenza, infatti, i fondi pensione cui si intende applicare tale regola sono quelli destinati ai soggetti “vecchi iscritti” aderenti prima del 1993 a forme pensionistiche istituite antecedentemente al 1992: sono soggetti, quindi, per i quali in larghissima parte non può parlarsi di un arretramento della previdenza pubblica tale da comportare il rischio di riconoscimento di prestazioni inadeguate. Eppure, non può sottacersi come, da una parte, il pronunciamento commentato sia indicativo e coerente rispetto all’evoluzione normativa della previdenza complementare, divenuta sempre di più uno strumento di investimento mobiliare chiamato a favorire lo sviluppo del mercato finanziario [31], in cui la valorizzazione della volontà individuale permea intensamente ogni momento della “vita” pensionistica complementare dell’iscritto, fino ad ammettere forme tralaticie di [continua ..]


NOTE
Fascicolo 3 - 2022